Poggio Bracciolini
Uno de' miei amici lodava assai un giovane romano di bellissime
forme, e oltre ogni dire virtuoso, che coltivava le buone lettere,
e ne esaltava la bellezza e il costume. E infine, dopo averne
fatte molte lodi: «Io penso», disse, «che nostro
signor Gesù Cristo alla sua età non fosse altrimenti».
Enorme elogio della bellezza, che né Cicerone né
Demostene avrebbero saputo dire!
Un giorno, a Firenze, erano in molti che parlando fra di loro
mostravano di avere diversi desiderii, come avviene. Uno diceva
di voler esser Papa, un altro Re, un altro non so che cosa; allora
un fanciullo un po' loquace che era presente: «Ed io»,
disse, «vorrei esser popone». E chiestagli di ciò
la ragione: «Perché», rispose «tutti mi
fiuterebbero di dietro« Perché è costume di
fiutare in quel luogo i poponi quando si comprano.
Un mercante faceva una volta, dinanzi al padrone dal quale dipendeva,
l'elogio di sua moglie, e fra le altre diceva che non l'aveva
mai udita mandar fuori rumori disaggradevoli di ventre. I1 padrone
se ne meravigliò, e negando che ciò potesse essere,
scommise una cena che, prima che fossero passati tre mesi, la
moglie avrebbe lasciato andare qualcuno di que' rumori; e il dì
dopo mandò a chiedere in prestito al mercante cinquecento
ducati, dicendo che li avrebbe restituiti fra otto giorni; eragli
piuttosto grave di dare così somma in prestito; tuttavia
consentì, per quanto di malavoglia. E mandò il denaro.
E atteso con impazienza il giorno convenuto, andò al padrone
e lo richiese della somma; e questi, come se fosse oppresso da
più grave cura' pregò il mercante che per essa gli
prestasse altri cinquecento ducati, che dentro il mese prometteva
di restituirgli. I1 buon uomo negò lungamente, per causa
della sua povertà, ma infine, per non perdere gli altri
cinquecento, con molti sospiri li portò. Tornato a casa
afflitto, con la testa smarrita, pensando molto, dubitando moltissimo,
passava le notti insonni. Ed essendo spesse volte desto, udì
molte volte la moglie, che dormiva, mandar fuori que' rumori.
Trascorso il mese, il padrone chiamò a sé il mercante
e gli chiese se dopo quel giorno non avesse mai udito sua moglie
a fare rumore. Allora egli confessò il suo errore: «L'ho
udita tante volte», disse, «che non una cena, ma dovrei
perderci il patrimonio». E ciò detto, riebbe il denaro
suo e pagò la cena. Molte cose non s'intendono da coloro
che dormono.
Luigi Marsili, frate dell'ordine degli Agostiniani e uomo di eccellente
ingegno e dottrina, abitò di recente a Firenze. Da vecchio
aveva educato ed istruito nelle umane letture un povero giovane
di nome Giovanni, che io ho conosciuto e che era del mio paese,
e lo fece diventare poi uomo assai dotto. Un Fiorentino suo condiscepolo
(poiché molti per apprendere venivano da quel vecchio),
mosso da invidia, prese a dir male di nascosto di Giovanni col
maestro, dicendogli che molta ingratitudine e' pensava e diceva
male di lui. Questo fece molte volte, ed il vecchio, che era uomo
di grande prudenza: «Da quanto tempo», gli chiese, «conosci
tu Giovanni ? «E il detrattore gli rispose che non lo conosceva
da più di un anno: «Mi meraviglio», soggiunse,
«che tu stimi te stesso tanto sapiente e me creda tanto stolto
da credere di avere tu meglio conosciuto la natura e i costumi
di Giovanni in un anno, di quello che io in dieci». Sapientissima
risposta che rimproverava la malvagità del detrattore e
lodava la fede del giovane. E se così molti facessero,
vi sarebbero meno invidiosi malevoli.
Lo stesso, interrogato da un amico, che cosa volessero significare
le due punte che sono nelle mitre dei vescovi, rispose che quella
dinanzi esprimeva il Nuovo Testamento, quella di dietro l'Antico,
i quali essi devono sempre avere in mente. E continuando l'altro
ad interrogarlo, gli chiese ancora che cosa volessero dire i due
nastri di velluto che cadono dalla mitra di dietro sulla schiena:
«Che i vescovi», rispose, «non sanno né
l'uno né l'altro». Faceta risposta che si può
applicare a diversi vescovi.
