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Umorismo, facezie, testi letterari curiosi


Poggio Bracciolini
LE FACEZIE



| I - XXX | XXXI - LX | LXI - XC | XCI - CXX | CXXI - CL |

| CLI - CLXXX | CLXXXI - CCXX | CCXXI - CCL | CCLI - CCLXXII |

INDICE DEI TITOLI




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FACEZIE DA CCLI a CCLXXII


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CCLI

DI UN USURAIO CHE FINSE DI PENTIRSI E FECE PEGGIO

Venne una volta ad un vecchio usuraio, che simulava di avere smesso il mestiere, un tale a cercare denaro ad usura, e gli portò in pegno una croce d'argento, nella quale era una particella del legno della croce di nostro Signore; e avendo chiesto al vecchio il danaro: «Io», disse questi, «ho già smesso di commettere questo peccato di dare ad usura; ma va' da mio figlio, (e gli disse il nome), il quale vuol perdere l'anima sua e domanda a lui il prestito». E mandò seco un servo perché gli insegnasse la casa dove abitava il figliuolo; erano già lontano, quando il vecchio richiamò il servo: «Ohè tu», gli disse, «di' a mio figlio, che si ricordi di detrarre dalla croce il peso del legno». E quest'uomo, che pareva pentito, non volle che suo figlio stimasse per argento il legno della croce, credendolo di minor prezzo. Ognuno torna facilmente alla sua abitudine.

CCLII

FAVOLA DEGLI UCCELLETTI CHE PARLAVANO RETTAMENTE

Un tale prendeva degli uccelletti che erano chiusi in una gabbia e li uccideva stringendo loro la testa. E mentre ciò faceva, prese per caso, a gemere lacrime dagli occhi. Allora uno degli uccelli carcerati disse agli altri: «State di buon animo, perché ora lo vedo lacrimante, ed avrà compassione di noi». E il più vecchio rispose: «Figlio mio, non guardargli agli occhi, ma alle mani». E mostrò come non si debba por mente alle parole, ma bensì alle opere.

CCLIII

UN TALE SI CINSE IL COLLO CON VARIE CATENE E FU
RIPUTATO PIU' STOLTO

Un tale di Milano, soldato millantatore, di stirpe di cavalieri, venne a Firenze ambasciatore, e tutti i giorni per ostentazione portava al collo catenelle di vario genere. Vide la sciocca vanità di costui Niccolò Niccoli, che fu uomo dottissimo e arguto: «Quegli altri matti», disse, «soffrono di essere legati ad una catena sola; costui invece è tanto matto, che di una catena non si contenta».

CCLIV

FACEZIA DI RIDOLFO SIGNOR DI CAMERINO CONTRO UN
AMBASCIATORE CHE INVEI' CONTRO I SIGNORI

Nella guerra che si fece fra Papa Gregorio XI e i Fiorentini, il Picentino e quasi tutte le province Romane abbandonarono la causa del Pontefice. L'ambasciatore di Recanati, mandato a Firenze, venne a ringraziare i Priori della libertà che i Recanatesi avevano avuto per aiuto dei Fiorentini ed inveì con gravi parole contro il Pontefice e i suoi ministri, e principalmente contro tutti i Signori e i tiranni, detestando il loro cattivo governo e i loro delitti, non avendo alcun rispetto né anche per Ridolfo, che allora era capitano dei Fiorentini, il quale per questo assisteva alle udienze degli ambasciatori e udì la lunga detrazione che di lui si fece. Allora Ridolfo chiese all'ambasciatore di che facoltà o arte fosse, e quegli rispose esser dottore in diritto civile, e Ridolfo gli chiese ancora per quanti anni avesse studiate le leggi. E avendo risposto quello, che per più di un decennio aveva data opera a quegli studi: «Come vorrei», esclamò Ridolfo, «che tu per un anno solo avessi studiata la discrezione!». E rispose degnamente con quelle parole a quello stolto, che essendo egli presente aveva tanto detto male de' Signori.

