Poggio Bracciolini
Nella città di Terranova eravi un uomo che aveva nome Guglielmo,
che facea il falegname ed era assai ben provvisto dalla natura.
E la moglie fortunata narrò la cosa alle vicine, e quando
questa morì, condusse egli in moglie una giovinetta ingenua,
che avea nome Antonia, e che quando fu sposa seppe dai vicini
che arma potente possedesse il marito. Nella prima notte che ella
fu col marito tremava assai, e voleva sfuggirlo né voleva
lasciar fare. E l'uomo capì di che cosa avesse timore la
ragazza, e per consolarla le disse che ciò che ella aveva
udito dire era vero, ma che egli ne aveva due, uno più
grande e uno più piccolo: «E di questo», soggiunse,
«per non farti male, mi servirò questa notte; e vedrai
che ti farà bene; poi se ti piacerà proveremo col
più grande». La ragazza acconsentì e cedette
senza pianto e senza dolore all'uomo. E dopo un mese, fattasi
più franca e più audace, una notte, mentre
accarezzava suo marito: «Amico mio», gli disse, «se
ora ti volessi servire di quell'altro ch'è più grande?
« E l'uomo, che ne avea quasi quanto un asino, rise dell'appetito
della donna; e da lui una volta udii narrare, in compagnia, questa
storia.
Fuvvi una donna di Pisa, detta Sambacharia, che fu assai pronta
alla risposta. Un giorno le si avvicinò un burlone e per
prendersi giuoco di lei le disse: «I1 prepuzio dell'asino
vi saluta». Ed essa pronta: «Oh! sembri appunto un suo
ambasciatore». E, questo detto, gli volse le spalle.
Una donna di mal affare aveva una mattina messe fuori dalla finestra
le vestimenta che il ganzo le aveva donate. Una matrona che le
vide nel passare: «Ecco» disse, «una donna che
fa, come il ragno, la sua tela col culo, e mostra a tutti l'opera
sua».
Uno de' miei compaesani, nel tempo della vendemmia, fu pregato
da un tale di dargli a prestito qualche tino. Ed egli rispose:
«Se dò a mangiar tutto l'anno a mia moglie faccio
questo per servirmene in Carnevale». E lo avvisò con
questa risposta che non ponno chiedersi ad alcuno le cose che
gli siano necessarie.
Quelli di Perugia hanno fama di buoni e lieti uomini. Una donna
di nome Petruccia pregò il marito di comprarle un par di
scarpe nuove per andare il dì dopo alla festa. E il marito
acconsentì, e al mattino prima di andarsene le disse di
cuocergli una gallina pel pranzo. La moglie, preparato il pollo'
uscì sulla porta, e vide passare un giovane che ella amava
moltissimo, e, rientrata in casa, gli fe' cenno di seguirla, allora
che il marito era lontano; e per non por tempo in mezzo, ascesa
la scala, si gittò per terra, così che dalla porta
potevasi vedere. E si fe' venir sopra il giovane, e strettolo
con le cosce e co' piedi se la godevano allegramente. I1 marito,
frattanto, che credeva che la moglie fosse di già ita alla
festa e non tornasse a casa che tardi, invitò un amico
a pranzo, dicendogli che sua moglie non vi sarebbe stata. Giunti
in casa, entrò pel primo il marito, e vista in cima alla
scala la donna che moveva i piedi al disopra del giovane: «Ohé!
Petruccia», le disse, «pel culo dell'asino! (è
la maniera di bestemmiare) se gli è così che tu
cammini, non consumerai mai le scarpe!».
Una villana lamentavasi un giorno che le sue oche non fossero in buono stato e diceva ch'esse eran state stregate dalle parole di una vicina, la quale, avendole lodate, non aggiunse: Dio ve le benedica, come il volgo suol dire. E un giovane, che udì questo lamento: «Ora comprendo», disse, «come la mia anitrella stia male e in questi giorni si sia fatta assai debole. Dopo che l'altro giorno la trovarono bella, e non vi aggiunsero
questa benedizione, credo che sia stata stregata perché
non sollevò più la testa. Benedicila dunque, ti
prego, perché riprenda il vigore di prima ».
