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Mori's Humor Page
Umorismo, facezie, testi letterari curiosi


Poggio Bracciolini
LE FACEZIE


| I - XXX | XXXI - LX | LXI - XC | XCI - CXX | CXXI - CL |

| CLI - CLXXX | CLXXXI - CCXX | CCXXI - CCL | CCLI - CCLXXII |

INDICE DEI TITOLI



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FACEZIE DA CLI a CLXXX

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CLI

DI UN VILLANO CHE CONDUSSE DEGLI ASINI CARICHI
DI FRUMENTO

All'assemblea de' magistrati di Perugia un villano chiedeva una certa grazia e uno di essi si oppose come se essa fosse disonesta. Il dì dopo, il villano molto avveduto condusse a casa del suo contradditore tre asini carichi di frumento; al quarto giorno quel tale mutò d'avviso e sostenne la causa del villano con molto calore. Uno che gli era vicino disse ad un amico mentre egli parlava: «Non odi come quegli asini ragliano? Alludeva scherzando al frumento che l'altro aveva ricevuto.

CLII

DETTO FACETO DI UN POVERO AD UN RICCO
CHE AVEVA FREDDO

Un ricco, che avviluppato nelle vesti andava a Bologna d'inverno, incontrò per la montagna un villano coperto di una camicia sola tutta lacera, e meravigliato che tanta forza del freddo (cadeva la neve e soffiava il vento) quell'uomo potesse sopportare, gli chiese se non si sentisse diacciato. «Niente affatto» rispose l'altro, lieto in volto; e avendogli aggiunto ch'egli era stupefatto della risposta, poich'egli sotto le pellicce aveva anche freddo: «Se voi», disse il villano, a portaste tutti i vestimenti, che avete, indosso come faccio io, non sentireste più freddo».

CLIII

DI UN MONTANARO CHE VOLEVA SPOSARE UNA FANCIULLA

Un montanaro di Perugia voleva sposare una giovane figliuola di un vicino; e quando la vide, essendogli parsa troppo fanciulla e ancor tenera, il padre di questa, che era uomo sciocco, gli disse: «Ella è più matura di quello che credi; ha già avuto tre figli dal chierico del nostro curato».

CLIV

DI UN PRETE CHE CHIESE LA DECIMA AD UNA GIOVANE

A Bruges, che è una gran città d'Occidente, una giovane molto inesperta confessava un giorno i suoi peccati al prete della sua parrocchia. E questi, fra le altre cose, le chiese ancora se avesse sempre pagate le decime al piovano, e la persuase che queste si dovevano dare anche nella parte cui ha diritto il marito; e la giovane, per non aver da essere debitrice di nulla ad alcuno, lo contentò immantinente. Tornò essa a casa più tardi del solito, e al marito, che glie ne chiese la ragione, disse senza alcun timore ciò che era avvenuto. Il marito finse di non darsene per inteso e dopo quattro giorni invitò a pranzo il prete, insieme con molti amici perché la cosa fosse meglio conosciuta; e quando furono a tavola, narrò la storia, e rivolto al prete: «Poiché», gli disse «voi dovete avere le decime su tutte le cose di mia moglie, abbiatevi dunque anche queste», e così dicendo, pose sotto la faccia del prete, che non si moveva, un vaso pieno di sterco e di urina della moglie, e lo costrinse a mangiare.

CLV

DI UN MEDICO CHE SI SERVI' DELLA MOGLIE DI UN SARTO
CHE ERA MALATA

Un certo sarto di Firenze pregò un medico di visitare la moglie che non si sentiva bene. E questi, essendo lontano il marito, venne alla casa e si giovò della moglie sul letto per quanto ella non volesse. Quando tornò il marito, il medico stava per uscire, e seppe che egli avea curata la moglie come si conveniva; ma questa trovò poi tutta in lacrime. Conosciuto il tradimento del medico, tacque; e dopo otto giorni prese seco una pezza di finissimo panno e andò dalla moglie del medico, dicendole che questi l'aveva mandato per prenderle la misura di una sottoveste che si chiama cotta. Era necessario che, per tale bisogna, quella donna, che era bellissima di forme, si mettesse quasi nuda, perché ei potesse più giustamente prendere la misura del corpo e far meglio la veste. E quando fu nuda, e non v'era alcuno, il sarto fece l'affar suo, e rese la pariglia al medico; al quale di poi non mancò di raccontarlo.

