Poggio Bracciolini
I1 celebre Ugo da Siena, che è il primo medico del nostro
tempo, mi ha narrato che a Ferrara è nato un gatto con
due teste eche egli lo ha veduto.
Si sa che anche in quel di Padova, nel mese di giugno, nacque
un vitello con due teste, con un sol corpo e con le quattro gambe
raddoppiate, benché fossero congiunte. Questo mostro portavano
intorno per guadagnare, e molti affermano di averlo veduto.
Ed è anche certo che fu recata a Ferrara l'immagine di
un mostro di mare che fu trovato su la costa di Dalmazia. Aveva
il corpo d'uomo fin all'ombellico, poi era pesce, così
che finiva biforcandosi. Aveva la barba lunga, e come due corna
gli uscivano di sopra le orecchie, le mammelle grosse, la bocca
larga, le mani con sole quattro dita, e dalle mani alle ascelle
e al basso ventre si stendevano ali di pesce con le quali nuotava;
e in questo modo narravano di averlo preso: molte donne stavano
a lavare pannolini alla spiaggia; quel pesce, spinto dalla fame,
dicono che ad una di esse si avvicinasse e tentasse di afferrarla
per le mani; non eravi molt'acqua, ed ella lottando, con grandi
grida chiamò le altre in soccorso; accorsero cinque di
esse e giacché non potea più tornare il mostro nell'acqua,
con bastoni e con pietre 1'uccisero, e trattolo alla riva fe'
loro gran paura. Aveva il corpo un po' più lungo e più
grosso di un uomo, da quanto si vedeva nell'incisione in legno
che ci portarono a Ferrara. E che fosse per divorar la donna che
esso l'aveva afferrata, ne fece fede il fatto che alcuni fanciulli,
che in differenti tempi eran venuti per lavarsi alla spiaggia,
non tornarono più mai, e questi dopo il fatto si credette
che il mostro avesse presi ed uccisi.
Bonifazio, nono Papa di questo nome, fu napoletano e della famiglia
Tomacelli. Ora volgarmente diconsi «tomacelli» certi
fegatelli di porco tritati moltissimo e fasciati nel grasso di
quell'animale. Nell'anno secondo del suo pontificato, Bonifazio
si recò a Perugia; erano con lui i fratelli e molti altri
della famiglia, i quali, come avviene, per cupidigia di beni e
di guadagno si erano stretti dintorno a lui. All'entrata nella
città Bonifazio era seguito da una scorta di alti personaggi,
e fra questi erano i fratelli e gli altri membri della famiglia,
e i curiosi chiedeano i nomi di coloro che componevano il seguito;
e si sentiva d'ogni parte rispondere: «Questo è Andrea
Tomacello», poi: «Questo è Giovanni Tomacello»;
e così molto spesso la parola Tomacelli si andava ripetendo.
«Oh! oh!», disse un uomo allegro, «doveva esser
ben grosso quel fegato di porco dal quale son venuti tanti tomacelli
e così grandi!».
Eravi in Toscana un curato di campagna assai ricco, e mortogli
un cagnuolo che egli aveva molto caro, lo seppellì nel
cimitero. Venne ciò alle orecchie del Vescovo, che, desideroso
del denaro del curato, fece questo a sé chiamare come reo
di altissimo delitto; e il prete, che conosceva l'animo del Vescovo,
vi andò recando seco cinquanta ducati. I1 Vescovo, vistolo
innanzi a sé, lo rimproverò gravemente della sepoltura
data al cane e co mandò fosse tratto in prigione: «Padre
mio», disse il prete furbo, «se voi aveste conosciuta
quanta intelligenza aveva il cagnuolo, non sareste ora così
meravigliato che egli abbia avuta sepoltura con gli uomini; perché
egli tanto in vita quanto in morte ebbe assai più ingegno
di un uomo». «Che vuol dir ciò?», chiese
il Vescovo. «Egli», rispose il curato, «agli ultimi
della vita fece testamento, e conoscendo la povertà vostra,
vi lasciò cinquanta ducati che io ho qui meco». E
il Vescovo allora approvò e il testamento e la sepoltura,
prese il denaro, ed assolse il prete.
