Home

Mori's Humor Page
Umorismo, facezie, testi letterari curiosi


Poggio Bracciolini
LE FACEZIE

| I - XXX | XXXI - LX | LXI - XC | XCI - CXX | CXXI - CL |

| CLI - CLXXX | CLXXXI - CCXX | CCXXI - CCL | CCLI - CCLXXII |

INDICE DEI TITOLI

riga

FACEZIE DA XCI a CXX

riga

XCI

DI UN USURAIO VECCHIO CHE LASCIAVA IL MESTIERE PEL TIMORE
DI PERDERE QUELLO CHE AVEVA GUADAGNATO

Un amico esortava un usuraio, che era ormai vecchio, a lasciare il mestiere per pensare alla salute dell'anima e al riposo del corpo, e lo persuadeva con molti argomenti, fra i quali anche quello di riparare all'incresciosa ed infame vita che aveva condotto. E l'usuraio: «Come tu vuoi», disse, «smetterò cotesto mestiere, perché i miei crediti van tanto male, che per amore o per forza dovrò cessare». Ei dichiarava di lasciare l'usura non pel rimorso del peccato, ma per paura di rimettere ciò che guadagnato avea.

XCII

D'UNA MERETRICE MENDICANTE

Si era raccontata questa storia in compagnia di amici, quando uno di questi disse: «È un caso simile a quello di una meretrice vecchia (e ne aggiunse il nome) che ormai decrepita chiedeva l'elemosina, dicendo: Fate la carità a chi lasciò il peccato e il mestier di puttana. Un uomo ragguardevole le chiese un dì perché mendicasse: Che cosa volete ch'io faccia? nessuno mi vuol più, rispose. E l'uomo le disse: È dunque per necessità, non per volontà tua, che hai lasciato il peccato; perché ora non avresti più maniera di commetterne».

XCCIII

DI UN DOTTORE E D'UN IGNORANTE

I1 Pontefice Martino era una volta co' suoi segretari e versava in argomenti giocondi il discorso, quando egli narrò come vi fosse un dottore in Bologna, il quale, avendo chiesto qualche cosa con troppa insistenza al legato, questi lo trattò da matto: «E quando», disse il dottore udito ciò, «avete voi conosciuto ch'io sia matto?». «In questo momento», rispose il legato. «E voi non pensate bene», rispose l'altro, «poiché io lo ero quando vi feci dottor nelle leggi civili, essendo voì di esse ignorante». I1 legato era dottore, ma bensì poco dotto, e quello con queste parole gli mostra l'ignoranza sua.

XCIV

DETTO DEL VESCOVO DI ALETTO

Un altro, credo che fosse il Vescovo di Aletto, riportò il detto di un Romano: «Un cardinale di Napoli, uomo sciocco ed ignorante, un giorno che egli era stato dal Pontefice, incontrò un cittadino romano, ed ei rideva di continuo come era suo costume. I1 cittadino chiese a un compagno per qual ragione quel cardinale ridesse, e avendo l'altro risposto di non conoscerla: «Certamente», disse, «egli ride della stoltezza del Pontefice che lo nominò Cardinale».

XCV

DETTO FACETO DI UN ABATE

E un altro raccontò due motti allegri di due oratori del Concilio di Costanza, che erano abati dell'ordine di San Benedetto; i quali, essendo andati in nome del Concilio da Pietro de Luna, che prima era riconosciuto come Pontefice dagli Spagnuoli e da' Francesi, quando questi li vide, disse che due corvi andavano a lui; risposero che non v'era da far meraviglia se due corvi si avvicinassero ad un cadavere buttato; volendo con ciò significargli che il Concilio lo aveva come un cadavere condannato.

XCVI

ARGUTO MOTTO

E nell'alterco ch'ebbero con lui sulla questione del Pontificato, avendo Pietro detto: «Qui è l'arca di Noè», volendo dire che in lui era il diritto della Sede Apostolica: «Nell'Arca di Noè», risposero, «v'erano molte bestie».