CLVI

DI UN FIORENTINO CHE ERA FIDANZATO COLLA FIGLIA
D'UNA VEDOVA

Un Fiorentino, che si reputava furbo, erasi fidanzato con la figlia di una vedova e veniva spesso, come è costume, alla casa di lei; un giorno che la madre non v'era, egli si godé la fanciulla. Quando ella tornò, seppe tutto ciò che era avvenuto dal viso della figlia, e prese a rimproverarla acerbamente, dicendole che aveva disonorata la casa e conchiudendo in ultimo che quel matrimonio non si sarebbe conchiuso e che ella avrebbe fatto ogni sforzo per scioglierlo. Tornò il giovane quando la sua futura suocera era uscita, come e' soleva fare, e quando vide la fanciulla mesta e ne chiese la causa e seppe che la madre avea deciso di dissolvere il matrimonio: «E tu», le chiese, «che intendi fare?». «Di ubbidire la mamma», rispose. «Puoi farlo, se tu vuoi», soggiunse il giovane; e poiché ella gli chiese in qual modo poteasi ciò fare: «Poco fa», disse egli, «tu sei stata di sotto; ora vieni tu sopra, ché coll'atto contrario si dissolve il matrimonio». Ed ella acconsentì e sciolse il matrimonio. Dopo del tempo ella andò a marito ed egli prese un'altra moglie, e alle nozze di questo ella venne, e quando si videro, al ricordo delle cose passate sorrisero fra di loro; la sposa, che vede questo, sospettando a male, alla notte, chiese al marito che cosa significasse quel sorriso; egli non voleva dirlo, ma fu costretto, e confessò la sciocchezza di quella fanciulla. E allora la moglie: «Che Dio confonda colei che fu tanto matta da far capire la cosa alla madre. Che bisogno c'era di andare a dire alla mamma la faccenda vostra ? So bene che io feci la stessa cosa più di cento volte col nostro servo, ma io non feci mai di ciò parola alcuna alla madre». Tacque il marito e capì di aver avuto ciò che si meritava.

CLVII

DI UN USURAIO DI VICENZA

Un usuraio di Vicenza invitava spesso un frate, che era uomo di grande autorità e che spesso predicava al popolo, a fare una predica contro gli usurai, imprecando con tutte le forze contro quel vezzo che era fra tutti il più radicato nella città; e ripeteva questo invito con tanta insistenza da riuscire molesto. Meravigliato un tale che egli così continuamente insistesse perché fosse vituperato il mestiere che egli stesso faceva, gli chiese a che volesse riuscire con le sue sollecitazioni: «Qui», rispose l'usuraio, «sono moltissimi che dànno a prestito con usura, e poca gente viene da me e non guadagno niente. Ma se gli altri si persuadessero di smettere, io farei il guadagno che ora tutti assieme fanno». Questa storia mi narrò ridendo quel frate.

CLVIII

NOVELLA FACETISSIMA DEL CUOCO GIANNINO

Giannino, cuoco di Baronto Pistoiese, che aveva fatto il cuoco anche a Venezia, narrò al pranzo dei segretari una novella molto faceta. Fuvvi una volta un Veneziano sciocco che fu offeso da un'ingiuria, e desiderava di avere dei figliuoli che gliela avessero vendicata. Ma la moglie era sterile ed egli pregò un amico, che diceva di essere assai abile artefice per procrear figliuoli, perché gli facesse questo favore. E l'amico pose ogni sua cura per far le parti del marito. Un giorno che questi, per non disturbar la grande opera, l'aveva lasciato a lavorare il campo, e passeggiava per la città, incontrò il nemico suo ancor più minaccioso dell'usato: «Oh! oh! », disse il nostro uomo, «taci tu, stolto; ché non sai ciò che contro di te si faccia in casa mia; e se tu lo sapessi, freneresti le tue minacce e penseresti a te stesso. Si fa, sappilo dunque, si fa quello che farà poi le mie vendette».