I1 padre d'un amico mio aveva relazione con la moglie di un uomo
sciocco e balbuziente. Una volta ch'egli andava alla casa di lei,
credendo che il marito fosse fuori, picchiò forte alla
porta; e, simulando la voce del marito, chiamò la donna
ad aprirgli. E quell'uomo sciocco, che era in casa, udita quella
voce, prese a dire: «Va' dunque, apri, Giovanna; fallo entrare,
Giovanna; perché mi par d'esser io che batto».
Un giovane del contado che recava a Firenze un'oca per venderla,
s'incontrò in una donna che gli parve allegra e che ridendo
gli chiese quanto costasse l'oca Ed egli: «La potrete pagar
con poco». «Quanto?», chiese la donna. «Lasciatevi
fare una volta sola». «Tu scherzi», disse la donna,
«ma entra in casa e parleremo del prezzo». E entrato,
rimanendo egli nello stesso avviso, la donna acconsentì.
Ma dopo, poiché essa eragli stata di sopra, quando volle
l'oca, egli la negò: «perché» e' diceva,
«non foste voi che vi lasciaste fare, bensì voi che
faceste». E così rinnovando la pugna, il giovane si
giovò perfettamente della cosa. E la donna, com'erano convenuti,
tornò a chiedergli l'oca e il giovane ricusò, dicendo
che ora erano entrambi in pari condizione, e questa volta non
si era essa guadagnata l'oca, ma avealo risarcito dell'affronto
che gli aveva fatto; poiché la prima volta era stato di
sotto. E la contesa durava a lungo, quando sopraggiunse il marito,
che chiese la ragion dell'alterco. «Io», disse la moglie,
volevo prepararti lautissima cena se questo maledett'uomo non
l'impedisse. Aveva egli convenuto di darmi l'oca per venti soldi;
poi, quando fu dentro me ne chiese due di più, «Eh!
» disse il marito, «sarà per così poco
turbata la nostra cena! prenditi, ecco i ventidue soldi!»
Così il villano ebbe il denaro e la donna.
Uno de' nostri colleghi della Curia, notissimo avaro, veniva,
mentre i servi mangiavano, a bere il loro vino, per vedere se
fosse abbastanza annacquato; e diceva di far ciò per vigilare
che essi avessero sempre buon vino. Se ne accorsero alcuni e concertarono
di mettere in tavola del piscio fresco in luogo del vino, in quell'ora
nella quale aspettavano la sua venuta. Venne egli come di consueto,
e bevve il piscio, e se ne andò sputando e vomitando, facendo
gran rumore e uscendo in molte minacce contro chi gli aveva giocato
quel tiro. E i servi finirono la cena fra le risa, e chi aveva
immaginato lo scherzo me lo raccontò poi, che rideva ancora.
Un guardiano di pecore, di que' luoghi nel Napoletano ne' quali
una volta eravi il brigantaggio, andò una volta a dire
i suoi peccati ad un confessore, cadde a' piedi del sacerdote
dicendogli, in lagrime: «Perdonatemi, padre, perché
ho io gravemente peccato». E il prete gli disse di narrare
questi peccati, ed egli ripeté più volte quelle
parole come se avesse commesso peccato nefando, ed esortato dal
sacerdote, disse che in giorno di digiuno, avendo fatto il cacio,
gli caddero in bocca alcune gocce di latte che egli non aveva
sputate. Ma il sacerdote, che conosceva i costumi del paese del
penitente, sorrise, e poiché questi gli aveva detto che
aveva commesso gravi peccati, non credette che ciò fosse
soltanto per non aver osservata la quaresima e lo richiese se
altra cosa più grave vi fosse. Negò il mandriano,
e il prete gli chiese, se mai egli con altri pastori, com'è
frequente in quelle regioni, non avesse spogliato ed assassinato
qualche viandante. «Spessissimo», rispose il penitente,
«ed in entrambe le cose sono come gli altri assai esperimentato;
ma ciò», soggiunse, «presso di noi è cosa
comune, che non turba la coscienza». E per quanto il confessore
gli rimproverasse quei peccati come delitti gravissimi, egli tenne
sempre come cosa di niun conto rubare ed assassinare un uomo,
cose che presso di loro son quasi nell'uso, e credette che solo
del latte dovea chieder perdono. Cattivissima cosa essendo l'abito
del peccato, che fa credere piccole cose anche quelle che sono
gravissime.
