Poggio Bracciolini
Un amico esortava un usuraio, che era ormai vecchio, a lasciare
il mestiere per pensare alla salute dell'anima e al riposo del
corpo, e lo persuadeva con molti argomenti, fra i quali anche
quello di riparare all'incresciosa ed infame vita che aveva condotto.
E l'usuraio: «Come tu vuoi», disse, «smetterò
cotesto mestiere, perché i miei crediti van tanto male,
che per amore o per forza dovrò cessare». Ei dichiarava
di lasciare l'usura non pel rimorso del peccato, ma per paura
di rimettere ciò che guadagnato avea.
Si era raccontata questa storia in compagnia di amici, quando
uno di questi disse: «È un caso simile a quello di
una meretrice vecchia (e ne aggiunse il nome) che ormai decrepita
chiedeva l'elemosina, dicendo: Fate la carità a chi lasciò
il peccato e il mestier di puttana. Un uomo ragguardevole le chiese
un dì perché mendicasse: Che cosa volete ch'io faccia?
nessuno mi vuol più, rispose. E l'uomo le disse: È
dunque per necessità, non per volontà tua, che hai
lasciato il peccato; perché ora non avresti più
maniera di commetterne».
I1 Pontefice Martino era una volta co' suoi segretari e versava
in argomenti giocondi il discorso, quando egli narrò come
vi fosse un dottore in Bologna, il quale, avendo chiesto qualche
cosa con troppa insistenza al legato, questi lo trattò
da matto: «E quando», disse il dottore udito ciò,
«avete voi conosciuto ch'io sia matto?». «In questo
momento», rispose il legato. «E voi non pensate bene»,
rispose l'altro, «poiché io lo ero quando vi feci
dottor nelle leggi civili, essendo voì di esse ignorante».
I1 legato era dottore, ma bensì poco dotto, e quello con
queste parole gli mostra l'ignoranza sua.
Un altro, credo che fosse il Vescovo di Aletto, riportò
il detto di un Romano: «Un cardinale di Napoli, uomo sciocco
ed ignorante, un giorno che egli era stato dal Pontefice, incontrò
un cittadino romano, ed ei rideva di continuo come era suo costume.
I1 cittadino chiese a un compagno per qual ragione quel cardinale
ridesse, e avendo l'altro risposto di non conoscerla: «Certamente»,
disse, «egli ride della stoltezza del Pontefice che lo nominò
Cardinale».
E un altro raccontò due motti allegri di due oratori del
Concilio di Costanza, che erano abati dell'ordine di San Benedetto;
i quali, essendo andati in nome del Concilio da Pietro de Luna,
che prima era riconosciuto come Pontefice dagli Spagnuoli e da'
Francesi, quando questi li vide, disse che due corvi andavano
a lui; risposero che non v'era da far meraviglia se due corvi
si avvicinassero ad un cadavere buttato; volendo con ciò
significargli che il Concilio lo aveva come un cadavere condannato.
E nell'alterco ch'ebbero con lui sulla questione del Pontificato,
avendo Pietro detto: «Qui è l'arca di Noè»,
volendo dire che in lui era il diritto della Sede Apostolica:
«Nell'Arca di Noè», risposero, «v'erano
molte bestie».
I1 mio copista Giovanni, tornato da quella regione che chiamasi
Brittania, verso la metà di ottobre del penultimo anno
del pontificato di Martino V, a tavola con me, raccontò
alcune cose mirabili che egli, uomo dotto e incapace di menzogna,
aveva vedute. Prima, che piovve sangue fra la Loira, il Berrv
ed il Poitou, in modo che le pietre furono di quel sangue macchiate.