CLIX

DI UN VENETO SCIOCCO CHE ESSENDO A CAVALLO
PORTAVA GLI SPERONI IN TASCA

Ci raccontò ancora una simile sciocchezza di un altro Veneziano, il quale, essendo montato a cavallo per andare in villa, teneva gli speroni in tasca. E poiché il cavallo lentamente camminava, egli lo batteva spesso ai fianchi coi talloni: «Ah! non ti muovi?», gli diceva: «se tu sapessi che cosa ho in tasca, tu cambieresti il passo».

CLX

DI UNO SCIOCCO VENEZIANO
CHE FU DERISO DA UN CIARLATANO

Narrò ancora un'altra novella, della quale ridemmo moltissimo. Disse che venne una volta a Venezia un ciarlatano, che aveva dipinto in una banderuola un ordegno maschile cinto da molte legature. Andò da lui un Veneziano e gli chiese che cosa significasse quella distinzione; e il ciarlatano, per ridere, disse che il suo affare era di tal natura, che se una donna ne avea solo la prima parte, faceva dei mercanti; la seconda, dei soldati; la terza, dei capitani; la quarta, dei papi; e chiedeva il prezzo dell'opera proporzionalmente. Ciò credette prontamente lo stolto, e, narrata la cosa alla moglie, chiamò a casa sua il ciarlatano, e stabilito il prezzo, volle che gli facesse un figliuolo soldato. E quando questi fu sulla moglie, il marito fece finta di andarsene, ma si nascose dietro il letto; e mentre essi erano intenti a fabbricare il soldato, saltò fuori improvvisamente lo sciocco e spinse di dietro l'uomo con forza, perché v'entrasse anche la quarta parte: «Per i Santi Evangeli di Dio», esclamò, «avrò un papa!» e credeva di aver frodato l'amico.

CLXI

DI UN VENEZIANO CHE ANDAVA A TREVISO E CHE EBBE
UNA SASSATA NELLE RENI DAL SERVO

Un Veneziano, che andava a Treviso, cavalcava un cavallo preso a nolo ed aveva il servo dietro a piedi. E nell'andare, questi ebbe dal cavallo un calcio in una gamba, e adirato pel dolore, afferrato un sasso per far male al cavallo, lo scagliò per caso contro le reni del padrone; e questi, da sciocco, credette che la cosa gli venisse dal cavallo; e poiché rimproverava il servo che in causa della ferita lo seguiva lentamente e di lontano: «Non posso venir più in fretta», gli rispose questi, «per causa del calcio che mi fa male». «Non te ne affliggere», rispose il padrone, «che è un cavallo che ha questo vizio; anche a me poco fa ha esso dato un gran calcio nelle reni».

CLXII

DI UNA VOLPE CHE FUGGIVA DAI CANI E CHE UN VILLANO
NASCOSE NELLA PAGLIA

Una volpe, che fuggiva da' cani che la inseguivano nella caccia, si incontrò in un villano che sull'aia batteva il suo grano, pregandolo a difenderla dai cani e promettendogli di non dargli più danno al pollaio. Il villano acconsentì, e presa una forcata di paglia, coprì con essa la volpe. Poco dopo vennero i cacciatori a chiedergli se avesse vista una volpe che fuggiva e che via avesse presa. Ed egli rispose loro che la volpe era andata per una certa strada, con le parole, ma cogli occhi e col gesto indicava ch'essa era sotto la paglia; e i cacciatori, più attenti alle parole che ai gesti, continuarono la loro via. Allora il villano, scoperta la volpe: «Mantieni dunque», le disse, «la promessa che mi hai fatta, perché l'hai scampata per le mie parole, avendo io detto che eri lontana». Ma essa, che aveva avuta grande paura ed aveva visti i gesti del villano: «Le tue parole», rispose, «furono buone, ma l'azione cattiva». Questo va detto di coloro che dicono una cosa e ne fanno un'altra.