Una volta, nel palazzo apostolico, nella riunione de' segretari,
alla quale per solito venivano molti dotti uomini, cadde il discorso
su la impura e turpe vita del più scellerato degli uomini
che fu Francesco Filelfo, e avendo molti narrate molte malvagità
di lui, chiese uno se il Filelfo fosse di nobile stirpe. Allora
uno de' suoi compatriotti, buon uomo assai gioviale, composto
il volto a molta gravità: «Per verità»,
disse, «e' rifulge di gran nobiltà, perché
suo padre alla mattina vestiva sempre vesti di seta». Voleva
dire che egli era figliuolo di prete; perché i preti nelle
funzioni usano per lo più vestimenti di seta.
E allora sorse a dire un altro, che pure era uomo gioviale: «Non
è da maravigliarsi se nipote di Giove egli abbia imitate
le imprese del nonno, e abbia rapita un'altra Europa e un altro
Ganimede». I1 nostro amico ricordava con queste parole il
ratto che Filelfo aveva fatto di una fanciulla greca, figlia di
Giovanni Chrysoloras, che mandò poi in Italia quando se
ne fu servito, e la storia di un certo giovinetto di Padova che
per la sua bellezza egli avea condotto seco in Grecia.
In Avignone eravi un notaio francese molto conosciuto alla Curia
Romana, il quale innamoratosi di una donna pubblica, lasciò
l'arte sua e campava facendo il lenone. Costui' in principio dell'anno,
indossò una veste nuova e scrisse sulla manica in parole
francesi con lettere d'argento: «Di bene in meglio».
Voleva dire che il suo nuovo mestiere riputava più onorevole
di quello del notaio.
I1 cardinale di Bari, che era napoletano, aveva un ospedale a
Vercelli, che è nella Gallia Citeriore, dal quale ritraeva
poco guadagno, per causa delle spese che bisognava fare ai poveri.
E vi mandò uno de' suoi' che aveva nome Petrillo' per far
denaro. Quando costui trovò l'ospedale pieno di malati
e di oziosi, che consumavano tutte le rendite di quel luogo, vestito
di un abito da medico, entrò nell'ospedale, e dopo aver
visitato ogni sorta di piaghe: «Non vi è», disse,
«alcuna medicina che sia atta a sanare le vostre piaghe,
fuor che un unguento fatto col grasso d'uomo. Così oggi
fra di voi si tirerà a sorte chi per risanar gli altri
debba esser posto vivo nell'acqua ed esser cotto». Tutti
fuggirono, atterriti da queste parole, temendo ognuno di dover
per la sorte morire. E così liberò l'ospedale dalla
spesa che si faceva per tutta quella gentaglia.
Un Fiorentino aveva in casa sua un giovane che insegnava le lettere
a' suoi figliuoli. Costui, colla continua dimora nella casa, ebbe
prima la cameriera, poi la nutrice, quindi la padrona e finalmente
gli stessi discepoli. Quando il padre, che era uomo molto gioviale,
se ne accorse, chiamò segretamente il giovane nella sua
stanza: «Poiché», gli disse, «vi siete servito
di tutta la mia famiglia (e che buon pro vi faccia) voglio che
ora di me stesso usiate».
Una volta, al tempo di Bonifazio nono, venne fra alcune persone
il discorso, su quale fra tutti i suoni fosse il più giocondo
e il più soave. I pareri eran vari, quando Lito da Imola'
che era segretario del cardinale di Firenze e che fu di poi cardinale,
disse che fra tutti i suoni quello della campanella era il più
giocondo per chi aveva fame. Perché è costume dei
cardinali di far chiamare la famiglia a pranzo ed a cena al suono
di una campanella, la quale spesso suona assai più tardi
di quello che la desiderino certi appetiti e che è molto
gradita agli orecchi di chi abbia fame. Tutti dissero che egli
aveva risposto bene, e quelli in specie che si erano spesso trovati
in quel caso.