XCVII

COSE MIRABILI NARRATE DALL'AMANUENSE

I1 mio copista Giovanni, tornato da quella regione che chiamasi Brittania, verso la metà di ottobre del penultimo anno del pontificato di Martino V, a tavola con me, raccontò alcune cose mirabili che egli, uomo dotto e incapace di menzogna, aveva vedute. Prima, che piovve sangue fra la Loira, il Berrv ed il Poitou, in modo che le pietre furono di quel sangue macchiate. E che questo sia spesso avvenuto lo mostran le storie, quindi meno meraviglioso può sembrare. Ma quello che dirò appresso io non l'avrei creduto, se ei non lo avesse affermato con giuramento. Nella festa degli Apostoli Pietro e Paolo che viene in giugno, disse che certi mietitori del suo paese, che il dì prima avevano non so qual fieno lasciato nel campo, disprezzando la solennità del giorno, per non perdere il fieno, andarono a raccoglierlo, e questo in un'ora sola poteano fare. Ma per volontà di Dio rimasero per lungo tempo nel campo a rimuovere il fieno, giorno e notte, senza né dormire né cibarsi. E molti giorni trascorsero ch'essi né poteano uscire dal campo né poteano quelli che si fermavano a guardare, credendoli pazzi, a loro avvicinarsi. E il copista affermò che egli stesso li aveva veduti, e non seppe poi dire ciò che appresso fosse loro avvenuto.

XCVIII

PUNIZIONE MERAVIGLIOSA DEL DISPREZZO DE' SANTI

Nello stesso modo un altro de' miei colleghi della Curia, che era di Rouen e aveva nome Rolet, narrò di aver visto un miracolo per il disprezzo delli Santi di Dio. «Eravi presso il castello della città una parrocchia dedicata al Beato Gottardo, e ricorrendo il giorno a lui dedicato, tutti i parrocchiani' com'è costume, con pompa e processioni vi accorrevano. Una giovane di un'altra parrocchia prese a schernirli e a deridere il nome del santo e le loro cerimonie, e disse, che per mostrare il suo disprezzo avrebbe filato, e prese difatto conocchia e fuso; e questi le si attaccarono alle mani e alle dita con gran dolore, e non si poteano togliere, e poiché la fanciulla era divenuta muta, co' gesti, perché colla voce non potea, mostrò il dolore e la cagione di esso. E fattasi una gran riunione di uomini, la condussero all'altare del santo che ella aveva offeso, e fatto il voto, le caddero fuso e conocchia dalle mani e riebbe la voce». Ciò mi disse era avvenuto nella sua parrocchia, e l'affermava con tanto calore, che io, per quanto non lo volessi credere, dovetti mostrare di fargli qualche fede.

XCIX

STORIA PIACEVOLE DI UN VECCHIO CHE PORTAVA
SULLE SPALLE L'ASINO

Si diceva un giorno fra i segretari del Papa, che coloro che cedono all'opinione del volgo sono soggetti alla più deplorevole servitù, perché non è mai possibile, essendo tanto vari i pareri, piacere a tutti che su diverse cose pensano diversamente. E, a questo proposito, uno de' presenti narrò la seguente storia, ch'ei diceva d'aver vista scritta e dipinta in Germania.

Disse che vi fu un vecchio, che col figlio giovinetto si spingeano innanzi un asino senza so ma, che essi volevano vendere al mercato. Lungo la strada, alcuni che stavano lavorando ne' campi, rimproverarono il vecchio perché su quell'asino senza peso non montasse né il padre né il figlio, ma lo lasciassero andare in quel modo, mentre che uno per la vecchiaia, l'altro per la tenera età, abbisognavano di non affaticarsi. E il vecchio allora mise sull'asino il fanciullo e continuò il viaggio a piedi. Altri che li videro gridarono contro la stoltezza del vecchio, che aveva posto il ragazzo che era più forte sull'asino, ed egli, debole per l'età, li seguiva a piedi. E mutato d'avviso, fe' scendere il fanciullo e montò egli stesso sull'asino. Dopo un po' di cammino, udì altri che gli facean colpa di star egli che era il padre su l'asino, e di trascinarsi dietro, come servo, il figliuolo, non avendo nessun riguardo alla sua età. Ed egli, persuaso di queste parole, fe' salire seco il giovinetto sull'asino, e così proseguì per la via; e lungo questa, un altro gli chiese se suo fosse l'asino, e avendo egli affermato che suo era, l'altro gli diede rimprovero di averne tanta cura come se d'altri fosse, caricandolo di soverchio peso, essendo che uno fosse bastato. Quest'uomo, per tante e varie opinioni non si contenne più, e poiché non poteva far la sua strada, né coll'asino senza peso, né con uno di loro, né con entrambi sopra di esso, legò i piedi dell'asino e li infilò in un bastone e questo pose sulle spalle sue e del figlio e andò in questo modo al mercato. E poiché tutti per la novità del caso scoppiavano dalle risa, e gridavano contro la stoltezza di entrambi e specialmente del padre, questo, che era sulla riva di un fiume, gittò l'asino legato nel fiume, e così perduto l'asino tornò a casa. Per tal modo il buon uomo, che volle accondiscendere alle opinioni di tutti, non contentò alcuno e perdé l'asino.