A Terranova sono stabilite alcune pene per coloro che giocano
a, dadi. Uno che io conosco fu preso su1 fatto, e caduto in pena,
fu condotto in prigione. E quando gli si chiedeva perché
fosse egli ivi chiuso, rispondeva: «Questo podestà
nostro mi pose in carcere perché m'ero giocato il mio denaro.
Che cosa avrebbe egli fatto se mi fossi giocato il suo? «
Un padre, che molto spesso aveva rimproverata l'ubriachezza del
figlio, visto una volta un ubriaco sulla strada, che giaceva turpemente,
con tutte le cose scoperte, con una frotta di monelli intorno
che l'irridevano, invitò il figliuolo ad assistere a così
triste spettacolo, sperando che questo esempio, dal vizio dell'ubriachezza
correggere lo potesse. Ma questo, veduto l'ubriaco, disse: «Ti
prego, padre mio, di dirmi dov'è che si vende tal vino,
per cui questo si è fatto ubriaco, perché di esso
possa io gustar la dolcezza». E si mostrò commosso
non dalla bruttezza dell'ubriaco, ma dal desiderio del vino.
Anche Ispina, di Perugia, era un giovane di nobil casato, ma talmente
dissoluto, ch'era di vergogna a tutti gli altri della famiglia.
Simone Ceccolo, che era suo parente, uomo vecchio, di grande autorità
e prudenza, lo chiamò un giorno a sé e con molti
argomenti lo consigliò a mutar vita, facendogli brutta
mostra de' vizi e lodandogli la virtù. Quando ebbe il vecchio
finito: «Simone», disse il giovane, «voi avete
parlato con eleganza e con precisione, come ad uomo eloquente
si conviene; ma io su questo argomento udii ben cento e più
eleganti sermoni, e pur tuttavia non volli mai alcuna cosa fare
di ciò che essi dicevano». Non giovò più
a quel di prima l'esempio, di quello che a costui un discorso.
In compagnia di dotte persone si parlava un giorno della vanità
di coloro che pongono tante cure a cercare ed a
comprare le pietre preziose. E uno disse: «A ragione Ridolfo
di Camerino mostrò al Duca d'Angiò la sua stoltezza
a questo riguardo, quando ei viaggiava pel regno di Napoli. Un
dì che Ridolfo era andato a visitare il duca negli accampamenti,
mostrògli questi un tesoro molto prezioso, nel quale erano
brillanti, perle, zafliri e tutte quelle pietre che si hanno in
gran pregio. E Ridolfo, vedutele, chiese quanto quelle pietre
costassero e a che fossero buone; il duca rispose ch'esse avevano
gran valore, ma che nessun utile davano. E allora Ridolfo: Vi
mostrerò, gli disse, due pietre che mi costano dieci fiorini
e che mi dànno duecento fiorini l'anno; e condusse il duca,
di questa cosa meravigliato, a un molino che egli aveva fatto
costruire e gli mostrò due pietre da macina, dicendogli
che queste per utilità e per valore le sue pietre preziose
superavano».
Questo stesso, ad un di Camerino, che per vedere il mondo voleva
viaggiare, disse di andare fino a Macerata. E quando questi fu
ritornato: «Tu», gli disse, «hai veduto tutto il
mondo; perché», aggiunse egli, «nel mondo non
vi sono che colline e vallate, montagne e pianure, terre coltivate
ed incolte' boschi e foreste, e tutte queste cose in quel piccolo
spazio sono contenute».
Un Perugino aveva una botte di vino squisito, ma era essa assai
piccola botte. Una volta un tale gli mandò a chieder del
vino per un fanciullo con un vaso molto grande, ed egli, preso
fra le mani il vaso, lo fiutò e disse: «Oh, come pute
questo vaso! giammai io vi metterò dentro il mio vino.
Va' dunque e riportalo a colui che t'ha mandato».