CCLV

DI UN PORCO CHE ROVESCIO' UN VASO D'OLIO IN CASA
DI UN GIUDICE

Un tale che era giudice di un litigio, ebbe da uno dei litiganti un orcio d'olio, con la promessa che la sentenza sarebbe a quello favorevole; quando l'altro seppe la cosa, mandò al giudice un porco grasso, pregandolo che lo favorisse. Ed egli dié la sentenza in favore di quello del porco, e all'altro che si lamentava seco e della mancata promessa e dell'olio mandato, disse il giudice: «Venne in mia casa un porco, e quando trovò il vaso dell'olio lo ruppe, e sparse l'olio; ed è così che io ho dimenticato». E questa per quel giudice venale fu un'eccellente risposta

CCLVI

RISPOSTA FACETA DI UN UOMO CALVO A DUE GIOVANI

Due ragazze erano alla finestra della loro casa che dava su di un orto, e in quel mezzo uscì l'ortolano, vecchio e calvo, per mangiare; e avendolo visto deforme per la calvizie, gli chiesero se desiderava sapere il modo di far nascere i peli. Ed avendo risposto che ciò desiderava, dissero le giovani per giuoco che si lavasse il capo coll'urina della moglie. Ed egli, voltosi verso di loro: «Questa vostra medicina», disse ridendo, «non è punto buona; e lo provai col fatto: poiché da trent'anni lavo in quel modo questo amico mio (e lo additò con la mano) e pur tuttavia né anche un pelo gli è spuntato su1 capo».

CCLVII

DI «MESSER PERDE IL PIATO»

Enrico da Monteleone era procuratore delle cause nella Curia Romana, ed era assai vecchio, e assai ignorante nell'arte sua; e per questo aveva il soprannome di Messer perde il piato. Una volta che gli chiesero per qual ragione perdesse sempre le sue cause: «Perché», rispose, «tutti quelli che chiedono il mio patrocinio voglion le cose ingiuste, e per questo in qualunque causa sono inferiore». E questa fu una graziosa risposta di quell'uomo ignorante.

CCLVIII

DI UNA CANZONE CHE PIACE AGLI OSTI

Un viaggiatore affamato si fermò ad una taverna e riempì il ventre di cibo e di vino; e quando l'oste gli chiese il denaro, rispose che non aveva un soldo, ma che gli avrebbe cantato delle canzoni. E il taverniere soggiunse che non ci volevano canzoni, ma denari. E l'altro: «Se ti dirò una canzone che ti piaccia, la prenderai tu pe' il denaro?». E l'oste acconsentì, e il viandante ne cantò una. Chiese all'oste se gli piacesse, e questi scosse il capo; e il viaggiatore ne disse un'altra ed un'altra ancora; e l'oste disse che non gli piaceva: «Ora», disse l'altro, «te ne dirò una che ti piacerà». E cavata la borsa, come se la volesse aprire, intonò la canzone dei viaggiatori: «Metti mano alla borsa e paga l'oste» . E; quando ebbe finito, chiese se gli piacesse: «Questa mi piace», rispose. E il viandante: «Per i1 patto che abbiam fatto, tu se' pagato; perché questa canzone ti è piaciuta». E se ne andò senza pagare.

CCLIX

FACETA RISPOSTA RIGUARDO AD UN UOMO MAGRO

Un nostro concittadino, mio amicissimo, è di corpo molto magro e macilento. Un giorno uno se ne meravigliava e ne chiedeva la ragione, ed un altro argutamente gli rispose: «Perché meravigliate di così semplice cosa? egli sta mezz'ora a tavola a mangiare, e a metter fuori le materie del corpo perde due ore». Alcuni hanno davvero costume di perdere molto tempo a sgombrarsi il ventre.

CCLX

FACETA RISPOSTA DI UNA DONNA CHE AVEVA
IL CALAMAIO VUOTO

Una signora, nostra concittadina, onestissima donna, era richiesta da un messaggero se non avesse ella lettere da consegnargli per suo marito, che era lontano, ambasciatore della Repubblica: «Come mai», rispose, «potrei io scrivere, se mio marito ha portato seco la penna ed ha lasciato vuoto il calamaio?». Faceta ed onesta risposta.

CCLXI

RISPOSTA GRAZIOSA SULLA SCARSITA DEGLI AMICI DI DIO

Uno dei nostri concittadini, che era uomo molto arguto, era da molto tempo tormentato da grave malattia. E venne a lui un frate per esortarlo alla pazienza e, fra le altre parole di consolazione, gli disse che Dio soleva infliggere dei mali a coloro che egli amava: «Non mi meraviglio», disse il malato, «che Iddio abbia così pochi amici; ché se li tratta in questo modo, ne avrà anche meno».