C

LA MAGGIOR BALORDAGGINE D'UN UOMO

Un giorno, al cospetto de' Priori di Firenze, si leggeva una lettera che diceva di un certo tale, che era assai poco bene accetto al Governo. E poi che il nome di costui molto spesso occorreva nella lettera suddetta, così avveniva che a quel nome si aggiungesse il prefato; per esempio, il prefato Paolo. Uno di coloro che erano presenti, ignorante delle lettere, credendo che quella parola valesse onore, e che nel vocabolo prefato si contenesse gran lode come se di prudentissimo o di sapientissimo, prese tosto a protestare quella essere cosa indegna, che un uomo malvagio, nemico della patria, dovesse chiamarsi prefato.

CI

ALTRA BALORDAGGINE

Nello stesso modo un mio compaesano chiamato Matteozio, uomo assai rozzo, fece ridere molto. In un giorno di festa, ad un pranzo di sacerdoti, a' preparativi del quale egli insieme con altri aveva presieduto, quando si fu alla fine, poiché molti di essi erano venuti di lontano, egli come più vecchio ebbe incarico di ringraziarli, e disse in questo modo: «Padri miei, vogliate perdonarci se qualche cosa vi è mancata; non facemmo noi ciò che dovevamo fare, ma bensì a misura delle facoltà nostre abbiamo trattati voi a seconda della vostra ignoranza». Credeva il rozzo uomo, che cercava di chiudere il discorso con qualche grossa parola, di avere così dette le loro doti come se avesse detto o Prudenza o Sapienza.

CII

DI UN VECCHIO DALLA BARBA LUNGA

Antonio Lusco, che fu il più dotto e il più cortese degli uomini, ci raccontò una volta, discorrendo dopo pranzo, questa storia ridicola: «È un modo comune di dire, che quando alcuno fa rumore di ventre dica con quelli che sono presenti: Alla barba di chi non deve niente ad alcuno. Un vecchio di Vicenza che aveva la barba oltremodo lunga, fu chiamato in giudizio da un suo creditore, dinanzi al governatore della città, che era Ugolotto Biancardo, uomo dotto e severo. I1 vecchio prese dinanzi al giudice a protestare, agitato, ch'egli non era di alcuna cosa debitore, ch'egli non doveva nulla a nessuno. Vattene lungi subito, disse Ugolotto, e allontana da noi questa tua fetente barba che muove a schifo col malo odore che manda. E il vecchio, meravigliato, avendo chiesto per qual ragione puzzasse essa così fortemente: Ci hanno detto, disse Ugolotto, che tutte le bombe che escano mai dal ventre degli uomini siano mandate alla barba di colui che non deve cosa a nessuno. Egli con queste parole punì molto graziosamente la iattanza del vecchio, facendo ridere tutti coloro che erano presenti».