In un borgo del Picentino chiamato Cingoli, era un uomo molto
danaroso; e quando venne ciò a conoscenza del signore del
luogo, questi a fine di togliersi il danaro, cercò pretesto
di un delitto; e chiamatolo a sé, gli disse che e' lo riteneva
reo di lesa maestà; e poi che l'altro rispondeva di non
aver mai fatta alcuna cosa contro lo Stato e contro la dignità
del signore, questi insisteva nella accusa, concludendo che doveva
essere egli punito nel capo; il poveruomo gli chiese che cosa
avesse egli alla fine fatto. «Tu», gli rispose il signore,
«hai tenuto in casa nascosti i miei nemici e i ribelli che
cospirarono contro di me». E quello capì finalmente
che il signore voleva il suo denaro, e amando meglio di perder
questo che la vita: «Sì, monsignore», rispose,
«è vero ciò che voi dite; ma datemi con me
alcuno degli uomini vostri, che que' nemici e ribelli vi darò
tosto nelle mani». E mandati alcuni fanti alla casa, l'uomo
li condusse alla cassa in cui era il danaro, e apertala: «Prendete
subito questi denari», disse, «che non solo del signore
nostro, ma pur di me sono nemici acerrimi e ribelli». E quando
il signore li ebbe avuti, l'uomo sfuggì a ogni pena.
In un borgo delle nostre campagne, molti erano e da molte parti
convenuti alla festa, ed era quella di Santo Stefano. Un frate
doveva, com'e di costumanza, fare il sermone al pubblico; l'ora
era tarda, i preti avean fame, e quando il frate salì su1
pergamo, un prete, quindi un altro, lo pregarono all'orecchio,
di parlare assai brevemente. Ed egli si lasciò facilmente
persuadere. Dopo il breve esordio d'uso: «Fratelli miei»,
disse, «l'anno passato da questo stesso luogo, allo stesso
uditorio, parlai della santità della vita e dei miracoli
di questo Santo nostro, e nulla omisi di quelle cose che io udii
narrare di lui, o che si trovano scritte ne' sacri libri; e credo
che voi ne conserverete memoria. Ma dopo, poiché non ho
udito dire che egli abbia fatto nulla di nuovo, fatto il segno
della croce, recitate il Confiteor e le preci che seguono».
E, ciò detto, discese.
Un villano, che era salito sopra un castagno per raccogliervi
i frutti, cadde e si ruppe una costola; e venne a consolarlo un
certo Minaccio, che era uomo molto allegro, e fra le cose che
gli disse, gli die' ancora un consiglio per non cadere mai più
dagli alberi: «Avrei voluto saperlo prima», disse il
malato, «ma tuttavia questo potrà altra volta giovarmi».
«Ebbene», disse Minaccio, «fa in modo di non discendere
giammai con maggior fretta di quella con la quale tu sei salito;
ma discendi con l'eguale lentezza con cui sei salito; a questo
patto tu non potrai mai cadere».
Lo stesso Minaccio, che era assai povero, avendo un giorno al
giuoco dei dadi perduto qualche moneta e la veste, si era seduto
piangendo alla porta di non so qual taverna. E un amico che lo
vide in lacrime: «Che cosa hai, tu che piangi? «gli
chiese. E Minaccio: «Niente», rispose. «Per ché
dunque piangi, se non hai niente? «Per questo soltanto, che
non ho niente». E l'altro meravigliato: «Ma perché,
se non hai niente, piangi?» «Appunto per questa ragione»,
rispose, «che io niente posseggo». Quello credeva che
egli piangesse per una causa da niente; questo piangeva perché
niente gli era rimasto dal giuoco.
A1 tempo della grande carestia a Firenze, un povero guercio andò
in piazza, a comprare, diceva, qualche sestario di frumento; e
quando si fu informato del prezzo, sopraggiunse un altro, che
gli chiese a quanto si vendesse al sestario il frumento: «Un
occhio», rispose, volendo con ciò significare il caro
prezzo dei viveri. Questo udì un monello presente, che
saltò su a dire: «Perché dunque hai preso teco
un sacco così grande, quando tu non puoi comperarne che
un sestario solo ?».