E che questo sia spesso avvenuto lo mostran le storie, quindi
meno meraviglioso può sembrare. Ma quello che dirò
appresso io non l'avrei creduto, se ei non lo avesse affermato
con giuramento. Nella festa degli Apostoli Pietro e Paolo che
viene in giugno, disse che certi mietitori del suo paese, che
il dì prima avevano non so qual fieno lasciato nel campo,
disprezzando la solennità del giorno, per non perdere il
fieno, andarono a raccoglierlo, e questo in un'ora sola poteano
fare. Ma per volontà di Dio rimasero per lungo tempo nel
campo a rimuovere il fieno, giorno e notte, senza né dormire
né cibarsi. E molti giorni trascorsero ch'essi né
poteano uscire dal campo né poteano quelli che si fermavano
a guardare, credendoli pazzi, a loro avvicinarsi. E il copista
affermò che egli stesso li aveva veduti, e non seppe poi
dire ciò che appresso fosse loro avvenuto.
Nello stesso modo un altro de' miei colleghi della Curia, che
era di Rouen e aveva nome Rolet, narrò di aver visto un
miracolo per il disprezzo delli Santi di Dio. «Eravi presso
il castello della città una parrocchia dedicata al Beato
Gottardo, e ricorrendo il giorno a lui dedicato, tutti i parrocchiani'
com'è costume, con pompa e processioni vi accorrevano.
Una giovane di un'altra parrocchia prese a schernirli e a deridere
il nome del santo e le loro cerimonie, e disse, che per mostrare
il suo disprezzo avrebbe filato, e prese difatto conocchia e fuso;
e questi le si attaccarono alle mani e alle dita con gran dolore,
e non si poteano togliere, e poiché la fanciulla era divenuta
muta, co' gesti, perché colla voce non potea, mostrò
il dolore e la cagione di esso. E fattasi una gran riunione di
uomini, la condussero all'altare del santo che ella aveva offeso,
e fatto il voto, le caddero fuso e conocchia dalle mani e riebbe
la voce». Ciò mi disse era avvenuto nella sua parrocchia,
e l'affermava con tanto calore, che io, per quanto non lo volessi
credere, dovetti mostrare di fargli qualche fede.
Si diceva un giorno fra i segretari del Papa, che coloro che cedono all'opinione del volgo sono soggetti alla più deplorevole servitù, perché non è mai possibile, essendo tanto vari i pareri, piacere a tutti che su diverse cose pensano diversamente. E, a questo proposito, uno de' presenti narrò la seguente storia, ch'ei diceva d'aver vista scritta e dipinta in Germania.
Disse che vi fu un vecchio, che col figlio giovinetto si spingeano
innanzi un asino senza so ma, che essi volevano vendere al mercato.
Lungo la strada, alcuni che stavano lavorando ne' campi, rimproverarono
il vecchio perché su quell'asino senza peso non montasse
né il padre né il figlio, ma lo lasciassero andare
in quel modo, mentre che uno per la vecchiaia, l'altro per la
tenera età, abbisognavano di non affaticarsi. E il vecchio
allora mise sull'asino il fanciullo e continuò il viaggio
a piedi. Altri che li videro gridarono contro la stoltezza del
vecchio, che aveva posto il ragazzo che era più forte sull'asino,
ed egli, debole per l'età, li seguiva a piedi. E mutato
d'avviso, fe' scendere il fanciullo e montò egli stesso
sull'asino. Dopo un po' di cammino, udì altri che gli facean
colpa di star egli che era il padre su l'asino, e di trascinarsi
dietro, come servo, il figliuolo, non avendo nessun riguardo alla
sua età. Ed egli, persuaso di queste parole, fe' salire
seco il giovinetto sull'asino, e così proseguì per
la via; e lungo questa, un altro gli chiese se suo fosse l'asino,
e avendo egli affermato che suo era, l'altro gli diede rimprovero
di averne tanta cura come se d'altri fosse, caricandolo di soverchio
peso, essendo che uno fosse bastato. Quest'uomo, per tante e varie
opinioni non si contenne più, e poiché non poteva
far la sua strada, né coll'asino senza peso, né
con uno di loro, né con entrambi sopra di esso, legò
i piedi dell'asino e li infilò in un bastone e questo pose
sulle spalle sue e del figlio e andò in questo modo al
mercato. E poiché tutti per la novità del caso scoppiavano
dalle risa, e gridavano contro la stoltezza di entrambi e specialmente
del padre, questo, che era sulla riva di un fiume, gittò
l'asino legato nel fiume, e così perduto l'asino tornò
a casa. Per tal modo il buon uomo, che volle accondiscendere alle
opinioni di tutti, non contentò alcuno e perdé l'asino.