CIII

STORIA DI UN NOTAIO NARRATA DA CERTO CARLO DA BOLOGNA

Eravamo a cena nel palazzo del Pontefice in molti, fra i quali erano ancora alcuni segretari e il discorso cadde sull'ignoranza di coloro, i quali non attingono altra scienza o dottrina fuori dalle formule scritte, né sanno dare di queste alcuna ragione, ma dicono soltanto che così trovarono scritto dai loro maggiori. Carlo da Bologna, che era uomo molto gioviale, venne fuori a dire: Costoro sono simili ad un certo notaro della città (e ne disse il nome); vennero a questi due uomini per fare un contratto di vendita, ed egli, presa la penna per cominciare a scrivere, chiese i loro nomi; e quando quelli dissero che uno aveva nome Giovanni e l'altro Filippo, il notaro subito disse che l'istrumento (ché così si chiama) non potea farsi fra loro. E avendone essi chiesta la ragione: Se il venditore, rispose, non si chiama Corrado e il compratore Tizio (questi erano i nomi che egli aveva imparati nella formula), questo contratto non si può rogare né può stare in diritto. E poiché essi dissero che non poteano mutarsi il nome, ed il notaro rimase nella sua opinione, perché così era scritto nelle sue formule, quelli se ne andarono. E andarono da un altro, abbandonando quell'uomo sciocco, che credeva di commettere delitto di falsità se mutava i nomi che erano scritti nelle sue formule».

CIV

DI UN DOTTORE DI FIRENZE CHE MANDATO AD UNA REGINA
LE CHIESE DI DORMIR SECO

E venne di poi il discorso su la stoltezza di coloro che mandano ambasciatori ai principi; e se ne erano nominati alcuni, quando Antonio Lusco disse ridendo: «Non avete mai udito parlare della temerarità di quel Fiorentino (e mi guardò) che il popolo di Firenze mandò a Giovanna che fu regina di Napoli? Egli aveva nome Francesco ed era dottore nelle leggi, per quanto fosse molto ignorante. Egli disse la ragione della sua missione alla regina, e invitato a venire il giorno dopo, seppe frattanto che essa non disprezzava gli uomini, specialmente se erano belli, e venne il dì dopo alla regina, e dopo averle parlato di molte e varie cose, le disse finalmente di voler parlare solo con lei di cose segrete. E la regina chiamò l'uomo in una stanza separata, credendo che e' dovesse dirle cose occulte che non potessero comunicarsi alla presenza di molta gente, e quello stolto, che era moltissimo persuaso della propria bellezza, chiese alla regina di dormir seco. Allora questa, senza turbarsi, e fissando in volto l'uomo: Forse che, disse, i Fiorentini vi hanno dato anche questo incarico? E senza sdegno gli comandò di andarsene e di tornare solo quando fosse incaricato di quella cosa, poiché egli si era fatto rosso in viso e non sapea più che dire».

CV

DI UN UOMO CHE VIDE IL DIAVOLO SOTTO L'ASPETTO
DI UNA DONNA

Cencio, romano, che era uomo molto sapiente, mi raccontò molte volte la storia che non è da prendersi a beffe, la quale un suo vicino, che non era uno sciocco, diceva che gli era accaduta. Ed è questa: «Una volta egli s'alzò dal letto che splendeva la luna, e poiché la notte era serena, credette che fosse l'alba e uscì per andare alla sua vigna, com'è costume de' Romani di coltivar con amore le vigne. Uscito dalla porta d'Ostia (per uscire dovette pregare i custodi che glie la aprissero) vide andare innanzi a sé una donna; e credendo che ella andasse per divozione verso San Paolo, ardendo egli di gran desiderio, affrettò il passo per raggiungerla, e poiché era sola, così credeva di persuaderla facilmente. E quando le fu vicino, ella lasciò la via maestra e prese un sentiero; e l'uomo le corse dietro per non perder la buona occasione. E andato innanzi un poco, afferrò la donna ad uno svolto, la stese a terra e compì l'opera. Dopo ciò essa scomparve lasciando odor di zolfo. L'uomo, sentendosi sul terreno erboso, sorse un po' atterrito e tornò a casa Tutti hanno creduto che egli fosse vittima di una illusione del demonio».

CVI

ALTRA STORIA NARRATA DA ANGELOTTO

Quando Cencio narrò quella storia, era presente Angelotto, vescovo di Anagni, e raccontò di un altro caso simile: «Un mio parente», disse (e ne fece il nome), «una notte che per la città deserta passeggiava, s'incontrò in una donna, a quanto credette, e che gli parve anche bella, e con quella fece l'affar suo. Ed essa, dopo ciò, per spaventarlo, cangiata in aspetto di bruttissimo uomo: E che hai tu fatto? gli disse. Per verità, io, sciocco, ti ho ingannato. Ed egli: Come ti piace, rispose franco, ma io t'ho macchiato di dietro».

