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Poggio Bracciolini
LE FACEZIE
INDICE DEI TITOLI
Vita di Poggio Bracciolini
PREFAZIONE ALLE FACEZIE di
POGGIO BRACCIOLINI Che per la povertà dello stile
gli invidiosi non devono condannare la raccolta delle facezie Io penso che saranno molti che daranno biasimo
a questi discorsi, sia come cose di niun conto ed indegne de la
gravità dell'uomo, sia perché essi vi cercassero maggiore
eleganza nel dire e piú animato lo stile. Ma se io loro risponda
di aver letto che i nostri maggiori, uomini di grandissima
prudenza e dottrina, di giuochi, di facezie e di favole si
dilettarono e non si ebbero biasimo ma lode, credo che abbastanza
avrò fatto per ricuperare la loro stima. Imperocché chi vorrà
credere che io abbia fatta cosa turpe imitandoli in questo, non
ponendolo nelle altre cose, e dando a le cure de lo scrivere quel
tempo che gli altri perdono ne le società e ne la conversazione,
quando principalmente non sia questo lavoro indecoroso e qualche
piacere possa dare al lettore? Ed è cosa onorevole ec necessaria
anzi, ed ebbero per essa lode i filosofi, sollevare l'animo
nostro oppresso da molestie e da pensieri e trarlo alla gioia ed
alla allegria con qualche lieta ricreazione. Però ricercare
l'alto stile ne le piccole cose, o in queste che si hanno a
esprimere con la parole propria e faceta,o per riferire ciò che
altri disse, sembra cosa di troppa noia. Poiché vi son certe
cose che non amano maggiore ornamento e vogliono invece esser
dettate quali vennero da chi parlando le disse Ed alcuni forse penseranno che questa scusa che
chieggo venga da mancanze di ingegno: ed io stesso lo reputo. Ora
coloro che sono di questo avviso ripiglino queste favole,
le presentino e le rivestano a loro grado, ed io li esorto a
farlo, ché la lingua latina in questa nostra età è fatta ricca
anche ne le cose leggiere; e l'esercizio di scrivere quelle cose
gioverà sempre a la grande arte del dettare. Io stesso volli
fare la prova, se molte cose che si riputava non potessero essere
scritte in latino, potessero tuttavolta scriversi senza cader nel
vile; e non cercai in questo né l'eleganza, né l'ampiezza del
dire, ma mi contentai e mi contento che le mie istorie non
sembrino malamente narrate. Del resto, risparmino la lettura di queste
conversazioni (è così che le voglio chiamare) tutti coloro che
sono troppo rigidi censori e critici troppo acerbi, e come una
volta fece Lucilio coi Cosentini e i Tarentini io amo che i miei
lettori siano d'animo lieto e sereno. Che se essi invece saran
troppo incolti, non ricuso lor di pensar come vogliono, purché
non se la prendano con l'autore, che solo per esercitar l'ingegno
e sollevar lo spirito scrisse. NOTA: La traduzione in lingua italiana che
segue è quella di autore ignoto, pubblicata dall'editore
Sommaruga di Roma nel 1884; essa è stata preceduta da numerose
traduzioni cinquecentesche in volgare; nel 1923 l'Editore
Formiggini, ne "I Classici del ridere", ripubblicava le
Facezie nella traduzione di Cazzamini Mussi. I
DI UN POVERO
NOCCHIERO DA GAETA II
Eravamo in molti a discorrere di quella vanità, per non
chiamarla stoltezza, che certuni hanno di mantenere cani e falchi
per la caccia. Allora saltò su Paolo fiorentino a dire:
«Aveva proprio ragione di ridere di loro quel matto di Milano».
E poiché noi lo pregammo di raccontarci la storia: «Fuvvi,
una volta», egli disse, «un cittadino milanese che faceva
il dottore a' dementi ed a' pazzi e che prendeva a guarire in
un certo tempo coloro che erano affidati alla sua cura. Ed ecco
in qual modo egli la faceva: aveva in sua casa una corte dove
era uno stagno di acqua sporca e fetente, nel quale, legati ad
un palo, egli immergeva i matti che gli conducevano; e alcuni
fino a' ginocchi, alcuni altri fino alle anche, qualcun altro
anche più profondamente, secondo la gravezza del male,
e li teneva a macerare nell'acqua e nell'inedia fino a che paressergli
risanati. Gli fu tra gli altri una volta condotto un tale, che
egli mise in quel bagno fino alle cosce, e che dopo quindici giorni
ritornò alla ragione e pregava il medico di toglierlo da
quel pantano; e questi lo tolse dal supplizio a patto però
che non uscisse dalla corte; e quando ebbe per qualche giorno
obbedito, lo lasciò passeggiare per tutta la casa, a condizione
che non uscisse dalla porta sulla via: intanto i colleghi del
matto erano sempre nell'acqua, e il matto osservò diligentemente
gli ordini del medico.