Un giorno, al cospetto de' Priori di Firenze, si leggeva una lettera
che diceva di un certo tale, che era assai poco bene accetto al
Governo. E poi che il nome di costui molto spesso occorreva nella
lettera suddetta, così avveniva che a quel nome si aggiungesse
il prefato; per esempio, il prefato Paolo. Uno di coloro che erano
presenti, ignorante delle lettere, credendo che quella parola
valesse onore, e che nel vocabolo prefato si contenesse gran lode
come se di prudentissimo o di sapientissimo, prese tosto a protestare
quella essere cosa indegna, che un uomo malvagio, nemico della
patria, dovesse chiamarsi prefato.
Nello stesso modo un mio compaesano chiamato Matteozio, uomo assai
rozzo, fece ridere molto. In un giorno di festa, ad un pranzo
di sacerdoti, a' preparativi del quale egli insieme con altri
aveva presieduto, quando si fu alla fine, poiché molti
di essi erano venuti di lontano, egli come più vecchio
ebbe incarico di ringraziarli, e disse in questo modo: «Padri
miei, vogliate perdonarci se qualche cosa vi è mancata;
non facemmo noi ciò che dovevamo fare, ma bensì
a misura delle facoltà nostre abbiamo trattati voi a seconda
della vostra ignoranza». Credeva il rozzo uomo, che cercava
di chiudere il discorso con qualche grossa parola, di avere così
dette le loro doti come se avesse detto o Prudenza o Sapienza.
Antonio Lusco, che fu il più dotto e il più cortese
degli uomini, ci raccontò una volta, discorrendo dopo pranzo,
questa storia ridicola: «È un modo comune di dire,
che quando alcuno fa rumore di ventre dica con quelli che sono
presenti: Alla barba di chi non deve niente ad alcuno. Un vecchio
di Vicenza che aveva la barba oltremodo lunga, fu chiamato in
giudizio da un suo creditore, dinanzi al governatore della città,
che era Ugolotto Biancardo, uomo dotto e severo. I1 vecchio prese
dinanzi al giudice a protestare, agitato, ch'egli non era di alcuna
cosa debitore, ch'egli non doveva nulla a nessuno. Vattene lungi
subito, disse Ugolotto, e allontana da noi questa tua fetente
barba che muove a schifo col malo odore che manda. E il vecchio,
meravigliato, avendo chiesto per qual ragione puzzasse essa così
fortemente: Ci hanno detto, disse Ugolotto, che tutte le bombe
che escano mai dal ventre degli uomini siano mandate alla barba
di colui che non deve cosa a nessuno. Egli con queste parole punì
molto graziosamente la iattanza del vecchio, facendo ridere tutti
coloro che erano presenti».
Eravamo a cena nel palazzo del Pontefice in molti, fra i quali
erano ancora alcuni segretari e il discorso cadde sull'ignoranza
di coloro, i quali non attingono altra scienza o dottrina fuori
dalle formule scritte, né sanno dare di queste alcuna ragione,
ma dicono soltanto che così trovarono scritto dai loro
maggiori. Carlo da Bologna, che era uomo molto gioviale, venne
fuori a dire: Costoro sono simili ad un certo notaro della città
(e ne disse il nome); vennero a questi due uomini per fare un
contratto di vendita, ed egli, presa la penna per cominciare a
scrivere, chiese i loro nomi; e quando quelli dissero che uno
aveva nome Giovanni e l'altro Filippo, il notaro subito disse
che l'istrumento (ché così si chiama) non potea
farsi fra loro. E avendone essi chiesta la ragione: Se il venditore,
rispose, non si chiama Corrado e il compratore Tizio (questi erano
i nomi che egli aveva imparati nella formula), questo contratto
non si può rogare né può stare in diritto.