Due donne romane, che io ho conosciuto, di diversa età
e bellezza, andarono un giorno alla casa di uno della Curia per
dargli piacere e per averne guadagno. Questi sopra una di esse
ripeté il colpo, sull'altra giocò una volta sola
e perché non si reputasse rifiutata e perché tornasse
da lui con la compagna; e quando se ne andarono, dié loro
in dono una pezza di tela di lino, non indicando come dovessero
farsi le parti. Quando furono per dividerla, sorse contesa fra
le femmine, perché una ne volea metà perché
in due eran esse venute. Entrambe diversi argomenti recarono,
e una affermava di aver sopportata maggior fatica, l'altra diceva
che tutte e due eran pari. Dalle parole vennero a' colpi e a combattimento
di unghie e di capelli. S'interposero dapprima i vicini, poi i
mariti, che ignoravano la ragion del litigio, e ognuna di esse
asseriva che l'altra aveala per prima offesa. E poiché
gli uomini fecer sue le cause delle donne, la lotta di queste
passò a quelli, e la cosa venne a sassi ed a bastoni fino
a che l'intervento de' passanti calmò la lotta. E gli uomini,
tornati alle loro case, ignari delle cause della lite, serbaronsi
rancore com'è dei romani. La tela è ancora presso
un tale, come cosa non ancora decisa, ma di nascosto le donne
trattano per dividerla. Si chiede dagli uomini della legge come
sia il diritto.
La volpe una volta avea fame, e per ingannar le galline, che sotto
la scorta del gallo erano ascese su di un albero al quale essa
giungere non poteva, si fe' incontro cortesemente al gallo e lo
salutò con affetto: «Che fai tu là in alto?»,
gli chiese. «Non hai dunque apprese le recenti no velle che
per noi son tanto gradite?» «No», rispose il gallo,
«dimmele». «Venni apposta e in fretta per dirtele.
Si è fatto un gran congresso di animali, dove essi hanno
statuita una perpetua pace fra di loro, così che non v'è
più nulla a temere, né potremo più tenderci
insidie, né farci ingiuria, ma godremo invece tutti pace
e buona amicizia; ognuno d'ora innanzi potrà andar sicuro,
anche solo, dove vorrà. Discendi adunque e festeggiamo
insieme questo giorno». Ma il gallo, che aveva conosciuto
l'inganno della volpe: «Tu, le disse, «m'hai recata
grata novella e te ne ringrazio», e così dicendo sorse
su le zampe e allungò il collo come chi guarda lontano
e si meravigli: «E tu che guardi dunque?», chiese la
volpe. «Guardo», rispose il gallo, «a due cani
che vengono correndo a questa volta con le fauci spalancate».
E allora la volpe tremante: «A rivederci», disse, «ché
bisogna ch'io scappi innanzi ch'essi qui giungano»; e prese
di fatti a fuggire. «Oh!»,disse il gallo, «perché
te ne vai dunque, o che temi? se la pace è fatta, non devi
tu aver paura». «Dubito», rispose la volpe, «che
questi cani non abbian notizia del decreto di pace». E così
l'inganno fu tolto coll'inganno.
Un tale, un po' troppo libero nel parlare, un giorno discorreva
alquanto licenziosamente nel palazzo del Pontefice, e accompagnava
con gesti espressivi le sue parole. Un amico che lo vide: «Che
fai ?», gli chiese, «ma non temi d'esser preso per matto?»
Ed egli: «Questo sarebbe davvero per me gran vantaggio: perché
solo a quella condizione potrei venire nel favore di coloro che
governano, poiché questo è il tempo degli stolti,
e questi soltanto han le mani negli affari».
I Veneziani avean concluso col Duca di Milano un trattato di pace
duraturo per dieci anni. In questo tempo scoppiò la prima
guerra tra' Fiorentini e il Duca, e poiché pareva che quelli
avessero la peggio, i Veneziani, mentre il Duca nulla temeva da
loro, per paura che egli superiore nella guerra non rivolgesse
su di loro le forze sue, ruppero il patto ed occuparono Brescia.
Qualche tempo dopo un Veneto venne fuori a dire: «Voialtri
ci dovete la libertà; se siete liberi, lo siete per opera
nostra». E il Fiorentino, per ribattere la iattanza del Veneto:
«Non foste voi che ci faceste liberi, fummo noi che vi facemmo
diventar traditori».
Ciriaco d'Ancona, uomo verboso e troppo loquace, un dì
che noi eravamo insieme, deplorava la caduta e la distruzione
dell'Impero Romano, e pareva che di ciò si affliggesse
assai. Allora Antonio Lusco, uomo dottissimo, ch'era presente,
ridendo dello sciocco dolore di costui, disse: «E' mi fa
ricordare quell'uomo di Milano che un dì di festa udì
di que' cantori da piazza che cantano alla plebe le geste degli
eroi; cantava costui della morte di Rolando, che era morto da
ben settecento anni in battaglia, e quell'uomo prese a piangere
a calde lagrime; e quando andò a casa, la moglie, che lo
vide mesto e piangente, lo richiese qual novità gli fosse
accaduta: Ah! moglie mia, disse, son morto! Amico mio, disse la
moglie, che avversità ti colse ? Vieni dunque e consolati
a cena. Ed egli continuava a piangere né voleva prender
cibo; finalmente cedette alle preghiere della moglie e disse la
causa del suo dolore: Non sai tu, che nuova ho io oggi udita?