Una volta che egli stava sulla porta, né per timore della
fossa osava di passarla, vide venire un giovine cavaliere col
falco sul pugno, e due di que' cani che servono per la caccia;
e poiché non aveva memoria delle cose avvenute o viste
prima della follia, gli parve cosa nuova, e lo chiamò a
sé; e il giovine venne: «Ohé tu», gli
disse, «ascoltami un poco e rispondimi se ti piace: Che è
la cosa su cui stai, e per che uso ti serve? «È un
cavallo», rispose, «e l'ho per la caccia». «E
l'altra cosa che hai sul pugno come si chiama essa e a che è
buona? «È un falco educato alla caccia delle arzavole
e delle pernici». E il matto: «E quelli che ti accompagnano
chi sono e a che ti giovano? «Sono cani», disse, «ammaestrati
a snidare la selvaggina». «Sta bene, ma codesta selvaggina
per la quale hai pronte tante cose, che prezzo ha quando tu ne
abbia cacciato per un anno intero? «Poco ne so»,
rispose, «ma non credo più di sei ducati». «E
quanto spendi tu nei cani, nel falco e nel cavallo?» «Cinquanta
ducati». Allora meravigliato della pazzia del giovane cavaliere:
«Oh, oh!» disse, «va' lontano di qui tosto prima
che il medico torni a casa; perché se ti trova qui, come
se fossi tu il più stolto fra i viventi, ti getterà
nella fossa per curarti cogli altri matti, e come non fa cogli
altri ti metterà nell'acqua sino alla gola». Mostrò
così che la passione per la caccia è stoltezza se
non è de' ricchi e per esercizio del corpo.
III
DI BONACCIO DE' GUASCI CHE S'ALZAVA TARDI DAL LETTO
Bonaccio de' Guasci, giovane di animo lieto, mentre eravamo a
Costanza, sempre tardi sorgeva dal letto. E quando gli amici suoi
gli rimproveravano questa pigrizia e gli chiedevano che mai nel
letto facesse, egli sorridendo rispondea: «Ascolto la contesa
di due litiganti; al mattino quando mi sveglio son presso a me
due figure di donna, la sollecitudine e la pigrizia: quella m'esorta
ad alzarmi, a muovermi, a non passare il mio giorno nel letto;
questa la riprende e mi consiglia a non muovermi, poiché
fuori è freddo ed è migliore il calore del letto,
e il corpo abbisogna di riposo, né si può lavorare
sempre. La prima ripete le sue ragioni; e così, poiché
è lungo l'alterco fra loro e la disputa, io, giudice equo,
non piego né dall'una parte né dall'altra, ascolto
i contendenti, aspetto che si pongan d'accordo. Ed è così
che m'alzo tardi, aspettando che sia composta la lite».
IV
DI UN GIUDEO CHE SI ERA PERSUASO DI FARSI CRISTIANO
Molti erano che esortavano un giudeo a farsi cristiano, ma egli
non potea risolversi di staccarsi da' suoi beni; e lo assicuravano
che se e' li avesse dati a' poveri, secondo la sentenza del Vangelo,
che è verissima, avrebbe in cambio ricevuto il centuplo.
Persuaso egli finalmente, si convertì alla fede e spartì
i beni suoi fra poveri, malati e mendichi. Poi per circa un mese
fu con molto onore ospitato e ricevuto da diversi cristiani e
tutti lo accarezzavano e lo plaudivano per quel che aveva fatto.
Egli intanto che viveva alla giornata, aspettava di giorno in
giorno il centuplo che gli avevan promesso, e poiché molti
s'eran già stanchi di dar gli da mangiare e gli ospiti
si facean sempre più radi, così egli cadde in malattia
e venne per questa in fin di vita, per un grande flusso di sangue.
Disperava egli ormai della vita, ed ancora della promessa del
centuplo, quando un giorno, per desiderio di prender fiato, uscì
dal letto e venne per sgombrarsi il ventre sul prato di un vicino;
ed ivi vuotatosi, cercava d'intorno delle erbe per detergersi,
quando trovò un involto di cenci che molte pietre preziose
conteneva. Così si fe' ricco, chiamò i medici, guarì,
comprò case e poderi e visse di poi in grande opulenza.
E quando tutti gli ripetevano: «Vedi tu, se ti predicevamo
la verità, che Dio t'avrebbe restituiti tutti i tuoi beni
centuplicati?» «Sta bene», diceva, «egli mi
rese il centuplo; ma volle prima ch'io mandassi fuori per disotto
sangue fino a morire». Ciò va detto di coloro che
son tardi a compiere o a rendere un beneficio.