CCLXII

DI UN FRATE DI SANT'ANTONIO DI UN LAICO E DI UN LUPO

Uno di quei frati che vanno intorno e chieggono la elemosina per Sant'Antonio, persuase un contadino a dargli non so qual frumento, con la promessa che tutte le cose sue, e specialmente le pecore, sarebbero per un anno immuni da danno qualsiasi. E il villano, fidando sopra questa promessa, lasciò liberamente vagare le sue pecore, e un lupo glie ne mangiò molte. Sdegnato per questa cosa, quando, l'anno dopo, il frate tornò pel frumento, negò di darglielo, e si lamentò anche che fossero state vane le sue promesse. E chiestane il frate la ragione, rispose il villano che il lupo gli aveva rapito le pecore: «I1 lupo», disse l'altro; «oh! oh! è esso una cattiva bestia, e non te ne fidare; non solo ingannerebbe Sant'Antonio, ma lo stesso Cristo se potesse». Ed è cosa stolta aver fede in coloro che fanno mestiere della frode.

CCLXIII

MERAVIGLIOSA COMPENSAZIONE FRA PENITENTE E CONFESSORE

Un tale, o sul serio o per ingannare il prete, andò da questo, dicendogli che voleva confessare i suoi peccati. E invitato a dire ciò che si ricordasse, disse che aveva rubata non so che cosa di nascosto ad un altro, ma aggiunse che quello aveva molto più rubato a lui. E il sacerdote: «Una cosa», disse, «si computa coll'altra e siete pari»,. Poi aggiunse che aveva bastonato qualcuno, ma che aveva ricevuto anch'egli qualche colpo; e nella stessa guisa, disse il prete, che uguale era la colpa e la pena. E avendo nello stesso modo parlato di molte cose, il sacerdote dissegli che una cosa coll'altra si compensava. E il penitente: «Ora», disse, «rimane un peccato del quale mi vergogno ed arrossisco, con voi specialmente che ne siete offeso». E avendolo il sacerdote esortato a lasciar la vergogna e a dire liberamente dove avesse peccato, egli resistette lungamente, poi mosso dall'insistenza del sacerdote: «Io», disse, «ho avuto tua sorella». «Ed io», disse il prete, «ho più volte avuta tua madre, e come per le altre cose, l'una compensa l'altra». E per questa eguaglianza di peccato lo assolse.

CCLXIV

DETTI ARGUTISSIMI DI DUE FANCIULLI FIORENTINI

Un fanciullo di Firenze portava nell'Arno di quelle reti che servono per lavar le lane; un altro fanciullo che incontrò, gli chiese per giuoco: «A che caccia vai con coteste reti?». E l'altro: «Vado all'uscita del lupanare per vedere di prender tua madre». «Ah!», rispose l'altro, «sta' ben in guardia e fa' con diligenza, che troverai anche la tua». E ambedue furono argute risposte.

CCLXV

CONFUSIONE DI UN GIOVANE CHE PISCIO' SULLA
TAVOLA DA PRANZO

Un giovane nobile ungherese, invitato a pranzo da un parente di maggior nobiltà, vi andò a cavallo, seguito dai servi; e quando vi giunse, disceso da cavallo, si fecero incontro gli uomini e le donne, e tosto, poiché l'ora era tarda, lo portarono alla tavola che era preparata. Lavate le mani, lo posero a mensa fra due belle fanciulle, figliuole dell'ospite. I1 giovane che sentiva bisogno di mingere, taceva per pudore, e non essendovi pretesto di alzarsi durante il pranzo, aveva così forte dolore alla vescica, che si dimenticava di prendere cibo. Tutti s'erano accorti di questa sua sospensione di animo, e che andava lento a mangiare, e tutti lo eccitavano, quando egli, mosso dal dolore, pose la destra sotto la tavola, e di nascosto quell'affare gonfio introdusse in uno degli stivali, per lasciar finalmente andare quel liquido. In quel punto, la giovane ch'egli aveva alla destra gli disse: «Su dunque! mangiate!». E in questa gli prese il braccio, e trasse sulla tavola la mano, con quel che c'era, in modo che tutta la tavola ne fu inondata. A questo insolito spettacolo risero tutti e il giovane si fe' rosso di vergogna.