Quale mai? chiese la donna. Egli è morto Rolando, che era
il solo che difendesse i Cristiani. La moglie si consolò
della sciocca afflizione dell'uomo e lo poté finalmente
persuadere a cenare».
Un altro de' presenti narrò un'altra storia di simile stoltezza: «Un mio vicino», disse, «un
uomo di corto intelletto, stava un giorno ad udire uno di que'
cantori, il quale alla fine, per invitare il pubblico ad udirlo
di nuovo, disse che il dì dopo avrebbe cantata la morte
di Ettore. I1 nostro uomo, pria che il cantor se ne andasse, gli
diede del denaro perché e' non uccidesse tanto presto Ettore,
uomo così forte alla guerra. E il cantore rimise la morte
d'Ettore all'altro giorno. E lo sciocco continuò a dargli
denaro, sempre per allungar la vita all'Eroe. E quando fu a secco
di monete, dové con gran dolore e con molto pianto ascoltar
finalmente la narrazione della morte».
Un buon uomo di Sarda, che è un borgo sulle nostre montagne,
sorprese un giorno la moglie che con un altro godeva, ed essa
prontamente si finse come morta, cadendo a terra simile del tutto
ad una trapassata. I1 marito le si fe' vicino, e, credendola morta,
prese piangendo a farle fregagioni sul corpo. Ed essa gli occhi
semichiusi, come se a poco a poco rinvenisse, rispose all'uomo
che le chiedeva che cosa le fosse avvenuto, che aveva avuto gran
paura. E poiché lo sciocco la consolava e le chiedeva che
cosa volesse ella da lui: «Voglio», disse la donna,
«che tu nulla abbia veduto», e appena che l'uomo ciò
promise, tornò alla donna la salute.
Rosso de' Ricci cavaliere fiorentino, uomo molto saggio e grave,
aveva la moglie di nome Telda vecchia e brutta. E' gittò
gli occhi su la serva che aveva in casa, ed avendola molte volte
richiesta, questa riportò la cosa alla padrona; la quale
la consigliò a consentire e a dargli ritrovo per una cert'ora
in luogo buio, dove Telda venne di nascosto al posto della serva.
Venne Rosso a quel luogo e per lungo tempo accarezzò la
mo glie credendola la servente; poi, perché l'arma non
era pronta, nulla poté fare. La moglie allora si scoprì:
«Cavaliere da burla», esclamò, «se qui fosse
stata la serva avresti ogni cosa felicemente compiuta». Ed
egli: «Per Dio, Telda, moglie mia, questo mio amico ha miglior
naso di me. Ché, appena ch'io ti ho toccata, credendo che
tu fossi la serva, egli ha capito ch'eri carne cattiva e si ritirò
dentro».
Un cavalier fiorentino, di gran nobiltà, aveva una moglie
molto bisbetica, e cattiva, la quale ogni dì andava dal
suo confessore o, come suol dirsi, dal suo direttore di spirito,
a raccontar de' vizi e delle liti del marito. E il confessore
lo correggeva e rimproverava; e un giorno che la mo glie gli disse
di rimetter la pace fra loro, egli invitò il marito a confessione
de' peccati; la quale quando fosse fatta, non dubitava che la
concordia fosse fra di loro tornata. Venne il cavaliere, e quando
il frate lo invitò a narrargli i peccati: «Non ce
n'è bisogno», rispose, «ché mia moglie
vi ha detto assai volte quelli ch'io abbia commessi e molti altri
ancora».
Fuvvi poco tempo fa a Firenze un uomo sicuro di sé ed audace,
che non aveva alcun'arte. Avendo egli letto una volta da un medico
il nome e la virtù di certe pillole che si diceva giovassero
per molti mali, pensò risevolmente di diventar medico con
quelle pillole soltanto' e fatto di esse un gran numero, uscì
dalla città, e prese a vagare per i borghi e pel contado,
professando l'arte del medico; e dava per tutte le malattie quelle
pillole, e con questa cura, per caso, qualcuno riebbe la salute.