E poiché essi dissero che non poteano mutarsi il nome,
ed il notaro rimase nella sua opinione, perché così
era scritto nelle sue formule, quelli se ne andarono. E andarono
da un altro, abbandonando quell'uomo sciocco, che credeva di commettere
delitto di falsità se mutava i nomi che erano scritti nelle
sue formule».
E venne di poi il discorso su la stoltezza di coloro che mandano
ambasciatori ai principi; e se ne erano nominati alcuni, quando
Antonio Lusco disse ridendo: «Non avete mai udito parlare
della temerarità di quel Fiorentino (e mi guardò)
che il popolo di Firenze mandò a Giovanna che fu regina
di Napoli? Egli aveva nome Francesco ed era dottore nelle leggi,
per quanto fosse molto ignorante. Egli disse la ragione della
sua missione alla regina, e invitato a venire il giorno dopo,
seppe frattanto che essa non disprezzava gli uomini, specialmente
se erano belli, e venne il dì dopo alla regina, e dopo
averle parlato di molte e varie cose, le disse finalmente di voler
parlare solo con lei di cose segrete. E la regina chiamò
l'uomo in una stanza separata, credendo che e' dovesse dirle cose
occulte che non potessero comunicarsi alla presenza di molta gente,
e quello stolto, che era moltissimo persuaso della propria bellezza,
chiese alla regina di dormir seco. Allora questa, senza turbarsi,
e fissando in volto l'uomo: Forse che, disse, i Fiorentini vi
hanno dato anche questo incarico? E senza sdegno gli comandò
di andarsene e di tornare solo quando fosse incaricato di quella
cosa, poiché egli si era fatto rosso in viso e non sapea
più che dire».
Cencio, romano, che era uomo molto sapiente, mi raccontò
molte volte la storia che non è da prendersi a beffe, la
quale un suo vicino, che non era uno sciocco, diceva che gli era
accaduta. Ed è questa: «Una volta egli s'alzò
dal letto che splendeva la luna, e poiché la notte era
serena, credette che fosse l'alba e uscì per andare alla
sua vigna, com'è costume de' Romani di coltivar con amore
le vigne. Uscito dalla porta d'Ostia (per uscire dovette pregare
i custodi che glie la aprissero) vide andare innanzi a sé
una donna; e credendo che ella andasse per divozione verso San
Paolo, ardendo egli di gran desiderio, affrettò il passo
per raggiungerla, e poiché era sola, così credeva
di persuaderla facilmente. E quando le fu vicino, ella lasciò
la via maestra e prese un sentiero; e l'uomo le corse dietro per
non perder la buona occasione. E andato innanzi un poco, afferrò
la donna ad uno svolto, la stese a terra e compì l'opera.
Dopo ciò essa scomparve lasciando odor di zolfo. L'uomo,
sentendosi sul terreno erboso, sorse un po' atterrito e tornò
a casa Tutti hanno creduto che egli fosse vittima di una illusione
del demonio».
Quando Cencio narrò quella storia, era presente Angelotto,
vescovo di Anagni, e raccontò di un altro caso simile:
«Un mio parente», disse (e ne fece il nome), «una
notte che per la città deserta passeggiava, s'incontrò
in una donna, a quanto credette, e che gli parve anche bella,
e con quella fece l'affar suo. Ed essa, dopo ciò, per spaventarlo,
cangiata in aspetto di bruttissimo uomo: E che hai tu fatto? gli
disse. Per verità, io, sciocco, ti ho ingannato. Ed egli:
Come ti piace, rispose franco, ma io t'ho macchiato di dietro».