CCLXVI

UNA DONNA FIORENTINA COLTA SUL FATTO

Una donna che abitava nei dintorni di Firenze, moglie di un oste, e che era molto liberale, giaceva un giorno con l'amante suo; venne frattanto improvvisamente un altro, per far quello che l'altro faceva, e la donna che lo sentì salir le scale gli andò incontro, e prese a rimproverarlo e a impedirgli di andar oltre, dicendo che non aveva tempo per contentarlo e pregandolo di andarsene subito. Quegli non voleva, ed essendo durati qualche tempo nella contesa, in questa sopravvenne il marito, che volle sapere la ragione del litigio: «Costui», rispose la donna, «è adirato e vuol andar di sopra, per ferire un tale che si è rifugiato nella casa e che io ho nascosto perché non avvenga questo delitto». Colui che stava nascosto, udite queste parole, prese a proferir minacce e a dire che voleva vendicar l'affronto. E l'altro simulò di minacciare e di far forza contro quello. E il marito, sciocco, cercò la causa del dissenso di que' due, e si assunse l'impegno di metter pace fra loro, e dopo aver parlato con entrambi, la concluse e fece bere loro del suo vino, e all'adulterio la donna aggiunse anche il danno della bevuta. Perché le donne prese sul fatto sono sempre molto astute per rimediarvi

CCLXVII

DI UN MORTO CHE ERA VIVO E CHE PORTATO AL SEPOLCRO
PARLO' E FECE RIDERE

Eravi a Firenze uno stoloto, chiamato Nigniaca, che non era furioso e anzi abbastanza giocondo. Alcuni giovani allegri, per averne da ridere, vollero persuaderlo che aveva molto male, e concertata la cosa, quando uno di loro uscì di casa la mattina e incontrò il matto e gli chiese che male avesse, perché aveva la faccia stravolta e pallida: «Nessuno», rispose il matto. Poi, dopo essere andato un poco innanzi, un altro della congiura lo interrogò se avesse egli la febbre, da quel che si vedeva dalla faccia smorta e da ammalato. E lo stolto prese a dubitarne, come se quel che e' dicevano fosse vero. E andava timidamente e a passo lento, quando s'imbatté in un terzo che, come era stabilito, appena vistolo: «Hai una faccia», disse, «che mostra che sei gravemente malato ed hai una violentissima febbre». E quello temé sempre di più, e fermatosi, stava pensando se realmente si sentisse in febbre. E sopraggiunse un quarto, che affermò che egli era infermo, e si meravigliò che e' non fosse in letto e lo persuase ad andarsene subito a casa, e si offerse come amico, e promise che l'avrebbe curato come un fratello. Lo sciocco tornò indietro, come se fosse preso da grave malore, ed entrò nel letto, che parea che spirasse. E gli altri amici vennero tutti alla casa e dissero che aveva ben fatto quello che l'aveva messo a letto. Poco dopo venne un tale che si spacciava per medico, e toccato il polso, disse che il malato poco dopo sarebbe per quel male morto. E i circostanti diceansi gli uni agli altri: «Già incomincia a morire, già gli si freddano i piedi, già balbetta, già si fan di vetro gli occhi». E tutti in una volta: «È spirato. Chiudiamogli dunque gli occhi e componiamolo e portiamolo a seppellire». E poi: «Oh! che disgrazia è per noi questa perdita! Egli era buono e nostro amico». E si consolavano a vicenda. Lo stolto, come se fosse morto, persuase se stesso di esser morto. Postolo sul feretro, quei giovani lo portarono per la città, e quando i passanti chiedevano che ciò fosse, rispondevano che era Nigniaca che essi portavano al sepolcro. E lungo il viaggio molti presero parte al giuoco. Ad un punto saltò su un taverniere: «O che cattivo animale fu egli mai, e che pessimo ladro, degno di essere appiccato!». Allora lo stolto, udite queste parole, alzò il capo: «Se fossi vivo», rispose, «come son morto, ti direi, furfante, che tu menti per la gola». E coloro che lo portavano diedero in un gran riso e lasciarono l'uomo nel feretro.

CCLXVII

DI UN SOFISMA

Due amici, al passeggio, discutevano se fosse maggiore la voluttà nel fare all'amore o nello sgombrarsi il ventre, e videro una donna che non aveva mai disprezzato di trovarsi con gli uomini: «Chiediamolo a costei», disse uno, «che è esperta in entrambe le cose». «No», rispose l'altro, «costei non può giudicare la cosa; perché fece all'amore di più che non abbia cacato».