CLXIII

DI UN FIORENTINO CHE COMPRO' UN CAVALLO

Un Fiorentino, che io conosco, fu costretto a vivere a Roma per comprare un cavallo di cui aveva bisogno; e pattuì col venditore, che chiedeva venticinque ducati per prezzo ed era troppo caro, di dargliene quindici alla mano e di voler essere debitore del resto. Il giorno dopo, quando venne a chiedere i dieci ducati che rimanevano, ricusò di darglieli il Fiorentino: «Abbiamo stabilito», egli disse, «io sarei tuo debitore di dieci ducati; ma se io te li pagassi, non sarei più debitore».

CLXIV

FACEZIA DI GONNELLA SALTIMBANCO

Gonnella, che fu un saltimbanco molto faceto, promise per pochi denari, di far diventare indovino un tale di Ferrara, il quale desiderava molto questa cosa. Lo fece venire una volta seco in letto, e silenziosamente mandò fuori dal ventre un grande vapore, poi gli disse di mettere la testa sotto le lenzuola; e quegli la mise e la ritrasse tosto pel gran puzzo: «Tu hai fatto un gran peto», gli disse; e Gonnella: «Paga tosto il tuo denaro, perché hai indovinato».

CLXV

ALTRA FACEZIA DI UNO CHE VOLEVA DIVENTARE INDOVINO

Anche un altro gli chiese di diventare indovino: «Con una pillola sola», gli disse, «ti farò tale», e fatta una piccola pillola di sterco, glie la pose in bocca, e quello sputò fuori pel fetore. «La pillola che mi hai data», gli disse, «sa di sterco». E Gonnella gli rispose che aveva indovinato giustamente e lo richiese del prezzo che avevano stabilito

CLXVI

DI ALCUNI PRODIGI NARRATI A PAPA EUGENIO

Quest'anno, d'ottobre, essendo di nuovo venuto il Pontefice a Firenze, si narrò di molti prodigi e da persone di tanta fede che a non credergli sembrerebbe follia. Lettere giunte da Como da persone onoratissime che hanno vista la cosa, narrano che in un certo luogo che è lontano cinque miglia di là, alle ventun'ora di sera, fu vista una gran moltitudine di cani che parevano rossi e che si credette fossero quattromila, andare verso la Germania, e seguivano questa prima schiera una gran quantità di bovi e di pecore, dopo questi venivano fanti e cavalieri divisi in coorti ed in bande, alcuni dei quali collo scudo e in così gran numero da parere un esercito; e alcuni di essi pareva che avessero il capo, altri senza capo si vedevano. L'ultima schiera era di un uomo grandissimo come un gigante; stava sopra un grandissimo cavallo e aveva seco gran quantità di giumente di tutte le sorta. Questo passaggio durò quasi tre ore e lo videro in diversi luoghi; e di ciò sono molti testimoni, uomini e donne, che per veder meglio si avvicinarono. E dopo il tramonto del sole, come se passassero ad altri luoghi, non si videro più.