Si parlava fra noi della ingratitudine di coloro che sono solleciti
a far lavorare gli altri, ma tardi a ricompensarli, e Antonio
Lusco, che era assai faceto e cortese, ci disse: «Un uomo
amico mio, che ha nome Vincenzo ed era avvocato di un uomo ricchissimo,
dopo avere sostenute molte cause per questo, senza mai averne
ricompensa, finalmente un giorno venne al tribunale per difendere
una causa più difficile delle altre, di che colui l'aveva
pregato mandandogli il dì del giudizio in dono dei fichi
e delle pesche. E benché gli avversari dicessero molte
cose contro di lui, e per quanto lo eccitassero, egli rimase sempre
a bocca chiusa, senza profferir mai parola. Tutti erano meravigliati,
ed il cliente più di tutti, che gli chiese perchè
fosse rimasto così silenzioso: Le pesche, rispose, ed i
fichi che tu mi hai mandato, mi hanno talmente gelata la bocca
che non ho potuto dir parola».
Un medico ignorante, ma furbo, quando in compagnia di un discepolo
visitava i malati, toccando il polso, come fanno, se sentiva che
vi fosse qualche cosa di più grave del solito, ne incolpava
il malato, dicendo che egli aveva mangiato o un fico, o un pomo,
o qualunque altra cosa che gli fosse stata proibita. E poi che
i malati spesso lo confessavano, così egli pareva un uomo
divino che anche gli errori dei malati sapeva conoscere. Di questo
il discepolo fece spesse volte le meraviglie e chiese al medico
in qual modo dal polso, col tatto, o con qual'altra più
elevata scienza conoscesse quelle cose; e il medico, per ricompensarlo
della stima che egli aveva per lui, gli svelò il segreto:
«Quando», disse egli, «entro nella stanza di un
malato, guardomi dintorno diligentemente se sul suolo non vi siano
gli avanzi di un frutto o di altra cosa; come se corteccia di
fico o di castagna o guscio di noce, o scorza di mela, o qualunque
altra cosa, e penso che il malato ne abbia mangiato, e così
ne' mali che si aggravano incolpo l'incontinenza del malato, ed
io non ho più colpa se le cose vanno male». Dopo qualche
tempo il discepolo prese egli stesso a esercitare la medicina,
e spesso faceva gli stessi rimproveri ai malati, dicendo che avevano
mancato alle prescrizioni, o che avran mangiato qualche cosa,
secondo che potea egli farne congetture dagli avanzi. E venne
una volta da un povero villano, al quale promise pronta guarigione
se avesse seguito il suo consiglio; e datagli una certa pozione,
disse ch'ei sarebbe tornato il dì dopo. E quando tornò,
l'ammalato aveva la malattia che si era fatta più grave;
quest'uomo stolto e ignorante, non conoscendone la cagione, prese
a guardare qua e là, né vide avanzo alcuno, quando,
non sapendo che cosa dire, vide sotto il letto il basto dell'asino.