CVII

DI UN AVVOCATO CHE RICEVETTE FICHI E PESCHE DA UN CLIENTE

Si parlava fra noi della ingratitudine di coloro che sono solleciti a far lavorare gli altri, ma tardi a ricompensarli, e Antonio Lusco, che era assai faceto e cortese, ci disse: «Un uomo amico mio, che ha nome Vincenzo ed era avvocato di un uomo ricchissimo, dopo avere sostenute molte cause per questo, senza mai averne ricompensa, finalmente un giorno venne al tribunale per difendere una causa più difficile delle altre, di che colui l'aveva pregato mandandogli il dì del giudizio in dono dei fichi e delle pesche. E benché gli avversari dicessero molte cose contro di lui, e per quanto lo eccitassero, egli rimase sempre a bocca chiusa, senza profferir mai parola. Tutti erano meravigliati, ed il cliente più di tutti, che gli chiese perchè fosse rimasto così silenzioso: Le pesche, rispose, ed i fichi che tu mi hai mandato, mi hanno talmente gelata la bocca che non ho potuto dir parola».

CVIII

DI UN MEDICO FURBO QUANDO VISITAVA I MALATI

Un medico ignorante, ma furbo, quando in compagnia di un discepolo visitava i malati, toccando il polso, come fanno, se sentiva che vi fosse qualche cosa di più grave del solito, ne incolpava il malato, dicendo che egli aveva mangiato o un fico, o un pomo, o qualunque altra cosa che gli fosse stata proibita. E poi che i malati spesso lo confessavano, così egli pareva un uomo divino che anche gli errori dei malati sapeva conoscere. Di questo il discepolo fece spesse volte le meraviglie e chiese al medico in qual modo dal polso, col tatto, o con qual'altra più elevata scienza conoscesse quelle cose; e il medico, per ricompensarlo della stima che egli aveva per lui, gli svelò il segreto: «Quando», disse egli, «entro nella stanza di un malato, guardomi dintorno diligentemente se sul suolo non vi siano gli avanzi di un frutto o di altra cosa; come se corteccia di fico o di castagna o guscio di noce, o scorza di mela, o qualunque altra cosa, e penso che il malato ne abbia mangiato, e così ne' mali che si aggravano incolpo l'incontinenza del malato, ed io non ho più colpa se le cose vanno male». Dopo qualche tempo il discepolo prese egli stesso a esercitare la medicina, e spesso faceva gli stessi rimproveri ai malati, dicendo che avevano mancato alle prescrizioni, o che avran mangiato qualche cosa, secondo che potea egli farne congetture dagli avanzi. E venne una volta da un povero villano, al quale promise pronta guarigione se avesse seguito il suo consiglio; e datagli una certa pozione, disse ch'ei sarebbe tornato il dì dopo. E quando tornò, l'ammalato aveva la malattia che si era fatta più grave; quest'uomo stolto e ignorante, non conoscendone la cagione, prese a guardare qua e là, né vide avanzo alcuno, quando, non sapendo che cosa dire, vide sotto il letto il basto dell'asino. Allora prese a gridare e a dire che capiva finalmente perché il malato stesse peggio; che egli aveva commesso grave disordine e che si meravigliava che non fosse morto, ed asseriva che il malato aveva mangiato un asino, credendo che la sella fosse dell'asino cotto l'avanzo, come le ossa sono della carne. L'uomo ridicolo, sorpreso nella sua stoltezza, fece ridere molta gente