Un principe spagnuolo aveva una volta un figlio che per la sua
lingua maledica e ingiuriosa erasi procurato molto odio; e per
questa cagione il padre gli aveva comandato a tacer sempre, ed
egli ubbidiva. Avvenne che entrambi andassero un giorno ad un
solenne pranzo del Re, al quale era presente la Regina, e il giovane
serviva attentamente come un muto il padre. La Regina, che poco
onesta era, credendolo davvero sordo e muto, e sperando che le
giovasse, chiese al padre di averlo al suo servizio e l'ottenne;
e lo ebbe seco nelle più segrete cose, in modo che fu spesso
testimonio delle sue oscenità. Dopo due anni fuvvi di nuovo
il convito e il Re frattanto aveva spesse volte veduto il giovane
che tutti credevano muto. Questi stava servendo la Regina, e il
Re chiese a suo padre se per caso o per nascita fosse il figlio
senza favella; rispose il padre che non era per l'una o per l'altra
cosa, ma che ciò era per comando suo, in causa della cattiva
lingua che aveva; e il Re lo pregò di dare a suo figlio
licenza di parlare. I1 padre resisté lungamente, dicendo
che ne sarebbe venuto qualche scandalo, ma finalmente, per la
preghiera del Re, comandò al figlio di parlare; e questi
al Re tosto rivoltosi: «Voi avete», disse, «una
donna tale, che non vi è donna pubblica né più
lasciva né più impudente». II Re, confuso,
gli proibì di continuare. È di fatti costume di
certa gente, che per quanto parlino poco, parlano sempre male.
Daccono degli Ardinghelli, cittadino di Firenze, chiamato ad essere
tutore di un pupillo, ne amministrò per lungo tempo i beni,
e tutti li consumò a mangiare ed a bere; quando finalmente
gli vennero chiesti i conti, il magistrato gli ordinò di
presentare i libri dell'entrata e dell'uscita, come si dice; ed
ei mostrò la bocca e il sedere, dicendo che non aveva fuori
di quelli alcun libro di entrata e d'uscita.
Un frate dell'ordine dei mendicanti aveva gittati gli occhi su
di una giovane comare assai bella, e si consumava di grande amore
per lei. Ma poiché avea vergogna di chiederle cosa disonesta,
pensò d'ingannarla con un'astuzia; e si fece vedere per
molti giorni col dito indice fasciato, fingendo di essere tormentato
da grave dolore. Finalmente, dopo che glie ne ebbe chiesto molte
volte, la donna gli domandò se aveva provato qualche rimedio:
«Moltissimi», rispose, ma non avevano giovato; uno solo
ve ne era, indicatogli dal medico, ma del quale egli non si poteva
servire, ché era di natura tale che solo a dirlo avrebbe
arrossito; e poiché la donna lo esortava a dirlo, che per
guarire di così grave male non doveva arrossire, egli con
molta timidezza rispose o bisognava tagliarlo, o tenerlo per qualche
tempo nel taglio di una donna, e che in quel calore sarebbesi
ammorbidito il gonfiore; e per ragione di onestà non osava
chiederlo. La comare, mossa a compassione, offri l'opera sua;
ed egli, per verecondia, chiese di andare in un luogo oscuro,
perché alla luce non avrebbe mai osato; e la donna acconsentì
in buona fede. Il frate, quando fu al buio, fe' coricare la donna
e, prima il dito, poi l'altro membro introdusse, e fece l'affare
suo; poi disse che l'ascesso erasi rotto e che ne era uscito l'umore.
Ecco come quel dito fu risanato.
Angelotto, cardinale romano, che in molte cose fu giocondissimo,
un dì che vide venire alla Curia un cardinale greco che,
come è costume del suo popolo, aveva una lunghissima barba,
ad alcuni che si meravigliavano ch'ei non l'avesse tolta secondo
la consuetudine degli altri: «Egli fa assai bene», disse,
«perché fra tante capre è comodo che rimanga
un becco».
Un cavaliere, che era molto corpulento, entrò in Perugia,
dove molti gli si fecero incontro (gli abitanti di quella città
sono per natura pronti alla facezia), e presero a farsi beffe
di lui, perché contro l'uso, dicevano, portava le valige
dinanzi, ed egli rispose argutamente: «Io le porto dinanzi,
perché ciò è necessario in una città
di briganti e di ladri come è questa».