Allora prese a gridare e a dire che capiva finalmente perché
il malato stesse peggio; che egli aveva commesso grave disordine
e che si meravigliava che non fosse morto, ed asseriva che il
malato aveva mangiato un asino, credendo che la sella fosse dell'asino
cotto l'avanzo, come le ossa sono della carne. L'uomo ridicolo,
sorpreso nella sua stoltezza, fece ridere molta gente
Evvi un castello dei Bolognesi chiamato Medicina, e a questo fu
mandato per podestà un uomo rozzo e ignorante; a lui andarono
un giorno due che avevano lite per ragion di denaro: il primo,
che si diceva creditore, affermava che l'altro gli godeva il denaro
per ragioni private, e il podestà, poiché l'ebbe
udito, disse rivolto verso il debitore: «Tu ti comporti male,
perché non restituisci ciò che devi». Ma poiché
l'altro negava di dover qualche cosa perché ei l'avea già
pagato, rimproverò il creditore di chiedere ciò
che non doveva avere; e questo di nuovo sostenne la sua causa,
e mostrò le ragioni del credito, e il podestà si
scagliò contro al debitore di nuovo, perché negasse
una cosa che era tanto palese; e questi ripeté con nuovi
argomenti che il debito era stato pagato, e un'altra volta il
podestà rimbrottò il creditore che voleva due volte
il suo avere. E così, dopo essersi mutato molte volte alle
parole di ognuno: «Ambedue le parti», disse, «han
ragione: ognuno di voi ha vinto ed ha perduto. Ora, se vi piace,
andate». E tenne così giudizio, senza discutere e
decidere alcuna cosa. Questa storia si raccontò fra noi
a proposito di un tale di nostra conoscenza, che mutava spesso
di opinione nello stesso argomento.
Era presso di noi una donna che aveva nome Giovanna, e che io
ho conosciuta, e trovavasi malata. I1 medico, che era astuto quanto
ignorante, chiese, per curare la malattia, che gli mostrassero
l'urina; e questa la figlia giovinetta ed ancora nubile ebbe cura
di conservare, come è costume; ma questa dimenticandosi
mostrò l'urina sua al medico, invece di quella della malata.
Subito il medico disse che la donna aveva bisogno del marito;
e quando ciò fu detto al marito, dopo essersi riempito
bene lo stomaco alla cena, andò in letto con la moglie.
Ella, che non sapeva del consiglio del medico, e poiché
per la debolezza aveva molestissima la cosa, e meravigliata della
novità del caso: «Che fai tu», disse, «amico
mio? mi ucciderai». «Sta' zitta», rispose l'uomo,
«ché questa, a parer del medico, è la migliore
medicina per il tuo male, perché in questo modo ne sarai
libera e restituita sana». E non s'ingannò, perché
avendo egli ripetuto quattro volte la cosa, il giorno dopo cessò
affatto la febbre. Così l'inganno del medico fu cagion
di salute.
Una cosa simile avvenne a Valenza, siccome disse un mio concittadino.
Narrò che una donna assai giovane era stata sposata ad
un notaio, e che dopo qualche tempo cadde gravemente malata che
tutti credevano che ne morisse; e già i medici l'avevano
spacciata, e la ragazza perduta la favella e chiusi gli occhi,
inanimata ormai, sembrava morta. Doleasi il marito che gli venisse
così presto tolta la moglie, della quale più volte
si era servito, e che egli, come è naturale, amava molto;
e pensò di giacer seco prima che morisse. Allontanò
gli astanti, non so per quale pretesto di cosa segreta che aveva
a fare, e fece l'officio suo. La donna tosto, come se il marito
le avesse infusa la vita, riprese i sensi, e dischiusi gli occhi,
prese a parlare e con voce commossa a chiamare il marito. I1 quale
avendo chiesto che cosa volesse, le dié a bere, e quando
ebbe anche mangiato, risanò. E ne fu cagione la funzione
matrimoniale; esempio questo che mostra come di molte malattie
delle donne quella sia la miglior medicina .
Lamentavamo un giorno la triste condizione dei tempi, per non
dire degli uomini che tengono le alte cariche della Chiesa, poiché
messi da parte gli uomini dotti e prudenti, si innalzano gli ignoranti
che non hanno valore alcuno. E disse allora Antonio Lusco: «Ciò
non avviene tanto per colpa del Pontefice, quanto per quella dei
principi, presso i quali vediamo essere in auge gli uomini sciocchi
e ridicoli, e disprezzati invece quelli che eccellono per dottrina.