V
D'UNO SCIOCCO CHE CREDEVA CHE SUA MOGLIE AVESSE DUE COSE
Uno de' nostri paesani, assai poco furbo, e inesperto nelle faccende
d'amore, prese moglie. Ora avvenne che una notte nel letto ella
volse la schiena e'1 resto al marito, il quale tuttavia colpì
nel segno; onde meravigliato oltre misura si fe' a chiedere alla
donna s'ella mai avesse due di quelle cose; ed avendo ella risposto
che due n'aveva: «Oh, oh», disse l'uomo, «a me
una sola basta; l'altra è di troppo». Allora la donna
furba, che era amata dal piovano suo: «Possiamo», gli
disse, «fare con l'altra elemosina; diamola adunque alla
chiesa ed al nostro piovano che ne avrà gran piacere, e
a te non verrà in danno, poiché una ti basta».
E l'uomo acconsentì e per amor del piovano e per trarsi
di dosso quel peso. E così, chiamatolo a cena, e narratogli
il caso, dopo in tre sul letto si coricarono, la donna nel mezzo
e dinanzi il marito e per di dietro il piovano, affinché
si giovasse del dono. I1 prete, affamato ed avido di quella pietanza
tanto desiderata, attaccò pel primo la sua parte di combattimento,
e poiché la donna se la godeva e lasciava sfuggir qualche
rumore, il marito, temendo che il prete non passasse nel campo
suo: «Bada», gli disse, «o amico, di stare a' patti
e servirti della tua parte e lascia stare la mia». Che Iddio
mi aiuti», rispose il prete, «ché la tua non
tengo io in gran conto, purché mi possa godere i beni della
chiesa». Con queste parole si quietò l'uomo sciocco
e invitò il piovano a godersi liberamente della parte ch'egli
aveva concesso alla chiesa.
VI
DI UNA VEDOVA ACCESA DI VOGLIA CON UN MENDICANTE
Sono gli ipocriti la gente peggiore del mondo; e un giorno ci
parlava di questa genìa in luogo dove io ero presente,
e diceasi che essi hanno ogni cosa in grande abbondanza, e che
avidi come sono di dignità e di ricchezze, pure simulando
e dissimulando pare che gli onori a malincuore ricevano e solo
per ubbidienza a' superiori. E uno degli astanti disse: «Rassomiglian
essi ad un certo Paolo, uomo santo, che abitava a Pisa; uno di
coloro che si chiamano Apostoli e che sogliono sedere alle porte
senza nulla domandare»; e a noi che gli chiedevamo chi fosse:
«Questo Paolo», disse, «che per la santità
della vita era detto il Beato, soleva assidersi alla porta di
una vedova, che gli dava in elemosina il cibo. Essa, vedendo spesso
costui che era assai bello, se ne invaghì, e un giorno,
dopo averlo cibato, gli disse di venir il dì appresso,
che gli avrebbe preparato un buon pranzo; e giacché egli
venne spesso, così un giorno ella lo invitò ad entrare
a mangiare dentro la casa, e avendo egli aderito, e quando ebbe
il ventre pieno di cibo e di vino' la donna, matta di voglia,
lo prese ad abbracciare e a baciare, giurando di non lasciarlo
partire, prima di aver tutto fatto; ed egli finse di non voler
sapere del giuoco, anzi di detestare l'acceso desiderio della
donna, e alla fine, poiché ella più oscenamente
insistette, come se cedesse solo all'importunità della
vedova: «Dappoiché», disse, «tu vuoi far
tanto male, chiamo Dio testimonio, che tutta tua è la colpa,
e che io non ne ho. Tu stessa prenditi questa carne maledetta,
e sèrviti come meglio ti piace, ché io non voglio
neanche toccarla». E così egli fe' il piacer della
donna, e poiché per astinenza non aveva voluto toccare
se stesso, lasciò a lei tutto il peccato».
VII
DI UN PRELATO A CAVALLO
Andavo io un giorno al palazzo del Papa, e vidi passare a cavallo
uno de' nostri prelati, forse assorto ne' suoi pensieri, perché
non si accorse di uno che lo salutava scoprendosi il capo; e questi
credendo che ciò provenisse o da superbia o da arroganza:
«Ecco là», disse, «uno che non ha lasciato
a casa la metà del suo asino, ma che lo porta tutto con
sé». Volendo dire che è da asino non rispondere
agli atti di riverenza.