CIX

DI DUE UOMINI CHE SI DISPUTAVANO IL DENARO

Evvi un castello dei Bolognesi chiamato Medicina, e a questo fu mandato per podestà un uomo rozzo e ignorante; a lui andarono un giorno due che avevano lite per ragion di denaro: il primo, che si diceva creditore, affermava che l'altro gli godeva il denaro per ragioni private, e il podestà, poiché l'ebbe udito, disse rivolto verso il debitore: «Tu ti comporti male, perché non restituisci ciò che devi». Ma poiché l'altro negava di dover qualche cosa perché ei l'avea già pagato, rimproverò il creditore di chiedere ciò che non doveva avere; e questo di nuovo sostenne la sua causa, e mostrò le ragioni del credito, e il podestà si scagliò contro al debitore di nuovo, perché negasse una cosa che era tanto palese; e questi ripeté con nuovi argomenti che il debito era stato pagato, e un'altra volta il podestà rimbrottò il creditore che voleva due volte il suo avere. E così, dopo essersi mutato molte volte alle parole di ognuno: «Ambedue le parti», disse, «han ragione: ognuno di voi ha vinto ed ha perduto. Ora, se vi piace, andate». E tenne così giudizio, senza discutere e decidere alcuna cosa. Questa storia si raccontò fra noi a proposito di un tale di nostra conoscenza, che mutava spesso di opinione nello stesso argomento.

CX

DI UN MEDICO IGNORANTE CHE DALL' L'ESAME DELL'URINA
DISSE CHE UNA DONNA AVEVA BISOGNO DEL MARITO

Era presso di noi una donna che aveva nome Giovanna, e che io ho conosciuta, e trovavasi malata. I1 medico, che era astuto quanto ignorante, chiese, per curare la malattia, che gli mostrassero l'urina; e questa la figlia giovinetta ed ancora nubile ebbe cura di conservare, come è costume; ma questa dimenticandosi mostrò l'urina sua al medico, invece di quella della malata. Subito il medico disse che la donna aveva bisogno del marito; e quando ciò fu detto al marito, dopo essersi riempito bene lo stomaco alla cena, andò in letto con la moglie. Ella, che non sapeva del consiglio del medico, e poiché per la debolezza aveva molestissima la cosa, e meravigliata della novità del caso: «Che fai tu», disse, «amico mio? mi ucciderai». «Sta' zitta», rispose l'uomo, «ché questa, a parer del medico, è la migliore medicina per il tuo male, perché in questo modo ne sarai libera e restituita sana». E non s'ingannò, perché avendo egli ripetuto quattro volte la cosa, il giorno dopo cessò affatto la febbre. Così l'inganno del medico fu cagion di salute.

CXI

DI UN UOMO CHE GIACQUE CON LA MOGLIE MALATA
CHE DOPO GUARI'

Una cosa simile avvenne a Valenza, siccome disse un mio concittadino. Narrò che una donna assai giovane era stata sposata ad un notaio, e che dopo qualche tempo cadde gravemente malata che tutti credevano che ne morisse; e già i medici l'avevano spacciata, e la ragazza perduta la favella e chiusi gli occhi, inanimata ormai, sembrava morta. Doleasi il marito che gli venisse così presto tolta la moglie, della quale più volte si era servito, e che egli, come è naturale, amava molto; e pensò di giacer seco prima che morisse. Allontanò gli astanti, non so per quale pretesto di cosa segreta che aveva a fare, e fece l'officio suo. La donna tosto, come se il marito le avesse infusa la vita, riprese i sensi, e dischiusi gli occhi, prese a parlare e con voce commossa a chiamare il marito. I1 quale avendo chiesto che cosa volesse, le dié a bere, e quando ebbe anche mangiato, risanò. E ne fu cagione la funzione matrimoniale; esempio questo che mostra come di molte malattie delle donne quella sia la miglior medicina .