Eravi», soggiunse, «alla corte di Cane il vecchio, signore
di Verona, un uomo giovialissimo di nome Nobile, rozzo e ignorante,
ma che in grazia delle sue facezie era venuto accetto a Cane,
e per questo, poiché era chierico, in possesso di molti
benefizi. Una volta che Cane all'antico Arcivescovo di Milano,
che governava la città, mandò ambasciatori uomini
di gran fama, Nobile si unì a loro. Dette le ragioni per
le quali erano stati mandati, volevano gli ambasciatori ritornarsene,
e l'Arcivescovo, cui Nobile, che era uomo di facili parole avea
mosso il riso, disse a questi di chieder ciò che da lui
volesse. E Nobile gli chiese una importante dignità di
Arciprete. E l'Arcivescovo allora, ridendo della stoltezza dell'uomo:
Voi vedete, gli disse, che tale carica non è proporzionata
alle vostre forze, perché voi siete un uomo ignorante delle
lettere, ed assolutamente incolto. E a lui, pronto e con grande
franchezza, rispose Nobile: Io faccio secondo il costume del mio
paese: a Verona agli uomini di lettere non si dà alcuna
cosa e agli illetterati ed agli ignoranti si conferiscono i benefizi».
Ridemmo tutti del faceto detto dell'uomo, che riputava che ciò
che stoltamente si faceva a Verona dovesse farsi ugualmente dappertutto.
Evvi a Firenze magistrato che è preposto ai buoni costumi, detto Officiale di onestà; ed è cura sua di decidere le questioni delle donne pubbliche, e di curare che esse non abbiano molestie nella città. Venne una volta dinanzi ad esso una cortigiana a lamentarsi dell'ingiuria e del danno che le aveva fatto un barbiere, che chiamato nel bagno perché le radesse le parti inferiori, le fece col rasoio, là dentro un taglio tale, che per molti giorni non poté introdurvi alcun uomo, e per questo lo accusava di averle dato danno e chiedeva che la compensasse di ciò che non aveva potuto guadagnare.
Si chiede: come dovrà essere la sentenza?
Uno di que' frati, che si dice che vivono nel l'osservanza, udiva
una volta la confessione de' peccati di una bella vedova di Firenze.
E la donna parlando gli si stringeva addosso, e gli moveva la
faccia vicino perché parlava piano. Il frate, riscaldato
da quel fiato giovanile, sentì che si destava ciò
che in lui dormiva, e alzava il capo cagionandogli grave pena:
e, tormentato dagli stimoli della carne, e torcendosi, disse alla
donna di andarsene; e questa lo richiese della penitenza: «Penitenza!»,
esclamò il frate, «ma voi a me l'avete fatta fare!»
A Montevarchi, che è un borgo vicino a noi, un ortolano
che io conosco, che aveva la moglie giovane, una volta che ella
era fuori a lavare i panni tornò a casa, e desiderando
di sapere che cosa avrebbe detto o fatto sua moglie se ei fosse
morto, si stese a terra supino fingendosi tale. La moglie tornò
a casa carica della biancheria, e trovò il marito morto,
come le parve, e stette in forse se dovesse subito piangere la
morte del marito o piuttosto mangiare, poiché era ella
rimasta digiuna fino a mezzogiorno. Ma cedette agli stimoli della
fame, e, posto al fuoco un pezzo di lardo, prese a mangiarlo in
fretta, dimenticandosi per la furia, di bere. E avendo, per cagion
della carne salata, molta sete, prese un fiascoe discese presto
le scale per prender vino dalla cantina. Venne frattanto una vicina
a chiederle fuoco, e la donna, gettato il fiasco, risalì
le scale, e come se l'uomo fosse morto allora, prese a piangere
dirottamente e a dare in esclamazioni. Vennero a queste grida
e a questi pianti tutti i vicini, sorpresi della morte improvvisa.
Giaceva l'uomo per terra e teneva il fiato e aveva chiusi gli
occhi, come se fosse morto davvero. E quando gli parve che il
gioco fosse durato abbastanza, alla moglie che piangeva e che
ripeteva: «O mio uomo! e che cosa farò io adesso?»
disse, aprendo gli occhi: «Farai male, se non andrai subito
a prendere il vino». Tutti passarono dalle lacrime al riso,
quando specialmente udirono la storia e la cagion della sete.