Un uomo consolava sua moglie al letto di morte, e le ricordava
che egli si era sempre mostrato buon marito e le chiedeva perdono
se mai qualche cosa le avesse fatto di male; e disse ancora che,
fra gli altri uffici maritali, egli non aveva giammai trascurato
quello del letto, fuori che in quel tempo in cui era malata, perché
quel lavoro non l'affaticasse. Allora la donna, benché
malata, prese a dirgli: «Oh, davvero che di ciò non
potrò io mai perdonarti; perché in nessun tempo
fui io tanto malata, da non poter comodamente giacere». Che
gli uomini adunque faccian l'opera loro, per non dover mai chiedere
alla moglie perdono come questo, che esse a buon diritto potrebbero
negare.
Un giovane nobile e bello condusse in moglie la figlia di Nereo
de' Pazzi cavaliere fiorentino, che fu, tra gli altri del suo
tempo, uomo eminente ed egregio. Dopo alcuni giorni, tornò
ella, com'è costume, alla casa paterna, ma non vivace e
lieta, come sogliono essere le altre, ma mesta e pallida e con
gli occhi bassi. E la madre la chiamò in una camera e in
segreto le chiese se ogni cosa fosse andata bene, e la fanciulla
lacrimando rispose: «Come vuoi, ma tu non m'hai sposata ad
un uomo, sì ad uno che non è uomo; che cioè
ha nulla o poco assai di quell'arnese pel quale si va a marito».
La madre, afflitta assai della sventura della figlia, raccontò
tutto al marito, e la cosa, come avviene, in poco tempo si divulgò
fra' congiunti e le donne che erano state invitate al banchetto,
e si riempì a tale nuova la casa di lacrime e di lagni,
perché si diceva quella bella fanciulla non era stata maritata,
ma sacrificata. Finalmente giunse il marito in onor del quale
si imbandiva il convito, e quando vide tutti col volto lacrimoso
ed afflitto, meravigliato della strana cosa, chiese che novità
avvenuta mai fosse. Nessuno osava confessare la causa di quel
dolore, finché finalmente uno più franco disse che
la fanciulla aveva riferito che egli era poco provvisto dei beni
maritali. «Non può essere questa», egli disse,
«la ragione della vostra afflizione e per la quale non si
vada al banchetto; però questa accusa mi verrà presto
tolta». Erano già a tavola tanto gli uomini quanto
le donne, e aveano già mangiato quando il giovane si alzò:
«Miei cari parenti», disse, «sento accusarmi di
una cosa della quale io vi chiamo giudici», e in questa mise
fuori un ordegno di bellissima forma (poiché allora si
usavano vestimenta corte) e lo pose sulla tavola e chiese agli
astanti, che s'eran commossi per la novità e per la grandezza
della cosa, se potevasi di esso lamentare o rifiutarlo. La maggior
parte delle donne desideravano che i loro mariti avessero altrettanta
abbondanza. Molti uomini si sentivano da quel tale arnese superati,
tutti rivolti verso la giovinetta la rimproveravano della sua
sciocchezza. «Perché tanto biasimarmi», diss'ella,
«perché tanto riprendermi? Il nostro asino, che l'altro
dì vidi alla campagna, non è che una bestia e ne
ha tanto (e in questa distese il braccio), e questo mio marito
che è un uomo non ne ha la metà». Credeva l'ingenua
fanciulla che gli uomini ne dovessero aver di più delle
bestie.
Al popolo di Tivoli predicava un frate assai poco circospetto,
e con molte parole si scagliava contro l'adulterio, e questo abbominava,
e disse, fra le altre cose, che era peccato talmente grave, che
egli avrebbe preferito d'aver piuttosto dieci vergini di quello
che una sola donna maritata. Molti che erano presenti erano dello
stesso parere.
Un altro predicatore che aveva nome Paolo e che io ho conosciuto,
mentre faceva a Secia, città della Campania, un discorso
contro la lussuria, disse che alcuni erano tanto lascivi e scostumati,
che per aver maggiore il piacere nel coito mettevano un cuscino
sotto alla moglie. Alcuni, che ignoravano la cosa, se ne invaghirono,
e a casa ne fecero tosto l'esperimento.
Una giovane, che poi mi raccontò questa storia, andò
una volta a confessare i suoi peccati, come si usa in quaresima.
E fra le altre cose disse che non serbava fedeltà al marito.