CXII

DI UN UOMO ILLETTERATO CHE CHIESE ALL'ARCIVESCOVO
DI MILANO LA DIGNITA D'ARCIPRETE

Lamentavamo un giorno la triste condizione dei tempi, per non dire degli uomini che tengono le alte cariche della Chiesa, poiché messi da parte gli uomini dotti e prudenti, si innalzano gli ignoranti che non hanno valore alcuno. E disse allora Antonio Lusco: «Ciò non avviene tanto per colpa del Pontefice, quanto per quella dei principi, presso i quali vediamo essere in auge gli uomini sciocchi e ridicoli, e disprezzati invece quelli che eccellono per dottrina. Eravi», soggiunse, «alla corte di Cane il vecchio, signore di Verona, un uomo giovialissimo di nome Nobile, rozzo e ignorante, ma che in grazia delle sue facezie era venuto accetto a Cane, e per questo, poiché era chierico, in possesso di molti benefizi. Una volta che Cane all'antico Arcivescovo di Milano, che governava la città, mandò ambasciatori uomini di gran fama, Nobile si unì a loro. Dette le ragioni per le quali erano stati mandati, volevano gli ambasciatori ritornarsene, e l'Arcivescovo, cui Nobile, che era uomo di facili parole avea mosso il riso, disse a questi di chieder ciò che da lui volesse. E Nobile gli chiese una importante dignità di Arciprete. E l'Arcivescovo allora, ridendo della stoltezza dell'uomo: Voi vedete, gli disse, che tale carica non è proporzionata alle vostre forze, perché voi siete un uomo ignorante delle lettere, ed assolutamente incolto. E a lui, pronto e con grande franchezza, rispose Nobile: Io faccio secondo il costume del mio paese: a Verona agli uomini di lettere non si dà alcuna cosa e agli illetterati ed agli ignoranti si conferiscono i benefizi». Ridemmo tutti del faceto detto dell'uomo, che riputava che ciò che stoltamente si faceva a Verona dovesse farsi ugualmente dappertutto.

CXIII

D'UNA DONNA PUBBLICA CHE SI LAMENTAVA DI UN TORTO
FATTOLE DA UN BARBIERE

Evvi a Firenze magistrato che è preposto ai buoni costumi, detto Officiale di onestà; ed è cura sua di decidere le questioni delle donne pubbliche, e di curare che esse non abbiano molestie nella città. Venne una volta dinanzi ad esso una cortigiana a lamentarsi dell'ingiuria e del danno che le aveva fatto un barbiere, che chiamato nel bagno perché le radesse le parti inferiori, le fece col rasoio, là dentro un taglio tale, che per molti giorni non poté introdurvi alcun uomo, e per questo lo accusava di averle dato danno e chiedeva che la compensasse di ciò che non aveva potuto guadagnare.

Si chiede: come dovrà essere la sentenza?

CXIV

DI UN FRATE CHEL CONFESSAVA UNA VEDOVA

Uno di que' frati, che si dice che vivono nel l'osservanza, udiva una volta la confessione de' peccati di una bella vedova di Firenze. E la donna parlando gli si stringeva addosso, e gli moveva la faccia vicino perché parlava piano. Il frate, riscaldato da quel fiato giovanile, sentì che si destava ciò che in lui dormiva, e alzava il capo cagionandogli grave pena: e, tormentato dagli stimoli della carne, e torcendosi, disse alla donna di andarsene; e questa lo richiese della penitenza: «Penitenza!», esclamò il frate, «ma voi a me l'avete fatta fare!»

CXV

DI UN UOMO CHE SI FE' CREDER MORTO DALLA MOGLIE

A Montevarchi, che è un borgo vicino a noi, un ortolano che io conosco, che aveva la moglie giovane, una volta che ella era fuori a lavare i panni tornò a casa, e desiderando di sapere che cosa avrebbe detto o fatto sua moglie se ei fosse morto, si stese a terra supino fingendosi tale. La moglie tornò a casa carica della biancheria, e trovò il marito morto, come le parve, e stette in forse se dovesse subito piangere la morte del marito o piuttosto mangiare, poiché era ella rimasta digiuna fino a mezzogiorno. Ma cedette agli stimoli della fame, e, posto al fuoco un pezzo di lardo, prese a mangiarlo in fretta, dimenticandosi per la furia, di bere. E avendo, per cagion della carne salata, molta sete, prese un fiascoe discese presto le scale per prender vino dalla cantina. Venne frattanto una vicina a chiederle fuoco, e la donna, gettato il fiasco, risalì le scale, e come se l'uomo fosse morto allora, prese a piangere dirottamente e a dare in esclamazioni. Vennero a queste grida e a questi pianti tutti i vicini, sorpresi della morte improvvisa. Giaceva l'uomo per terra e teneva il fiato e aveva chiusi gli occhi, come se fosse morto davvero. E quando gli parve che il gioco fosse durato abbastanza, alla moglie che piangeva e che ripeteva: «O mio uomo! e che cosa farò io adesso?» disse, aprendo gli occhi: «Farai male, se non andrai subito a prendere il vino». Tutti passarono dalle lacrime al riso, quando specialmente udirono la storia e la cagion della sete.