VIII
DETTO DI ZUCCARO
Una volta io e Zuccaro - che fu il più ameno degli uomini
- passammo per una città, e giungemmo a un luogo dove si
celebravano sponsali. Era la domani del giorno che la sposa era
entrata nella casa, e noi ci fermammo qualche poco di tempo per
assistere alla danza degli uomini e delle donne. Allora Zuccaro
disse ridendo: «Costoro hanno consumato il matrimonio, io
il patrimonio consumai da lungo tempo». E disse cosa amena
di se stesso, ché aveva già venduti i beni di suo
padre e tutto il patrimonio suo per dissiparlo alla tavola del
gioco.
IX
DI UN PODESTA'
Un Podestà che era stato mandato a Firenze, il dì
che entrò nella città, fece com'è d'uso,
nella cattedrale, alla presenza de' priori della città,
un lungo e noioso discorso; poiché a sua lode prese egli
a narrare come già fosse senatore a Roma, e ciò
che egli aveva fatto e ciò che gli altri fatto e detto
avean di lui; poi descrisse l'uscita sua dalla città e
il seguito che l'accompagnava poi, che il dì dopo si recò
a Sutri, e disse punto per punto ciò che egli aveva compiuto.
E appresso mostrò dove era stato giorno per giorno, e parlò
delle persone e de' luoghi dov'era stato ricevuto, e ciò
che fatto vi aveva. Erano già di molte ore in questo racconto
trascorse, ed egli non ancora a Siena era giunto. Questa eccessiva
lunghezza di un discorso noioso aveva stancato tutti gli uditori,
che avean ragione di temere che tutto il giorno sarebbe passato
in questo modo; e poiché già si avvicinava la notte,
un uomo faceto, che era fra gli astanti, venne alle orecchie del
Podestà e gli disse: «Monsignore, omai è tardi,
e conviene abbreviare il viaggio; perché se voi oggi non
entrate in Firenze, giacché oggi stesso vi è prescritto
di entrarvi, avrete mancato all'ufficio vostro». Udito ciò,
quest'uomo sciocco e ciarlone si affrettò a dire ch'era
venuto a Firenze.
X
DI UNA DONNA CHE INGANNO' SUO MARITO
Pietro, mio compatriotta, narrommi un giorno una assai piacevole
istoria di un'astuzia che una donna ebbe. Egli aveva relazione
con la donna di un villano poco furbo, il quale per fuggire da'
creditori passava molto spesso la notte ne' campi. Una sera che
l'amico mio era colla donna, il marito, verso il tramonto, improvvisamente
tornò a casa. La donna allora, nascosto prontamente 1'amico
sotto il letto, si fe' a rimproverare acerba mente il marito,
perché era tornato, dicendo che in quel modo egli volea
farsi mettere in prigione: «Poco fa», disse , «i
fanti del Podestà sono venuti per prenderti e condurti
in prigione e hanno tutta la casa perquisita; io ho detto loro
che tu di solito passi fuori di casa la notte, ed essi se n'andarono,
minacciando però di ritornare ben tosto». I1 pover'uomo,
atterrito, cercava il modo di andarsene, ma a quell'ora le porte
della città eran chiuse. E la donna: «Che vuoi tu
fare infelice? Se ti pigliano, è fatta». E siccome
egli tremante la chiedeva di consiglio, essa pronta all'inganno:
«Monta», dissegli , «su questa colombaia; tu starai
qui questa notte, io chiuderò al di fuori l'imposta, e
toglierò la scala, affinché nessuno possa sospettare
che sei là». Obbedì egli al consiglio della
donna, la quale, chiuso al di fuori lo sportello, affinché
non potesse egli più uscire, e tolte le scale, trasse l'amante
dal nascondiglio. Questi, fingendo che i fanti del Podestà
fossero ritornati, vocianti in gran numero, e la donna ancora
che pregava pel marito, finirono con colmar di terrore il pover'uomo
nascosto; poi, quetato il tumulto, entrambi in letto si coricarono
e diedero a Venere la notte; il marito rimase fra lo sterco e
i piccioni.