Allora il confessore, che era un frate acceso di desiderio, levò
dalla tonaca un superbo cordone, eretto, e lo diede in mano alla
giovane, supplicandola ad avergli misericordia. Ella se ne andò,
coperta di rossore, e alla madre che era lì presso e che
gliene chiese la ragione, narrò della preghiera che le
aveva fatta il confessore.
Una donna, alla quale il marito spesso chiedeva, per qual ragione,
se uguale nell'uomo e nella donna era il piacere del coito, fossero
piuttosto gli uomini che seguivano e sollecitavano le donne, di
quello che queste gli uomini, rispose: «Questo è stabilito
con molto senno, che noi non siamo che cerchiamo gli uomini. È
provato che noi donne siamo sempre pronte alla faccenda, voi uomini
no. E noi pertanto chiederemmo invano agli uomini quando questi
non fossero all'ordine». Acuta e graziosa risposta.
Nella guerra ultima, che i Fiorentini fecero all'ultimo Duca di
Milano, era decretato che se alcuno avesse parlato di far la pace
fosse punito di morte. Bernardo Manetti che era uomo di ingegno
vivacissimo, trovavasi un giorno al Mercato vecchio per comprare
non so che cosa, quando gli si fe' innanzi uno di quei frati che
vanno per le vie alla questua e che stanno ne' trivii alcun che
in elemosina chiedendo pe' loro bisogni. E innanzi di chiedergli
l'elemosina, gli disse: «Pax tibi»; e allora
Bernardo: «A che parlasti di pace? Non sai tu che va della
testa a parlare di pace? Me ne vado», soggiunse, «perché
non mi prendano per complice tuo». E così se ne andò,
sfuggendo le molestie di quell'importuno.
Eravamo fra amici e si parlava delle pene da infliggersi alle
mogli infedeli. Bonifazio Salutati disse che la migliore di tutte
era, secondo lui, quella della quale un bolognese amico suo minacciava
sua moglie. E poi che noi gli chiedemmo quale essa fosse: «Fuvvi»,
diss'egli, «un bolognese, uomo molto stimabile, il quale
si ebbe una moglie piuttosto generosa, e che qualche volta fu
anche meco cortese. Una notte andavo io alla sua casa, quando
fuori udii i due sposi che avevano appiccata acerba lite; il marito
rimproverava alla moglie la sua impudicizia; questa, come è
costume delle sue pari, si difendeva negando; e allora il marito
prese a gridare: «Giovanna, Giovanna, io non ti percoterò,
non ti bastonerò, ma ti sarò tanto addosso, che
empirò la casa di figli, poi ti lascerò sola con
questi e me ne andrò». Ridemmo tutti di questa specie
così perfetta di supplizio, col quale quello sciocco credeva
di vendicarsi della infedeltà della moglie.
Gregorio decimo secondo, prima di esser Papa e durante il conclave,
e anche dopo, aveva fatto promessa di far molte cose per lo scisma
che in quel tempo travagliava la chiesa, e per qualche tempo mantenne
ciò che aveva promesso, fino a dire che piuttosto che mancarvi
sarebbe egli disceso dal Pontificato. Poi si lasciò prendere
dalla dolcezza del potere, mancò a' giuramenti e alle promesse,
e nulla di quanto aveva detto mantenne. Il cardinale di Bordeaux,
che era uomo di grave e grande esperienza, sopportava male questa
cosa e un giorno me ne parlava: «Costui», disse, «ha
fatto con noi come quel saltimbanco coi bolognesi, il quale avea
promesso che avrebbe volato». Ed io lo pregai di raccontarmi
la storia. «Poco tempo fa», egli disse, «fuvvi
a Bologna un saltimbanco, che con un pubblico avviso annunziò
che avrebbe volato da una torre che è verso il Ponte di
S. Raffaele a circa un miglio dalla città. Nel dì
stabilito il popolo tutto si raccolse in quel luogo, e il saltimbanco
si burlò di tutti, lasciandoli al sole e alla fame fin
quasi alla sera. Tutti eran sospesi e fissavan la torre, aspettando
che l'uomo volasse. E quando egli si mostrava sulla torre ed agitava
le ali come se stesse per volare, e pareva slanciarsi fuori, sorgeva
un grande applauso nella folla che stava a bocca aperta a guardarlo.