CLXVII

ALTRO PRODIGIO

Dopo pochi giorni da Roma raccontarono altre cose, e di non dubbia fede, poiché vi sono le prove. I1 venti di settembre si scatenò un turbine di venti e furono strappate dal suolo le mura di un castello abbandonato chiamato Borghetto, che è lontano sei miglia dalla città, e la chiesa antichissima che è vicina a quel luogo, e le pietre erano così sminuzzate che pareva fossero state le mani dell'uomo. In una bettola, che era luogo di riposo pei viandanti e dove molti si erano rifugiati, tutto il tetto fu sollevato e portato molto lungi di là sulla via, senza che ne venisse danno ad alcuno. La torre della chiesa di Santa Ruffina, che è lontana dieci miglia dalla città dall'altra parte del Tevere, e verso il mare, in un luogo che si chiama Casale, fu svelta dal suolo e rovinò. E a coloro che meravigliati ne chiesero la cagione, due bifolchi, che stavano a Casale a coltivare i campi, venuti per questi avvenimenti a Roma, narrarono di avere spesso veduto camminare per le foreste vicine quel cardinale detto il Patriarca, che poco tempo prima era morto di ferita, con una veste di lino, com'è dei cardinali, e col berretto quadro come soleva portarlo, mesto, che si lagnava e piangeva. E lo videro quel giorno in cui fu così violento il turbine del vento, là in mezzo, fra i venti, abbracciare quella torre e strapparla dal suolo e rovinarla a terra. Oltre a ciò molti grossi alberi e querci furono divelti dalle radici e gettati lontano. Nelle quali cose prestandosi comunemente poca fede, molti andarono a vedere e dissero che era vero.

CLXVIII

DI UN NOTARO FIORENTINO DISONESTO

Un notaro di Firenze, e che guadagnava assai poco dall'arte sua, pensò a qualche altra scaltrezza per guadagnar danaro e andò da un giovane a chiedergli se gli erano stati restituiti cinquecento fiorini, che suo padre aveva una volta prestati ad un tale che era già morto. I1 giovane, che non sapeva alcuna cosa di ciò, disse che tale debito egli non aveva visto in nome del padre. I1 notaro asseriva che l'istrumento l'aveva egli stesso rogato, e spinse il giovane a chiedere ciò che doveva dinanzi al podestà, rinnovando con denaro l'atto. I1 figlio di colui che si diceva essere debitore, quando fu citato, negò che il padre suo avesse mai presa alcuna cosa in prestito, e che di quest'affare nulla risultava, com'è uso dei mercanti, dai suoi libri; e subito andò dal notaro e lo prese a rimbrottare come uomo falso, che aveva scritta cosa che non era avvenuta. E il notaro: «Tu non sai», gli disse, «figlio mio, che nel tempo in cui fu fatto quell'affare tu non eri ancor nato; tuo padre prese a prestito quella somma, ma la restituì dopo pochi mesi, ed io stesso ho fatto il contratto pel quale tuo padre e assolto di quel debito». E quello diedegli il denaro per rinnovar l'istrumento e fu tolto da quella molestia. E così con bella frode il notaro ebbe denaro da entrambi.

CLXIX

DI UN MONACO CHE INTRODUSSE IL CORDONE
IN UN FORO DI UN'ASSICELLA

Nel Picentino è una città chiamata Iesi. In essa eravi un frate, che aveva nome Lupo, il quale amava una giovinetta che era anche vergine; e questa, esortata molte volte, cedette e acconsentì a far la voglia del frate. Ma temendo di dover provare troppo grave dolore, esitava alquanto, onde il frate disse che avrebbe interposta una tavoletta di legno, per il foro della quale avrebbe 1anciata la freccia. Poi prese una tavoletta di abete sottilissima, la perforò, e andò di nascosto dalla fanciulla, introdusse il cordone nel foro, e prese a baciarla soavemente, mentre sotto le vesti cercava il buon boccone. Ma il cordone suddetto, per la bellezza del viso e per il contatto di sotto, risvegliatosi, prese a gonfiarsi stranamente e fuor di misura entro il foro, rimanendovi come strangolato; e la cosa ben tosto fu a un punto tale, che non potea più né entrare né uscire senza grande dolore. Cambiato in dolore il piacere, il frate prese a gridare ed a gemere per il martirio troppo grave. La fanciulla atterrita voleva consolar l'uomo, e lo baciava e voleva che compiesse la cosa desiderata, e gli accresceva il dolore; perché aumentandosi in quel modo il volume, lo spasimo si facea peggiore. E il disgraziato si doleva e chiedeva dell'acqua fredda per calmare quel gonfiore, bagnandolo. La ragazza, che aveva paura di que' della casa, non osava chiedere acqua; poi, commossa dalle grida e dal dolore di quell'uomo, andò a prenderne, e bagnatolo, tolse alquanto il gonfiore. E come un po' di rumore si faceva nella casa, il frate, desideroso di svignarsela, tolse il cordone dalla tavoletta, ed era scorticato, massime al di sopra; e quando dové chiamare il medico per la cosa, la novella venne sulle bocche di tutti. Ché se a tutti costassero altrettanto i loro vizi, molti sarebbero più continenti.