CXVI

DI UNA BOLOGNESE INGENUA

Una giovane di Bologna, che da poco era andata a marito, si lamentava con una nobile donna che stava vicino a me, che suo marito la bastonasse fortemente e spesso. E avendole quella chiestane la cagione, rispose la giovane, che ciò era, perché, quando il marito si valeva del suo diritto, rimaneva essa immobile come un tronco: «Perché allora», le chiese, «non ubbidite nel letto al marito, e non vi lasciate fare con piacere?». Ed ella «Non so fare, signora, perché nessuno mi ha mai insegnato come si faccia; se lo sapessi lo farei, per non sentirmi bastonare». Meravigliosa ingenuità di quella fanciulla, che ignorava anche quelle cose che la natura insegna alle donne. Questa storia, per ridere, la raccontai anche a mia moglie.

CXVII

RISPOSTA DI UN CONFESSORE A BERNABO' VISCONTI A
PROPOSITO DI UNA DONNA

Bernabò, duca di Milano, fu uomo molto dato alle donne. Un giorno, che solo nel giardino se la godeva tranquillamente con una donna che egli amava, sopravvenne improvvisamente un frate, che era suo confessore, e che per la grande autorità e sapienza sua aveva ogni porta aperta al duca. Questi arrossì e si sdegnò insieme dell'inattesa venuta del confessore, e un po' commosso, per aver poi la risposta: «Che cosa fareste voi dunque», disse, «se vi trovaste nel letto una donna bella come è questa?». «Ciò che non dovrei fare», rispose, «lo so; ma ciò che io farei non so dire». Con questa risposta calmò lo sdegno del duca, confessando d'esser uomo e di poter come gli uomini fallare.

CXVIII

DI UN SERVO DISTRATTO CHE VENNE CARICATO DI
SOVERCHIO PESO

Roberto degli Albizi, uomo dotto e molto cortese, aveva un servo sciocco e distratto, senza alcun ingegno, che e' teneva in casa più per umanità che per averne vantaggio. Una volta lo mandò con certi ordini ad un amico suo' che aveva nome Dego, e abitava presso il ponte Santa Trinità; questi chiesegli che cosa lo mandasse a dirgli il padrone, e il servo, che aveva dimenticato le parole di esso, stava pensieroso come uno stupido e non sapeva che dire. Allora, visto che il servo si serbava silenzioso: «Io so», gli disse, «che cosa vuoi»; e mostratogli un gran mortaio di marmo: «Prendi questo», dissegli, «e portalo tosto al padrone, che è ciò ch'egli vuole». E Roberto lo vide di lontano portar sulle spalle il mortaio, e pensando che ciò fosse per punire il servo suo della grande balordaggine, quando gli fu vicino: «Hai fatto male, sciocco», gli disse, «ché non hai ben comprese le parole mie; porta indietro quello che è troppo grande, e recamene uno più piccolo». E sudando e stanco dal peso, tornò all'amico, confessando l'errore, e ne portò un altro ed un terzo; e in questo modo fu punito della sua sciocchezza.

CXIX

DI UNO CHE VOLEVA SPENDERE MILLE FIORINI PER ESSERE
CONOSCIUTO E RISPOSTA CHE GLI FU FATTA

Un giovane fiorentino, di poco cervello, disse ad un amico che e' voleva viaggiare il mondo e voleva spendere mille fiorini per essere conosciuto. E l'altro, che lo conosceva a fondo: «Farai meglio», gli disse, «a spenderne duemila per non essere conosciuto affatto».

CXX

FACEZIA DEL CELEBRE DANTE

Quando Dante, nostro poeta fiorentino, era esule in Siena, un dì, nella chiesa dei Minori, stava col gomito appoggiato su di un altare, rivolgendo i suoi pensieri nell'animo, e gli si accostò un tale a richiederlo di non so qual cosa noiosa. E Dante: «Dimmi dunque», gli chiese, «qual'è la più grossa di tutte le bestie?» «L'elefante», rispose l'altro. «Or bene», soggiunse Dante, «lasciami stare, o elefante, ché io penso a cose più importanti delle tue; e non voler esser noioso».

Torna all'inizio

home
Home


This page hosted by   Get your own Free Home Page