XI
DI UN PRETE CHE IGNORAVA IL GIORNO DELLA
È Aello un borgo molto campestre, ne' nostri Appennini;
in esso abitava un certo prete, più rozzo e più
ignorante degli stessi paesani; e siccome non conosceva egli le
tempora e le stagioni dell'anno, così mai al popolo annunziò
la quaresima. Venne costui a Terranova per il mercato, che ivi
si tiene il sabato prima della festa delle Palme; vide i preti
che preparavano i rami d'olivo e le piccole palme, per il dì
seguente, e, meravigliato prima della cosa, conobbe di poi l'error
suo e che la quaresima era passata senza che i parrocchiani suoi
l'avessero osservata. Tornò al suo borgo, preparò
i rami e le palme per il dì veniente, e la domenica, convocati
i fedeli: «Oggi», disse, «è il giorno, che
per uso si dànno i rami d'olivo e le palme; fra otto dì
è la Pasqua; non dovremo adunque quest'anno protrarre a
lungo i digiuni, poiché per questa settimana soltanto s'ha
a far penitenza; ed eccovi la ragione: fu quest'anno il carnevale
tardissimo e lento a cagione del freddo, e perché il viaggio
per questi monti gli fu difficile, per l'asperità de' sentieri,
per questo la quaresima faticò e stentò a venire
e non poté recar seco che una settimana sola, avendo lasciate
le altre per via; venite adunque alla confessione in questo po'
di tempo che vi rimane, e fate tutti penitenza».
XII
DI ALCUNI CONTADINI AI QUALI VIENE CHIESTO DALL'ARTEFICE
SE VOLESSERO IL CRISTO, CHE DOVEAN PER INCARICO COMPRARE,
Da questo stesso borgo furono mandati alcuni ad Arezzo, per comprare
un crocifisso di legno, che dovea esser posto nella Chiesa, ed
essendo essi venuti ad uno che vendea queste cose, quando s'accorse
d'aver che fare con uomini zotici ed ignoranti oltremodo, l'artefice
per cavarne da ridere, udita la domanda, chiese se il crocifisso
volessero vivo o morto; essi presero tempo per consigliarsi, discussero
piano fra loro e conclusero che lo preferivano vivo; ché,
se così non fosse piaciuto a' loro compaesani, l'avrebbero
essi in un attimo ucciso.
XIII
MOTTO DI UN CUOCO ALL'ILLUSTRISSIMO DUCA DI MILANO
I1 vecchio Duca di Milano, principe di singolare eleganza in tutte
le cose, aveva un cuoco sapiente che egli aveva perfino mandato
in Francia a ciò che apprendesse ad apprestare intingoli.
Durante la grande guerra che egli sostenne contro i Fiorentini,
venne un giorno al Duca messaggio di cattive nuove e fu per questo
grandemente turbato; e, dopo qualche momento, a tavola, essendogli
presentate pietanze, delle quali non so perché disapprovasse
il sapore, come se non fossero ben condite, le cacciò da
sé, e fatto venire il cuoco, lo rimproverò aspramente
come inetto nell'arte sua; e costui, che parlava liberamente:
«Se i Fiorentini», disse, «vi han tolto il gusto
e l'appetito, che colpa ci ho io? Sono i miei piatti saporiti
e con grandissima arte composti, ma sono i Fiorentini, monsignore,
che vi riscaldano e vi tolgon la fame». E i1 Duca, che era
oltre ogni dire umano, rise della libera e allegra risposta del
cuoco.
XIV
DETTO DELLO STESSO CUOCO AL MEDESIMO ILLUSTRE PRINCIPE
Lo stesso cuoco, durando la guerra di cui sopra s'è detto,
scherzò anche un'altra volta alla tavola del Duca, un giorno
ch'e' lo vide angustiato ed assorto ne' pensieri: «Non mi
meraviglio», disse, «di vederlo tanto afflitto; imperocché
egli va verso due cose impossibili; vorrebbe egli non aver frontiere,
poi vorrebbe ingrassare Francesco Barbavara, uomo di tanta ricchezza
e ardente di tanta avidità». Così il cuoco
scherzava e sulla smoderata voglia di dominio del Duca e sulla
cupidigia d onori e di ricchezze di Francesco Barbavara.
XV
DOMANDA DEL DETTO CUOCO AL PREDETTO PRINCIPE
Lo stesso cuoco, vedendo che moltissimi sollecitavano i favori
del principe, una sera, mentre questi cenava, lo pregò
di volerlo in asino mutare. Meravigliato il Duca di sentirsi fare
una tale domanda, e richiestolo del perché egli preferisse
più d'esser asino che uomo: «Perché»,
disse, «io vedo che tutti coloro che voi avete messo in alto,
ai quali voi deste e magistrature ed onori, sonsi talmente gonfiati
di superbia, e tanto insolenti si son fatti, da divenir asini
davvero. E così desidero che voi asino mi facciate».
XVI
DI GIANNOZZO VISCONTI
Antonio Lusco, uomo di molta sapienza e di una grande gaiezza,
una volta che un tale di sua conoscenza gli fe' vedere una lettera
del Papa, gli disse di correggerla e di ritoccarla in certi punti;
l'altro il dì dopo gliela riporto tal quale, e Lusco vedutala,
gli disse: «Tu m'hai preso per Giannozzo Visconti».