E il saltimbanco, dopo il tramonto del sole, tanto per far qualche
cosa, voltò al popolo le spalle e gli mostrò il
deretano. Così tutti quegli illusi, oppressi dalla fame
e dalla noia, se ne tornarono di notte alla città: «nello
stesso modo» concluse, «il Papa, dopo tante promesse,
ci contenta ora mostrandoci le rotondità posteriori».
Si narra di una saggia risposta data da Ridolfo di Camerino. Era
Bologna assediata da Bernabò della famiglia dei Visconti,
signori di Milano; e Ridolfo, che era un uomo di senno nelle cose
di guerra e in quelle della pace, era stato chiamato dal Papa
a custodia della città, e si teneva egli dentro le mura
a difenderla. Un giorno, in una piccola zuffa, che in una scorreria
impegnarono alcuni, al di fuori, e nella quale non era Ridolfo,
fu un cavaliere de' Bolognesi fatto prigione, e condotto al campo
di Bernabò; e questi, tra le altre cose di cui lo richiese,
gli domandò ancora del perché Ridolfo non uscisse
a battaglia fuor dalle mura; e il cavaliere, dopo aver detto varie
ragioni, fu rimesso in libertà e tornò a' suoi.
Allora Ridolfo gli chiese che cosa si facesse nel campo de' nemici,
e che gli avesse detto Bernabò, e quale era stata la risposta
del cavaliere per scusare in vario modo che egli non fosse uscito
dalla città: «E tu», disse allora, «hai
molto male risposto: torna tosto da Bernabò e digli che
Ridolfo non esce dalla città per impedire a lui d'entrarvi».
Lo stesso Ridolfo, nella guerra che i Fiorentini fecero con Gregorio
decimo, stavasi or dall'una or dall'altra parte. E interrogato
del perché mutasse così spesso bandiera: «Perché»,
rispose, «non posso a lungo giacere su lo stesso fianco».
Dopo questo i Fiorentini lo tennero reo di tradimento e la sua
effige, come quella del traditore fu posta ne' luoghi pubblici.
Dopo qualche tempo egli, udito che i Fiorentini mandavangli messaggi
di pace, il giorno in cui questi giunsero, si mise a letto, fe'
chiudere le imposte e ordinò che lo coprissero di pellicce
e per quanto corresse il mese d'agosto fece accendere il fuoco;
e fece poi chiamar gli ambasciatori, i quali gli chiesero che
male avesse: «Ho freddo», rispose, «perché
sono stato per tanto tempo e anche di notte esposto all'aria sui
vostri muri». Con questo egli alludeva alla pittura che i
Fiorentini avevano esposta e che poi come condizione della pace
venne tolta.
Alcuni cittadini di Camerino passavano un giorno il loro tempo
esercitandosi fuor dalle mura al tiro dell'arco; e un tale mal
destro lanciò la freccia e ferì lievemente Ridolfo,
che assisteva di lontano. Costui fu preso, e, fra i vari pareri
che si enunciavano su la pena da infliggergli, poiché in
questa guisa ciascuno credeva di procurarsi la grazia del Principe,
uno propose che gli si tagliasse la mano perché non tirasse
più d'arco. Ridolfo comandò che lasciassero l'uomo,
dicendo che quella sentenza sarebbe stata efficace se fosse stata
eseguita prima ch'egli fosse ferito. Risposta piena d'umanità
e di prudenza.
Mancini, che era un villano del mio borgo, recava carichi di frumento
a Figline a some d'asini, che a questo fine egli spesso noleggiava.
Una volta, tornando dal mercato, stanco del viaggio, montò
su uno dei migliori asini e quando fu presso casa contò
gli asini ch'erano innanzi a lui, e non tenendo conto di quello
sul quale egli era, gli parve che ne mancasse uno. Angustiato
per questo lasciò tutti gli asini alla moglie, dicendole
di restituirli a' padroni. E sempre sull'asino tornò al
mercato, che distava di là sette miglia, chiedendo ai passanti
se per caso avessero trovato un asino smarrito. E poiché
tutti negavano, tornò a casa la notte gemendo e lacrimando
per averne uno perduto. Ma quando finalmente la moglie gli disse
di scendere, s'accorse dell'asino che egli aveva con tanta fatica
e così grave dolore cercato.