Dinanzi ad una curia secolare, a Venezia, trattavasi di una causa
testamentaria. Erano presenti gli avvocati delle parti, ognuno
dei quali difendeva il diritto del suo cliente. Uno di questi,
che era prete, citò in appoggio della sua difesa la Clementina
e la Novella, riportando certi passi di quelle. Allora,
uno de' più vecchi dei giudici, al quale quei nomi erano
sconosciuti e che poca aveva della sapienza di Salomone, si volse
con viso severo verso l'avvocato: «Che diavolo», disse,
«non arrossisci di nominare in presenza di uomini come noi,
donne impudiche e meretrici, e di portarci le loro parole come
massime di legge?». Credeva quello sciocco che Clementina
e Novella non fossero leggi, ma bensì nomi di
donne, che l'avvocato come concubine avesse in casa.
Io una volta chiesi come poteasi di notte evitare il freddo nel
letto: «In quel modo» disse uno che era presente, «che
usava un amico mio quando era agli studi. Imperocché, essendo
egli solito di sgombrarsi il ventre dopo cena, quando da questo
uso si asteneva, asseriva che la materia ch'egli tratteneva gli
riscaldava il corpo». Rimedio questo, contro il freddo, che
non è più usato
Uno che predicava al popolo nella festa di San Cristoforo faceva
con molta eloquenza il panegirico del Santo, ripetendo spesso
questa interrogazione: «E chi mai ebbe l'onore di portare
il Salvatore? «e con molta noia continuava a chiedere: «Chi
mai ebbe una consimile grazia?» Uno degli astanti, uomo allegro,
stanco del lungo interrogare: «L'asino», rispose, «che
portò insieme il figlio e la madre».
Un giovane di Verona di belle forme condusse in moglie una giovinetta,
e perché si abbandonava con troppo fervore al matrimonio,
ne venne che fece il viso pallido e debole il corpo. La madre,
che amava molto il figliuolo e che temeva un male più grave,
condusse il figlio in villa, lontano dalla moglie. Questa, piangendo
pel desiderio del marito, vide due passeri che facevano all'amore:
«Andate», disse «andate via subito, ché
se vi vede la suocera, vi manda uno in un luogo e l'altro in un
altro».
Un Genovese, padrone di una grossa nave che per conto del re di
Francia faceva la guerra contro gli Inglesi, aveva uno scudo sul
quale era dipinta una testa di bue. Lo vide un nobile francese
e disse che quella era la sua impresa e, venuti a contrasto, il
Francese invitò a duello il Genovese; e questi accettata
la sfida, discese in campo senza alcun apparato; l'altro con grandissima
pompa venne. E allora disse il Genovese: «Per qual ragione
siamo noi qui per combattere?» E l'altro: «Io affermo
che il tuo stemma è mio e fu de' miei prima che de' tuoi
fosse». E siccome il Genovese domandò che cosa portasser
le armi sue: «Una testa di bue», rispose. «Allora»,
riprese, «non ci è bisogno di batterci, perché
sul mio non è una testa di bue, ma di vacca». E col
detto faceto fu delusa la vana esagerazione del Francese.
È costume in Roma che gli infermi mandino le urine ai medici
con una o due monete d'argento perché conoscano e curino
la malattia. Un medico, che io stesso conobbi, alla notte scriveva
sulle carte (ch'essi chiamano ricette) vari rimedi per diversi
mali, poi le poneva tutte in un sacco; e al mattino, quando gli
portavano le urine per richiedergli il rimedio, egli metteva la
mano nel sacco e prendeva su quella che per caso gli veniva, e
diceva, dandola al cliente: «Prega Dio te la mandi buona».
Misera condizione quella di coloro che e' curava non secondo ragione
ma secondo fortuna.
Uno di Perugia passeggiava per un vicolo, triste e cogitabondo,
e incontrò un tale che lo interrogò sulla causa
del suo dolore. Ed egli rispose che aveva molti debiti che non
poteva pagare: «Va , dunque, sciocco», gli disse l'altro,
«e lascia queste afflizioni a' tuoi creditori».