Una giovane di Bologna, che da poco era andata a marito, si lamentava
con una nobile donna che stava vicino a me, che suo marito la
bastonasse fortemente e spesso. E avendole quella chiestane la
cagione, rispose la giovane, che ciò era, perché,
quando il marito si valeva del suo diritto, rimaneva essa immobile
come un tronco: «Perché allora», le chiese, «non
ubbidite nel letto al marito, e non vi lasciate fare con piacere?».
Ed ella «Non so fare, signora, perché nessuno mi ha
mai insegnato come si faccia; se lo sapessi lo farei, per non
sentirmi bastonare». Meravigliosa ingenuità di quella
fanciulla, che ignorava anche quelle cose che la natura insegna
alle donne. Questa storia, per ridere, la raccontai anche a mia
moglie.
Bernabò, duca di Milano, fu uomo molto dato alle donne.
Un giorno, che solo nel giardino se la godeva tranquillamente
con una donna che egli amava, sopravvenne improvvisamente un frate,
che era suo confessore, e che per la grande autorità e
sapienza sua aveva ogni porta aperta al duca. Questi arrossì
e si sdegnò insieme dell'inattesa venuta del confessore,
e un po' commosso, per aver poi la risposta: «Che cosa fareste
voi dunque», disse, «se vi trovaste nel letto una donna
bella come è questa?». «Ciò che non dovrei
fare», rispose, «lo so; ma ciò che io farei non
so dire». Con questa risposta calmò lo sdegno del
duca, confessando d'esser uomo e di poter come gli uomini fallare.
Roberto degli Albizi, uomo dotto e molto cortese, aveva un servo
sciocco e distratto, senza alcun ingegno, che e' teneva in casa
più per umanità che per averne vantaggio. Una volta
lo mandò con certi ordini ad un amico suo' che aveva nome
Dego, e abitava presso il ponte Santa Trinità; questi chiesegli
che cosa lo mandasse a dirgli il padrone, e il servo, che aveva
dimenticato le parole di esso, stava pensieroso come uno stupido
e non sapeva che dire. Allora, visto che il servo si serbava silenzioso:
«Io so», gli disse, «che cosa vuoi»; e mostratogli
un gran mortaio di marmo: «Prendi questo», dissegli,
«e portalo tosto al padrone, che è ciò ch'egli
vuole». E Roberto lo vide di lontano portar sulle spalle
il mortaio, e pensando che ciò fosse per punire il servo
suo della grande balordaggine, quando gli fu vicino: «Hai
fatto male, sciocco», gli disse, «ché non hai
ben comprese le parole mie; porta indietro quello che è
troppo grande, e recamene uno più piccolo». E sudando
e stanco dal peso, tornò all'amico, confessando l'errore,
e ne portò un altro ed un terzo; e in questo modo fu punito
della sua sciocchezza.
Un giovane fiorentino, di poco cervello, disse ad un amico che
e' voleva viaggiare il mondo e voleva spendere mille fiorini per
essere conosciuto. E l'altro, che lo conosceva a fondo: «Farai
meglio», gli disse, «a spenderne duemila per non essere
conosciuto affatto».
Quando Dante, nostro poeta fiorentino, era esule in Siena, un
dì, nella chiesa dei Minori, stava col gomito appoggiato
su di un altare, rivolgendo i suoi pensieri nell'animo, e gli
si accostò un tale a richiederlo di non so qual cosa noiosa.
E Dante: «Dimmi dunque», gli chiese, «qual'è
la più grossa di tutte le bestie?» «L'elefante»,
rispose l'altro. «Or bene», soggiunse Dante, «lasciami
stare, o elefante, ché io penso a cose più importanti
delle tue; e non voler esser noioso».
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