CCLXIX

DI UN MUGNAIO CHE FU INGANNATO DALLA MOGLIE
CHE GLI DIE' A MANGIARE CINQUE UOVA

È da aggiungersi alle altre storielle anche questa, che è molto conosciuta a Mantova. E' vicino alla città un mulino il cui padrone era nominato Cornicula. Una sera di estate stava seduto su1 ponte, e vide passare una giovane contadina che pareva senza asilo, e la invitò, poiché l'ora era tarda, e il sole tramontava, ad entrare in casa da sua moglie. Avendo ella acconsentito, chiamò un servo e gli ingiunse di accompagnarla dalla moglie, di darle da cena, e di metterla a letto. Rimandato il servo, la moglie, che aveva capito che il marito faceva la voglia della giovane, la pose nel suo letto, e nel letto che egli le aveva destinato andò essa a dormire. I1 marito stette per il suo mestiere alzato tutta la notte, e tornato di nascosto a casa entrò nella stanza, e non sapendo dell'inganno, in silenzio si servì della moglie, che non disse parola. E quando uscì, raccontò la cosa al servo, dicendo che se voleva, entrasse; e questo ebbe la moglie del padrone. Cornicula, poi, andò nella camera solita e andò in letto zitto per` non destar la moglie, come credeva Alla mattina sorse pel primo e se ne andò senza parlare, credendo di avere avuta la ragazza. Quando tornò a casa all'ora del pranzo, la moglie gli si fe' incontro e gli diede cinque uova da bere. Meravigliato l'uomo della novità della cosa, le chiese che volesse ciò significare, ed essa tutta allegra disse che gli offriva tante uova quante miglia quella notte aveva seco fatte. Capì l'uomo di essere stato preso al laccio che egli aveva teso, e fingendo di essere stato egli solo nella camera con la moglie, bevve le uova. Accade spesso che i malvagi siano puniti con la loro stessa malvagità.

CCLXX

GRAZIOSO DETTO PER NEGARE LA BELLEZZA

Andavano per le vie di Firenze due amici parlando, e uno di questi era bislungo e corpulento, e brutto e nero di faccia. Questi, veduta una giovinetta che passeggiava con la madre: «Costei», disse per scherzo, «è una giovinetta bella e molto graziosa». L'altra, fatta insolente da tali parole: «Non si potrebbe», rispose, «dire altrettanto di voi». «Oh, sì anzi», disse l'altro, «se uno volesse mentire come ho fatto io con voi».

CCLXXI

RISPOSTA FACETA MA POCO ONESTA DI UNA DONNA

Uno Spagnuolo amico mio mi raccontò di un motto arguto di una donna, il quale mi pare debba aggiungersi a queste nostre storie. Un tale, di età matura, condusse in moglie una vedova, e nella prima notte, servendosi del matrimonio, trovò la stanza più larga di quel che credeva: «Amica mia», le disse, «questa tua stalla è più grande di quello che abbisogni al mio armento». E la donna: «Ma questa», rispose, «è colpa tua; poiché il marito mio che morì (e che Dio gli abbia misericordia) la riempiva così bene, che spesso i becchi non trovavan posto e stavano di fuori». Risposta arguta e graziosa.

CCLXXII

OSCENO CONFRONTO COI DENTI CHE CIONDOLANO

Un vescovo, che io ho conosciuto, aveva perduto qualche dente e ne aveva altri che ciondolavano, e temeva della loro caduta. Un giorno gli disse un amico: «Non temete, i denti non cadranno». E chiestane la ragione: «I miei testicoli», rispose, «già da quarant'anni ciondolano, pare che cadano, e non son mai caduti».


CONCLUSIONE

Ho io in animo, prima di chiudere la serie di queste nostre storielle, di aggiungere anche in qual luogo la maggior parte di esse, come il teatro fosse, furon dette; e questo fu il nostro Bugiale, specie di officina di menzogne che fu da' Segretari fondata per ridere. Fin dal tempo di Papa Martino avevamo abitudine di scegliere un luogo in disparte, in cui ci comunicavamo l'un l'altro le nuove, e dove si parlava di varie cose, sia sul serio, sia per distrarre l'animo. Ivi non la si perdonava ad alcuno, e si diceva male di tutto ciò che ci dispiaceva; e spesso lo stesso Papa dava materia alle critiche nostre; ed era per questo che molti venivano in quel luogo per paura di non essere i primi colpiti. E fra i narratori il primo era Razello da Bologna, dal quale ho raccolto molte delle storie narrate. E anche Antonio Lusco, del quale spesso si parla, era uomo molto arguto, e anche Cencio Romano, dato anch'egli alla burla. E pure qualcuna delle mie vi aggiunsi, che non sono del tutto sciocche. Ora i miei amici sono morti e il Bugiale non è più, e per colpa de' tempi e degli uomini si va perdendo il buon uso dello scherzo e del conversare.

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