Alcuni Genovesi che abitavano Pera (che è una città
dei Genovesi vicino a Costantinopoli) essendo venuti a Costantinopoli
per ragioni di commerci, ebbero contesa con dei Greci, e in essa
alcuni rimasero morti, altri feriti. Essendosi chiesto all'imperatore
di far giustizia di quegli omicidi, egli promise di farla tosto
e ordinò che in pena del delitto fosse rasa ai Greci la
barba, cosa che presso di loro è molto ignominiosa. Il
Podesta de' Genovesi, che era a Pera, credendo di essere burlato,
promise a' suoi compatriotti che egli stesso avrebbe vendicata
l'ingiuria che era stata a loro fatta; e dopo qualche tempo entrò
con altri Genovesi in Costantinopoli, ed uccisero e ferirono molti
Greci. Allora l'Imperatore presentò vivissimo richiamo
al Podestà di Pera, chiedendo pena del delitto; e questi
promise che avrebbe puniti i colpevoli; e quel giorno che per
la pena fu stabilito, prese gli uccisori e gli altri, e li condusse
sulla piazza, come se li volesse far decapitare. Ed era accorso
a quello spettacolo tutto il popolo di Pera, e tutti aspettavano
la punizione; e v'erano ancora i sacerdoti parati con le croci,
come se dovessero trasportare i cadaveri; allora il Podestà,
imposto il silenzio per mezzo del banditore, fece radere il deretano
a tutti i colpevoli, dicendo che i Genovesi portavano la barba
non sulla faccia ma sulle natiche. Così fu resa uguale
pena ad uguali delitti.
Ai primi di maggio i Romani raccolgono varie specie di legumi
che chiamano virtù, le cociono e le mangiano alla mattina.
Francesco Lavegni, di Milano, per ridere parlandosi fra amici
di questo costume: «Non è da meravigliare», disse,
«che i Romani abbiano degenerato dai loro maggiori, perché
ogni anno le loro virtù hanno consumato mangiandole».
Quando mi trovavo in Inghilterra, udii un motto faceto di un tale
che era capitano di una nave mercantile, di Irlanda. In alto mare,
una volta era la sua nave agitata e percossa dai flutti, e scossa
dalla tempesta in modo che si disperava di salvarla; il capitano
fece voto che, se la sua si salvasse dalla tempesta, avrebbe donato
ad una certa chiesa della Vergine Maria, che era insigne per simili
miracoli, una candela di cera grossa come l'albero maestro; e
poiché l'amico gli disse che quel voto era di impossibile
attuazione, perché in tutta Inghilterra non v'era tanta
cera per fare una simile candela: «Oh!» disse il capitano,
«taci; e lasciami promettere quel che mi piace alla madre
di Dio; ché, quando l'avremo scampata, si contenterà
di una candela da un soldo».
Fu dello stesso avviso un mercante d'Ancona verso San Ciriaco,
che è il patrono della città e che si dipinge con
una lunga barba. Una volta che la sua nave era combattuta dalla
tempesta e che egli temeva la morte, fe' voto di donare una casa
a San Ciriaco. Sfuggito il pericolo, confessò il voto a]
curato della parrocchia, e questi (perché gli sarebbe venuto
guadagno) lo esortava a compiere il voto, ed ei rispose che si
sarebbe levato di dosso quel peso; e qualche volta fu anche ripreso
e sempre trasse in lungo la cosa; finalmente, essendo di continuo
richiesto, o per empietà o perché il sacerdote lo
avesse annoiato: «Ohé!» gli disse un giorno,
«non mi tediate più con questo affare; ché
io ho ingannato al mondo molta gente che aveva la barba anche
più lunga di quella di Ciriaco».
Una vedova diceva ad una vicina sua che, per quanto essa non curasse
più le cose del mondo, avrebbe tuttavia desiderato un uomo
tranquillo, di età matura, più per vivere assieme
e per aiutarsi scambievolmente nella vita, che per altra ragione,
perché meglio alla salute dell'anima doveva porsi pensiero
che alle miserie della carne; e quella promise di trovarle un
uomo di tal fatta, e il dì dopo venne a casa della vedova
e disse che glie l'aveva trovato, e che aveva tutte le buone qualità
che ella desiderava, e specialmente quella da lei preferita, ossia
ch'egli era privo di ciò che hanno gli uomini. E la vedova
allora: «Costui io non voglio ad alcun patto; che se manca
il piacere (con questo nome chiamava il generante) poiché
io voglio vivere in pace col marito, chi si farà mediatore,
se quando, come avviene, nato un grave alterco fra di noi, ci
sia bisogno di alcuno che faccia ritornar la concordia?».