Un altro villano, che aveva nome Pietro, uomo molto rozzo, dopo
aver arato fino a mezzogiorno, stancati i buoi, stanco egli stesso
per la fatica, ritornava al borgo; legò l'aratro sull'asino,
mandò innanzi i bovi ed egli stesso montò sull'asino.
Ma questo, carico di troppo peso, stava per cadervi sotto. Allora
il villano discese, prese su le spalle l'aratro, poi rimontò
sull'asino, dicendo: «Ora potrai camminare, perché
non tu, ma io porto l'aratro».
Dante Alighieri, nostro poeta fiorentino, fu per qualche tempo
ospitato a Verona da Can della Scala, principe molto liberale.
Alla sua Corte teneva questi un altro Cane, fiorentino, ignobile
uomo, e imprudente e ignorante, non ad altro buono che alla burla
ed al riso, e alle sciocchezze del quale (non poteansi chiamare
invero facezie) Cane si dilettava tanto, che lo arricchiva di
doni. Dante, che era uomo dottissimo, sapiente tanto quanto modesto,
disprezzava naturalmente costui come un animale sciocco. Un giorno
quel fiorentino venne fuori a dirgli: «Com'è che tu
sei tanto miserabile e mendico, tu che sei creduto saggio e dotto,
mentre che io sciocco ed ignorante son ricco?» E Dante a
lui: «Quando io troverò un signore che mi rassomigli
ed abbia il mio costume, come tu ne l'hai trovato, questo mi farà
ricco». Grave e sapiente risposta! Ché sempre i signori
si dilettano di coloro che li rassomigliano.
Lo stesso Dante pranzava un giorno fra Cane della Scala il vecchio
e il giovane, e i servi d'entrambi, per burlarsi di lui, gli gittarono
tutte le ossa di nascosto dinanzi a' piedi; tolta la mensa, tutti
si volsero verso di lui meravigliati che solo dinanzi a lui si
vedessero le ossa. E Dante, che era pronto alla risposta: «Non
v'è da far meraviglia», disse, «se i Cani mangiarono
le ossa; io non sono un Cane».
Si parlava un giorno della ostinazione delle donne, che è
grande da far loro preferire la morte piuttosto che cedere: «Una
donna dei nostri luoghi», disse uno, «che era sempre
contro al marito, e respingeva rimproverandolo ogni sua parola,
ostinandosi in ciò che aveva preso a dire, per essergli
sempre al di sopra, ebbe un giorno con lui un grave alterco e
lo chiamò pidocchioso: ed egli, perché ritrattasse
la parola, la prese a legnate, a calci ed a pugni. E più
glie ne dava, più essa chiamavalo pidocchioso. Stancatosi
finalmente l'uomo di bastonarla, per vincerne l'ostinazione la
calò per una fune nel pozzo, minacciandola d'annegarla
se non avesse cessato di dire quelle parole; la femmina continuava,
e anche coll'acqua alla gola, quella parola ripeteva. E l'uomo
allora, perché ella non parlasse più, la lasciò
andar giù nel pozzo, tentando se il pericolo della morte
l'avesse guarita dall'ostinazione. Ma essa che non potea più
parlare, anche quando stava per soffocare, non potendo più
con la voce si esprimeva con le dita; e alzate le mani al di sopra
de1 capo, e congiungendo le unghie dei pollici, finché
poté, col gesto schiacciò i pidocchi all'uomo;
perché le donne sogliono con le unghie di quelle dita schiacciare
quegli animali».
Un altr'uomo, cui era morta la moglie nel fiume, andava contr'acqua
a ricercarne il cadavere. Uno che lo vide rimase di ciò
meravigliato e lo consigliò di andar secondo la corrente:
«In questo modo», rispose l'uomo, « non potrebbe
trovarsi; perché quando visse fu tanto contraddicente,
e difficile, e contraria alle abitudini degli altri, che anche
dopo morte essa andrà contro la corrente del fiume».
Un servo del duca d'Orléans, uomo rozzo ed incolto, chiedeva
al suo padrone che lo facesse nobile. In Francia ciò si
può fare comperando dei possessi, e sulle loro terre conducono
la vita dei nobili. E il Duca, che conosceva di che natura fosse
l'uomo, gli disse: «Io ti potrò facilmente arricchire:
ma farti nobile mai».
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