E una volta che noi gli chiedemmo ciò che questo detto
significasse: «Giannozzo», disse, «fu già
nostro podestà di Vicenza; ed era un ottimo uomo, ma rozzo
e grasso di ingegno e di corpo; egli chiamava spesso il suo segretario
e gli faceva scrivere lettere al vecchio Duca di Milano, e gli
dettava egli stesso la parte de' complimenti; il resto lo lasciava
scrivere dal segretario che dopo poco tempo gli recava la lettera.
Giannozzo prendeva a leggerla, e la trovava sempre sconcIusionata
e malfatta. Così non va bene, gli diceva, va' e correggila.
I1 segretario, che conosceva l'uso e la stoltezza del padrone,
tornava poco dopo con la stessa lettera, senza avervi alcuna cosa
mutata, dicendo d'averla e corretta e ricopiata. Allora Giannozzo
la prendeva in mano, come per leggerla vi gettava su gli occhi
e diceva: Ora la lettera va bene; va' dunque: apponvi il sigillo
e mandala al Duca. E così era egli solito fare di tutte
le lettere».
XVII
DI UN CONFRONTO COL SARTO DEL VISCONTI
Aveva Papa Martino incaricato Antonio Lusco di scrivere certe
lettere, e, dopo averle lette, ordinò che fossero fatte
vedere ad un o de' nostri amici, del quale egli aveva gran de
stima; e questi, essendosi nella cena un po' riscaldato pel vino,
non approvò le lettere e disse che dovean esser rifatte.
E Antonio a Bartolommeo de' Bardi, che si trovava presente, disse:
«Io rifarò le lettere nello stesso modo con cui il
sarto di Gian Galeazzo Visconti allargò a questo le brache;
tornerò domani pria ch'egli abbia mangiato e bevuto, e
le lettere andranno bene». Bartolommeo gli chiese che cosa
volesse con ciò significare: «Giovan Galeazzo Visconti»,
disse Antonio, «padre del vecchio Duca di Milano, era uomo
di grande statura, pingue e corpulento; spesso costui s'imbottiva
il ventre di gran cibo e di abbondante vino, e quando dopo cena
iva a coricarsi faceasi chiamare il sarto e questo acerbamente
rimproverava perché gli avesse fatta troppo stretta la
cintola delle brache, e gli imponeva di allargarla in modo da
toglierli quella molestia; e il sarto rispondeva: Sarà
fatto come voi comandate, domani andrà perfettarnente.
Poi prendeva la veste, e l'attaccava senza fare altra cosa. E
quando gli altri gli dicevano: Perché dunque non allarghi
le brache che stringon troppo il ventre di monsignore? egli rispondeva:
Perché monsignore si leverà dal letto che avrà
digerito, si sgombrerà il ventre e le brache saranno larghissime.
E alla mattina gliele portava e il duca diceva: Ora sta bene:
non mi stringon da veruna parte». Nella stessa guisa affermava
Antonio che le sue lettere sarebbero dopo il vino piaciute.
XVIII
LAMENTI CHE FURON FATTI A FACINO CANE
Un tale andò a lamentarsi da Facino Cane, che fu un uomo
crudele ed uno de' migliori capitani del nostro tempo, perché
uno de' suoi soldati gli aveva per via rubato il mantello. E avendo
visto Facino che egli era vestito di un bellissimo corpetto, gli
chiese se questo egli avesse avuto il giorno in cui fu derubato.
E l'altro rispose affermando. «Vattene adunque», disse
Facino, «che colui che ti ha spogliato non può essere
uno de' miei soldati; perché nessuno de' miei ti avrebbe
lasciato codesto corpetto».
XIX
ESORTAZIONE DI UN CARDINALE A' SOLDATI DEL PAPA
Durante la guerra che il Cardinale Spagnuolo sostenne contro i
nemici del Pontefice, quando un giorno i due eserciti si trovaron
di fronte nell'Agro Piceno, e che dovevansi dar battaglia decisiva,
il cardinale eccitava con molte preghiere i soldati al combattimento
e affermava che coloro che vi fossero morti avrebbero pranzato
con Dio e cogli angioli; e perché di miglior grado si facessero
ammazzare, prometteva loro remissione di tutti i peccati. Poi,
fatta questa esortazione, si ritirò lontano dalla pugna;
e allora uno dei soldati: «Perché dunque», gli
chiese, «non venite con noi a questo pranzo?» Ed egli:
«Io non son solito di pranzare a quest'ora, non ho ancora
appetito».