CLXX

ORRIBILE STORIA DI UN GIOVANE
CHE MANGIAVA I BAMBINI

Io racconterò ancora, tra queste fiabe, una storia nefanda ed orribile, non mai udita ne' secoli addietro, che io stesso credevo favolosa, ma della quale ho potuto convincermi per una lettera di un segretario del Re. Ecco come press'a poco era scritto in una parte di quella lettera. «A dodici miglia da Napoli è avvenuto un fatto mostruoso, in un luogo de' monti di Somma, dov'è un borgo così chiamato. È stato preso e condotto dal Podestà un ragazzo di circa tredici anni, che aveva mangiato due bambini di tre anni. Egli li attirava con blandizie in una spelonca, li impiccava e li tagliava a pezzi, e parte di quella carne mangiava cruda, parte cotta al fuoco. Ed ha confessato di averne mangiati molti altri, perché quelle carni gli sembravano più saporite delle altre; e che ne mangerebbe sempre, se potesse. E poiché si dubitava che ciò facesse per pazzia, rispose saggiamente sulle altre cose, e constò che operava non per demenza ma per ferocia».

CLXXI

DI UN CAVALIERE FIORENTINO CHE FINSE DI ANDAR FUORI
DI CASA E SENZA SAPUTA DELLA MOGLIE SI NASCOSE
NELLA STANZA DA LETTO

Un cavaliere fiorentino, uomo podagroso, il nome del quale taccio per suo onore, aveva moglie e questa aveva gittati gli occhi sull'intendente della casa. Di ciò s'era egli accorto, e in un giorno di festa finse d'andar fuori di casa, e nella stanza da letto, senza saputa della moglie, si nascose. Questa, credendo che il marito fosse lontano, andò tosto dall'intendente e lo chiamò nella stanza: «Voglio», gli disse dopo poche parole d'accoglienza, «che noi facciamo fra di noi qualche giuoco». E avendo l'altro acconsentito: «Fingiamo», disse la donna, «di fare fra di noi la guerra, poi concludiamo la pace». E poiché l'altro non capiva: «Lottiamo un poco», disse ella, «e quando mi avrai distesa per terra, metti la tua freccia nella mia ferita e allora con iscambievoli baci concluderemo la pace». E la cosa piacque molto all'uomo, che aveva sempre udito far le lodi della pace e che la pace sarebbe stata tanto soave. E poiché entrambi giacevano e ormai si preparavano alla pace, il marito uscì dal nascondiglio: «Cento volte», egli disse, «ai miei giorni ho io procurata la pace; ma questa sola contro l'uso mio, non voglio che si faccia». Così se ne andarono, senza aver potuto concluderla.

CLXXII

DI UN TALE CHE VOLEA FARSI CREDERE DI UNA GRANDE
CASTITA' E CHE FU SORPRESO IN ADULTERIO

Un tale nostro concittadino, che voleva sembrare uomo casto e di grandissima religione, fu una volta sorpreso da un amico nell'atto, e fu acerbamente da lui redarguito che egli, che predicava la castità cadesse in così brutto peccato. «Oh! oh!» rispose, «non credere che ciò io faccia per 1ussuria, ma bensì per domare e macerare questa misera carne e per purgare i reni». E son così fatti questi pezzi d'ipocriti, che fanno di ogni erba fascio e vogliono sempre coprire con qualche onesto velame la loro ambizione e le loro nefandità.