Un frate dell'ordine dei Minori amava un'abbadessa di un convento
di Roma, la quale io ho conosciuta, e la richiedeva spesso di
giacer seco; e la donna non voleva, per timore di concepire; e
spaventata per la pena che ne avrebbe avuta; e il frate le promise
un breve (come li chiamano) che ella avrebbe portato appeso
al collo con un filo di seta e per virtù del quale non
avrebbe potuto aver figli e così potea ella accondiscendere
alla sua voglia. Ed ella, che desiderava che ciò fosse,
lo credette; e il frate si godé molte volte la donna; dopo
tre mesi, quando s'accorse che la donna si faceva più rotonda,
il frate scappò, e l'abbadessa vedendosi ingannata, scucì
il breve e lo aprì per vedere ciò che dentro vi
fosse scritto; e v'erano queste parole in cattivo latino: Asca
imbarasca non facias te supponi et non implebis tascam. Che
vuol dire, che non lasciandosi fare, non si sarebbe riempita.
E questo è il migliore incanto contro la gravidanza.
Angelotto, cardinale Romano, che era uomo mordace e sempre pronto
alla satira, aveva assai poca prudenza. Quando Papa Eugenio fu
a Firenze, venne a lui per visitarlo un giovinetto decenne, molto
astuto, che gli si presentò con un discorso di poche ma
assennate parole. Angelotto, meravigliato della gravità
del fanciullo e della eleganza con la quale e' parlava, gli fece
molte domande, alle quali prontamente il fanciullo rispose; e
voltosi verso gli astanti: «Questi fanciulli», disse,
«che hanno ingegno e coltura alla loro età, quando
crescono con gli anni calano di intelletto, e quando son vecchi
si fanno stolti». E allora il fanciullo, senza turbarsi:
«Voi, per verità, dovevate essere il più sapiente
di tutti nella tenera età». Il Cardinale rimase meravigliato
della pronta ed arguta risposta, e la sua stoltezza fu castigata
da un fanciullo.
Il garzone di un calzolaio di Arezzo veniva spesso alla casa del
padrone, dicendo che ivi era più comodo di cucire le scarpe.
Questa sua frequenza fe' nascere il sospetto nel marito, che tornato
un giorno inaspettato a casa, trovò il garzone con la moglie
nel fatto, e rivoltosi a lui: «Per questa fattura»,
gli disse, «non ti pagherò certamente, ma ti mando
al diavolo».
Una giovane maritata andava a visitare i parenti, e attraversava
col marito un bosco. In questo vide alcune pecore che avean di
sopra i maschi, e chiese perché questi piuttosto l'una
che l'altra scegliessero, e l'uomo le rispose per gioco: «La
pecora che manda un peto, quella è subito coperta dal maschio».
E la donna chiese se questo fosse anche il costume degli uomini.
E avendo l'uomo detto che questo era, ella tosto diede in un gran
rumore; e l'uomo, preso al suo giuoco, fe' l'affar suo con la
moglie. Dopo avere per un poco continuato il cammino, la donna
di nuovo dié un colpo. E il marito ripeté la cosa.
Ed erano insieme venuti al limite della foresta, che la donna,
godendone, tonò per la terza volta. Ma l'uomo, che era
stanco del viaggio e del giuoco, disse: «Neanche se cacassi
le viscere io ti rinnoverei quell'ufficio».
Un tale che io conosceva, uomo assai arguto, chiese una volta
a un frate, se a Dio fossero più accette le parole dei
fatti; e avendo il frate risposto, i fatti: «Allora»,
disse, «è assai più meritorio fare un Pater
noster che dirlo».
Un Cristiano esortava un infedele Egiziano, che aveva lunga abitudine
di vita seco e che era venuto in Italia, a entrare in una chiesa
un giorno che vi si celebrava la messa solenne. E quegli accondiscese,
e insieme co' Cristiani fu alla messa. Interrogato poi, che cosa
gli paresse delle cerimonie e della solennità di quell'ufficio,
rispose che tutto gli era piaciuto, fuori di una cosa sola; che
in quella messa non si osservava carità alcuna, perché
mentre tutti avevan fame, uno solo mangiava e beveva, non lasciando
né un briciolo di pane né una goccia di vino.