XX
RISPOSTA AL PATRIARCA
XXI
DI PAPA URBANO VI
Un altro nello stesso modo scherzò con Urbano, che fu il
sesto Papa di questo nome. Un giorno che egli un poco troppo acremente
si opponeva non so per quale ragione al Pontefice: «Avete
una cattiva testa», gli disse Urbano. «La stessa cosa»,
rispose, «dicono di voi gli uomini del popolo, padre santo.»
XXII
DI UN PRETE CHE IN LUOGO DI PARAMENTI SACERDOTALI
Un Vescovo di Arezzo, di nome Angelico, che io ho conosciuto,
convocò una volta al Sinodo i sacerdoti della sua diocesi,
ingiungendo che coloro che avessero qualche dignità vi
andassero in cappa e cotta, che sono due ornamenti sacerdotali.
Un prete, cui mancavano queste vesti, stavasi afflitto a casa
sua, non sapendo dove 1e avesse potuto domandare. La serva, a
vederlo pensieroso e col capo basso, gli chiese la ragione del
dolore; ed egli le disse che il Vescovo aveva indetto di andare
al Sinodo in cappa e cotta: «Ma voi, mio buon padrone»,
gli rispose la serva, «non conoscete la forza di quest'ordine.
Non è la cappa e la cotta che il Vescovo domanda e che
voi dovete portare, sibbene dei capponi cotti». I1 prete
cedette al consiglio della donna, e portando seco i capponi cotti,
fu assai cortesemente ricevuto dal Vescovo, il quale diceva ridendo,
che questo prete soltanto aveva ben capito l'ordine dell'editto.
XXIII
DI UN AMICO MIO CHE SI AFFLIGGEVA CHE MOLTI GLI ANDASSERO
INNANZICH'ERANO A LUI INFERIORI PER PROBITÀ E PER DOTTRINA
Nella Curia Romana domina quasi sempre la fortuna e rarissime
volte solo vi trovano posto l'ingegno e la virtù; ma tutto
si ha per ambizione o per intrigo, senza parlar del denaro, che
in vero pare aver dominio su tutto il mondo. Un mio amico, che
si affliggeva che molti gli andassero avanti a lui inferiori per
probità e per dottrina, si lamentava con Angelotto Cardinale
di San Marco, di non avere nessuna ricompensa della sua virtù
e di vedersi posposto a chi non gli arrivava in nessuna cosa.
E parlò degli studi che avea fatti e delle fatiche spese
a studiare. Allora il Cardinale, sempre pronto a sferzare i vizi
della Curia: «La vostra scienza e la vostra dottrina»,
gli disse, «non giovano a niente, e se volete essere ben
accetto al Pontefice, disimparate ciò che sapete e apprendete
i vizi che ignorate».
XXIV
DI UNA FEMMINA MATTA
Una femmina del mio paese, che pareva matta, era condotta da suo
marito e da' parenti a una certa fattucchiera, per opera della
quale credeasi di poterla curare; e per passare l'Arno la posero
a cavalcioni dell'uomo più forte; ma ecco in questa ella
imprese a muoversi sulle spalle dell'uomo similmente a' cani in
calore, e a gridare ripetutamente: «Io voglio l'uomo, suvvia,
datemi l'uomo». E con queste parole mostrò la ragion
del suo male. Colui che la portava scoppiò a rider sì
forte che cadde con la donna nell'acqua; e tutti gli altri ne
risero, e conobbero che a medicar quel male non eravi bisogno
d'incantesimi, ma di quell' altra cosa, e con questa sarebbe ella
tornata in sanità; e volti verso il marito: «Tu, dissero,
sei il miglior medico di tua moglie». E se ne tornarono tutti,
e dopo che il marito fu seco e la contentò, ella tornò
sana di mente. Questo, del resto, è il miglior rimedio
della pazzia delle donne.
XXV
DI UNA DONNA CHE STAVA SULLA RIVA DEL PO
Sopra una piccola nave recavasi a Ferrara, insieme con alcuni
uomini della Curia, una di quelle donne che fan servizio agli
uomini. Una donna allora che stava sulla riva del Po, disse: «Matti
che voi siete; credete forse che a Ferrara vi sian per mancar
meretrici, quando là ne troverete tante, più che
donne oneste a Venezia?».
XXVI
DELL'ABATE DI SETTIMO
L'abate di Settimo, uomo pingue e corpulento, recavasi una sera
a Firenze, e per la via chiese ad un villano per qual porta dovesse
egli entrare; l'abate intendeva di chiedere qual porta fosse aperta
ancora per venire nella città. E il villano, scherzando
su la grossezza dell'abate: «Se passa un carro di fieno»,
disse, «penso che anche voi passerete la porta».