CLXXIII

SULLO STESSO SOGGETTO

Un eremita, che dimorava a Pisa, al tempo di Pietro Gambacorta, condusse una notte nella sua cella una donna pubblica e se ne servì una ventina di volte, ma sempre movendosi, per sfuggire il peccato di lussuria, dicendo in volgare: «Dòmati, carne cattivella». E quando la donna lo disse, e' fu cacciato dalla città.

CLXXIV

DI UN POVER'UOMO CHE GUADAGNAVA COLLA BARCA

Un povero che traeva il viver suo traghettando il fiume, una sera, che non vi aveva passato alcuno, tornava tardi a casa, mesto, quando di lontano vide uno che gridava perché lo passasse; e sperando nel piccolo guadagno, passò all'altra riva quell'uomo. Ma avendogli chiesto il denaro, quegli giurò che non ne aveva affatto e gli promise di dargli buoni consigli in premio dell'opera sua: «Come», disse il barcaiuolo, «mentre la mia famiglia muore di fame, dovrò darle de' consigli a mangiare?». «E questo soltanto», rispose, «io posso dare». Il barcaiuolo, molto adirato, chiese che cosa dicessero questi consigli: «Che tu», disse il viaggiatore, «non devi mai trasportare alcuno senza aver prima avuto il denaro; e che tu non dica mai a tua moglie che un altro lo ha più abbondante». Udite queste cosee e' tornò afflitto a casa. E alla donna, che gli chiese denaro per comprar del pane, disse, che in luogo di denaro egli recava dei buoni consigli, e le narrò la cosa, e le disse i consigli che aveva ricevuti. La donna quando sentì parlar d'abbondanza, drizzò le orecchie: «Forse che», chiese, «voi uomini non ne avete tutti la stessa quantità?». «Che! «rispose, «vi sono fra di noi grandi differenze; il nostro prete ne ha forse più del doppio», e stendendo il braccio, le mostrò la misura. La donna, tosto accesa di voglia, volle il più presto che poté esperimentare se suo marito avesse detto il vero. Così mutata in stoltezza quella che doveva esser sapienza, imparò il pover'uomo che non si hanno a dire le cose che ci sono nocive.

CLXXV

DI UNO SCIOCCO MILANESE CHE PORTO' AL CONFESSORE
IL MANOSCRITTO DEI SUOI PECCATI

Un certo milanese, sia per sciocchezza, sia per ipocrisia, sia per paura di dimenticarli, aveva scritto in un grosso quaderno i suoi peccati, e andò con questo una volta da un uomo molto dotto e perito in sì fatta materia, chiamato Antonio Randanense di Milano dell'ordine dei Minori, per confessare i peccati suoi; e pòrtogli il quaderno, lo pregò di leggerlo, ché esso conteneva tutta la confessione de' suoi peccati. L'uomo avveduto e saggio, che vide che la lettura di quel volume richiedeva molto tempo, conosciuta la stoltezza dell'uomo, lo interrogò sommariamente, poi gli disse: «Io ti assolvo compiutamente di tutti i peccati che sono qui scritti». E poi che l'altro gli chiese qual penitenza fosse per infliggergli: «Per un mese», gli disse, «tu leggerai questo codice sette volte il giorno». E per quanto dicesse che ciò non si potea fare, il confessore rimase sull'avviso. E così la prolissità dello sciocco fu vinta dalla risposta.