S'era fra gli stolti divulgata la fama dello stolto, e un giorno
un tale che aveva perduto l'asino venne da lui a chiedergli se
aveva un rimedio per trovar l'asino. Egli disse che l'aveva, e
gli diede ad inghiottire sei pillale. E quei le prese, e il dì
dopo essendo uscito per cercar l'asino, dové per l'effetto
delle pillole andar giù di strada per sgombrarsi il ventre;
e venne per questa bisogna per caso in un canneto, dove avendo
egli trovato l'asino che pascolava, portò al cielo le lodi
e della scienza del medico e della virtù delle pillole.
E dopo il fatto venivano d'ogni parte a quello i villani, fra
i quali si era sparsa la fama delle medicine di un dottore che
anche per trovar gli asini smarriti eran buone.
Una volta a Firenze, in una di quelle sedizioni nelle quali i
cittadini fra loro combattevano per la ragion del governo, un
capo di una parte era stato ucciso dagli avversari in un grave
tumulto. Uno di coloro che di lontano vedeano gli uomini accorrere
con le spade sguainate, chiese a chi gli era vicino che cosa laggiù
si facesse, ed uno di questi, chiamato Pietro de Eghi, rispose:
«Là si dividono il magistrato e gli uffici della città»;
e l'altro rispose: «Poiché costan sì caro,
io vi rifiuto», e se ne andò sul momento.
Cenavano una sera meco alcuni amici miei, uomini sempre pronti
alla facezia, e mangiando narravano molte cose degne di riso,
ed uno fra le altre narrò ridendo questa: «Cecchino,
medico d'Arezzo, fu una volta chiamato a curare una bella giovanetta,
che danzando s'era torto un ginocchio; e per accomodarlo, poiché
gli fu d'uopo di toccare assai la coscia e la gamba della giovinetta,
ch'erano morbide e bianchissime, gli avvenne di sentirselo eretto
in modo da non poterlo più contenere nella veste. Poi quando
si alzò sospirando, ed ella l'ebbe richiesto quanto voleva
per la cura fattale, egli rispose che nulla ella dovevagli; e
chiestagliene la ragione: Perché, disse il medico, siamo
nell'opera pari: io ti dirizzai un membro, e tu a me, nello stesso
modo, un altro».
Fra molti dotti uomini si parlava una volta della imbecillità
e della stoltezza di molti. Antonio Lusco, uomo di grande amenità,
raccontò che andando una volta da Roma a Vicenza, ebbe
in sua compagnia un Veneziano che, da quel che pareva, non aveva
molte volte cavalcato. Egli discese a Siena ad un albergo in cui
erano moltissimi altri coi loro cavalli e alla mattina dopo, quando
tutti stavano per riprendere il viaggio, il solo Veneziano rimaneva
sulla porta seduto, oziando distratto; e Lusco, meravigliandosi
della negligenza e della pigrizia di costui che quando tutti gli
altri erano in sella, stavasi là solo seduto, lo avvertì
che, se volea partir seco, montasse tosto a cavallo, e gli dicesse
perché stava indugiando. Ed egli: «Io certamente desidero
di venire con voi; ma non conosco affatto il mio cavallo fra gli
altri; per questo io aspetto che tutti gli altri montino in sella,
perché trovando poi nella stalla un cavallo solo, saprò
ch'esso è mio». E Antonio, conosciuta la stoltezza
del compagno di viaggio, lo aspettò per un po' di tempo
affinché questo sciocco potesse prendere per suo l'ultimo
cavallo rimasto.
Quando si vuol mostrare disprezzo a qualcuno si ha l'uso di dire:
«Ti lascerei cento volte in un giorno in pegno all'oste».
Un tale, una volta, in una raccolta di gente, disse quella frase
a Razello da Bologna, uomo prontissimo alla risposta, credendo
di avvilire Razello e di dare a sé valore. E Razello a
lui: «Ed io te lo concedo facilmente, perché solo
le buone cose e che hanno grande prezzo possono accettarsi in
pegno; ma tu che sei di condizione vile ed abietta, potresti girare
per tutte le taverne, che non troveresti alcuno che ti prendesse
in pegno neanche per un danaro»; e così dicendo ei
fece ridere gli astanti, e ritorse con acerba risposta, l'acerbo
detto di colui.
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