Un vescovo spagnuolo che viaggiava in venerdì, discese ad un albergo, mandò il servo a comprargli de' pesci, e questi, non ne avendo trovati, gli comprò due pernici. II vescovo gli comandò di cuocerle e di servirgliele a mensa. Meravigliato il servo, che le aveva comprate per la domenica, ricordò al vescovo, mentre stava per mangiarle, che in quel giorno le carni sono proibite. E il vescovo a lui: «Le mangio come se fossero pesci». E poiché il servo rimase molto meravigliato di quella risposta: «Non sai tu», gli disse, «che io sono prete? Quale ti par cosa maggiore, mutare il pane nel corpo di Cristo, o le pernici
in pesci?». E fatto il segno della croce, e ordinato che
esse si mutassero in pesci, come se pesci fossero, le mangiò.
L'Arcivescovo di Colonia, che è morto, amava molto un matto
ch'egli faceva spesso dormir seco in letto. Una volta che in quel
letto era anche una donna, il matto, che stava nella parte inferiore,
sentì che i piedi erano più del solito ; e ne toccò
uno e chiese di chi fosse; e l'Arcivescovo rispose che era suo;
poi ne toccò un altro, e un terzo e un quarto infine, e
tutti disse l'Arcivescovo che erano suoi. Allora si alzò
in furia e andò alla finestra ad urlare con quanto fiato
aveva: «Venite tutti ad ammirare un prodigio strano e nuovo.
Il nostro Arcivescovo è diventato quadrupede». Così
svelò la turpitudine del padrone; ché è più
matto di un matto chi di questi si diletta.
Un inviato del Duca di Milano chiedeva non so che cosa a Papa
Martino V, che questi non voleva concedere. E l'oratore, insistendo
con molta importunità, seguì il Pontefice fino alla
sua camera da letto. Allora egli, per togliersi la molestia, portò
le mani alle guance: «Ho», disse, «un gran dolore
ai denti»; e lasciato l'Ambasciatore, entrò nella
camera.
Un tale con acerbe parole diceva male della vita e dei costumi
del Cardinale Angelotto, quando questi fu morto; e fu di fatti
uomo rapace e violento, che non aveva alcuna coscienza. Allora
sorse uno degli astanti a dire: «Io penso che il diavolo
lo abbia divorato e cacato già, per i suoi grandi delitti».
E un altro, che era uomo argutissimo: «Fu», disse, «di
carne così cattiva, che niun demonio, per quanto abbia
buono stomaco, oserebbe mangiarne per paura del vomito».
Eravi una volta a Firenze un Cavaliere, da me conosciuto, che
era molto piccolo di statura e portava la barba assai lunga. Un
pazzo lo prese a schernire per la statura e per la barba quante
volte lo incontrava per la via, e con tanta importunità
da riuscire molesto. Venuto ciò all'orecchio della moglie
del Cavaliere, questa chiamò a sé il matto, lo rimpinzò
di buon cibo, gli diede un vestito e lo pregò di non burlarsi
più del marito; e quegli lo promise, e avendolo qualche
volta incontrato, passava senza nulla dire. Quelli che erano presenti,
meravigliati, lo incitavano a parlare, e gli chiedevano perché
non dicesse quello che prima diceva. Allora il matto, postosi
un dito sulla bocca: «Egli», disse, «ha chiuso
la mia bocca in modo che non potrò più parlarne».
È di fatti un ottimo mezzo, il cibo, per conciliarsi la
benevolenza.
La moglie di un signore fu, dopo qualche anno di matrirnonio,
reietta e ripudiata per la sua sterilità. Tornata alla
casa del padre, questi segretamente la richiese perché
non avesse fatto ciò che poteva, magari con altre persone,
per aver figlioli. Ed ella: «Padre mio», disse, «io
non ho alcuna colpa di ciò; perché mi son servita
di tutti i camerieri e perfino degli uomini di stalla, per poter
concepire, e tutto questo a nulla mi è giovato». E
il padre si dolse della sfortuna della figlia, che non aveva alcuna
colpa della sua sterilità.
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