CLXXVI

DI UN TALE CHE ANDANDO A VISITARE I PARENTI DELLA MOGLIE
VOLEVA ESSERE LODATO DA UN AMICO

Un tale che era di poco ferma salute, e poco ricco, aveva preso moglie; andò, d'estate, una sera a cena dai parenti di questa, e condusse seco un amico, pregandolo di aggiungere sempre col discorso a ciò che egli avrebbe detto. Quando la suocera lodò la veste che egli indossava, disse che ne aveva un'altra più bella, e l'amico che esso ne aveva una il doppio più bella ancora. E quando il suocero gli chiese se avesse dei possedimenti, ed ei rispose che aveva un fondo fuori del paese, che gli rendeva abbastanza per vivere: «Non ricordi dunque», disse l'amico, «l'altro fondo che possiedi e che ti produce tanto denaro?» E così via, di tutte le cose che egli vantava, l'amico aggiungeva il doppio. E poi che il suocero gli diceva che mangiava poco e lo pregava di prender cibo: «Io», disse, «all'estate non sto bene»; e l'amico, per mantenere le cose come aveva cominciato: «Egli è», soggiunse, «assai più di ciò che egli dica; perché, se sta male all'estate, sta assai peggio nell'inverno». A queste parole tutti scoppiarono dalle risa, e la esagerazione dell'uomo, indirizzata a false lodi, ebbe il premio che si conviene alla stoltezza.

CLXXVII

DI PASQUINO DA SIENA CHE DISSE AD UNO DEL CORPO
DI STATO CHE QUESTO CREPASSE

Pasquino da Siena, che fu uomo gioviale e faceto, quando la città mutò governo, si recò esule dalla patria a Ferrara; venne qui per vederlo un cittadino senese, uomo di poco valore, che da Venezia tornava a Siena; fu ricevuto cordialmente da Pasquino, e nella conversazione promisegli l'opera sua se egli in favor suo potesse qualche cosa e mostrando per vanità che egli a Siena era molto potente, aggiungendo che egli faceva parte del corpo di Stato: «Che Dio voglia», disse Pasquino, «che questo presto crepi affinché tu e i pari tuoi ne possano il più presto uscire». E così giocondamente punì la vanità di quel tale.

CLXXVIII

DI UN DOTTORE CHE ALLA CACCIA PARLAVA IN LATINO
ED ERA IGNORANTE

Un dottore di Milano, uomo sciocco ed ignorante, un dì che vide un tale che con una civetta andava alla caccia, lo pregò di condurlo seco, perché desiderava di vedere. I1 cacciatore acconsentì e nascose il nostr'uomo sotto le frondi vicino alla civetta, col patto che non proferisse parola, perché gli uccelli non si spaventassero. Ed essendo venuti molti uccellini, quello sciocco lo gridò subito, perché l'altro tirasse le reti. E gli uccelli, udita la voce, scapparono. Ma sgridato acerbamente dal cacciatore, promise il silenzio; ed essendo gli uccelli tornati, quello stolto lo disse prontamente con parole latine: «Aves permulta sunt», credendo in questa lingua gli uccelli non avrebbero compreso. E questi fuggirono di nuovo, e il cacciatore, smarrita la speranza di far buona preda, rimproverò anche più acerbamente il dottore di aver parlato. E questi: «Forse che», disse, «gli uccelli sanno il latino? « Credeva egli che se ne fossero andati non pel suono, ma per il significato delle parole, come se le avessero capite.

CLXXIX

DI UNA DONNA CHE SI CREDEVA LODATA UDENDO DIRE
CHE ERA MOLTO APERTA

La moglie di un tale di Siena era coll'amante nel giuoco, e, dopo questo, avendogli egli detto per contumelia che non aveva mai trovato donna meglio aperta, ella credendo che ciò le tornasse a lode: «Questo che dici», gli rispose, «è per bontà tua, non per merito mio; magari che quello che mi hai detto fosse vero! che io per questo mi riputerei più nobile e degna di maggior stima».

CLXXX

FACEZIA DETTA DA UNA GIOVANE CHE ERA SOTTO
IL DOLORE DEL PARTO

Una giovane di Firenze, un po' vuota di testa, era nel parto e soffriva atroci dolori; e duravano già da molto tempo, quando la comare, con un lume, andò ad osservare di sotto se il bambino non stesse per uscire, e la partoriente le disse di guardare anche dall'altra parte, perché qualche volta il marito aveva preso quella via.

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