XXVII
LA SORELLA DI UN CITTADINO DI COSTANZA È GRAVIDA
Per dimostrare quanta libertà molti si godessero al Concilio
di Costanza, un nobile vescovo di Brittania raccontò il
fatto seguente: «Vi fu», disse, «un cittadino di
Costanza, la sorella del quale era gravida, per quanto non avesse
marito; ed egli, quando s'accorse della grossezza del ventre,
afferrata una spada, e minacciandola di ucciderla, chiese che
cosa ciò fosse, e donde provenisse. Atterrita allora la
fanciulla, rispose che era opera del Concilio e che di questo
ella era gravida: e quando queste cose il fratello ebbe udite
e per riverenza e per timor del Concilio non punì la sorella;
e mentre tutti gli altri vi cercavano tante diverse libertà,
egli fra queste poneva per prima quella di fare all'amore».
XXVIII
DETTO DI LORENZO PRETE ROMANO
I1 giorno in cui il Papa Eugenio fece cardinale il romano Angelotto,
un prete della città, di animo ilare e che aveva nome Lorenzo,
tornò a casa giubilante, tutto pieno di letizia e di riso;
e quando i vicini gli chiesero che cosa di nuovo gli fosse venuto,
che egli era così lieto e vivace: «Stupendamente»,
rispose, «ho io adesso le più grandi speranze; e poiché
gli sciocchi ed i matti si fanno cardinale, e Angelotto è
più matto di me, così verrò io stesso della
sacra porpora insignito».
XXIX
CONVERSAZIONE CON NICCOLO' D'ANAGNI
Anche Niccolò d'Anagni quasi in questo stesso modo rise
di Papa Eugenio, il quale, egli diceva, non favoriva che gli ignoranti
e gli stolti. Un dì che in parecchi eravamo al palazzo,
e si discorreva in varie cose, come si fa, ed alcuni si lamentavano
della iniqua fortuna, e di averla sempre avversa ne' loro affari,
Niccolò, ch'era uomo dottissimo, per quanto di ingegno
leggiero, e di lingua mordace: «Non vi è», disse,
«nessuno al mondo, cui più che a me sia stata la fortuna
nemica; in questo tempo, nel quale è la stoltezza che regna,
noi vediamo tutti i giorni elevati alle più ampie dignità
ed a' maggiori offici e i dementi e gli sciocchi; e fra essi fino
Angelotto vedemmo. Io soltanto sono fra il numero de' dementi
lasciato in disparte, io solo posso essere cosi maltrattato dalla
sorte».
XXX
DI UN PRODIGIO
Quest'anno la natura ha fatto nascere molti mostri in diversi
luoghi. Nel territorio di Sinigalia, che è nel Picentino,
una vacca ha partorito un dragone di meravigliosa grandezza. Aveva
la testa più grossa di quella d'un vitello, il collo lungo
come un braccio, e il corpo come quello di un cane, ma più
lungo; quando l'ebbe fatto, la vacca si volse, e vedutolo, diede
in un gran muggito e voleva fuggire, e il dragone s'alzò,
le avvinghiò le gambe di dietro con la coda, avvicinò
la bocca alle mammelle, e vi succhiò il latte; poi, lasciata
la vacca, si fuggì nella foresta vicina; dopo ciò,
le mammelle, e quella parte delle gambe ch'era stata tocca dal
dragone, rimasero nere e come bruciate per molto tempo. Questo
hanno affermato i pastori, giacché quella vacca era di
un armento; e dissero ancora che di poi la vacca aveva fatto un
altro vitello. Questo è annunziato in una lettera che vien
da Ferrara.
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detto
Poggio Fiorentino
e da lui scritta
DI UN MEDICO CHE CURAVA I MATTI
SOLENNITA' DELLE PALME
VIVO O MORTO
PER CAUSA DI UN FURTO
Il Patriarca di Gerusalemme, che dirigeva la cancelleria apostolica,
avendo un giorno, per la discussione di una certa causa, radunati
gli avvocati, rimproverò alcuno di questi con non so quali
acerbe parole. E poiché Tommaso Biraco gli aveva risposto
per tutti, il Patriarca, rivolto verso di lui, disse: «Avete
una cattiva testa». E Biraco, ch era uomo faceto e pronto
alla risposta: «Voi ben avete detto», rispose, «e
nulla di più vero poteasi dire; perché se io avessi
una buona testa, gli affari sarebbero in migliore stato, né
sarebbe questa discussione necessaria». «Riconoscete
adunque il vostro errore», disse il Patriarca. E Biraco:
«Non parlo di me, ma della testa». Alludeva egli argutamente
al Patriarca che era alla testa di tutti gli avvocati, il quale
si sapeva aver la testa un po' dura.
PORTO' DEI CAPPONI AL VESCOVO