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Umorismo, facezie, testi letterari curiosi


Poggio Bracciolini
LE FACEZIE

| I - XXX | XXXI - LX | LXI - XC | XCI - CXX | CXXI - CL |

| CLI - CLXXX | CLXXXI - CCXX | CCXXI - CCL | CCLI - CCLXXII |

INDICE DEI TITOLI


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FACEZIE DA CXXI a CL

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CXXI

GIOCONDA RISPOSTA DI UNA DONNA DATA AD UN TALE
CHE LE CHIEDEVA SE SUA MOGLIE POTESSE PARTORIRE
DOPO DODICI MESI

Un cittadino di Firenze, che era stato fuori di paese, quando dopo un anno tornò a casa sua, trovò sua moglie che stava per partorire, ed ei male sopportava questa cosa, poiché temeva che sua moglie non gli si fosse serbata fedele. Ed essendo egli nel dubbio, andò per consiglio da una nobile signora che abitava lì presso, e ch'era donna molto ingegnosa, e le richiese se egli avesse potuto aver un figlio dopo dodici mesi. Ed ella, conosciuta la dappocaggine dell'uomo, rispose per consolarlo: «Certamente, che se la moglie tua, quel giorno in cui concepì, vide un asino, secondo il costume di questi animali partorirà dopo un anno». E l'uomo si chetò alle parole della signora, e ringraziando Dio che toglieva a lui un forte sospetto e risparmiava a sua moglie un grave scandalo, tenne per suo il fanciullo che nacque.

CXXII

DOMANDA OSCENA DI UN PRETE

Fuori della porta di Perugia evvi la Chiesa di San Marco, e in un giorno di festa, in cui tutto il popolo era convenuto in essa, Cicero, che n'era il pievano, nella predica ch'ei faceva secondo il costume, concluse con queste parole: «Fratelli, io desidero che voi mi togliate da un grave dubbio. Quando io in quest'ultima quaresima ho udito la confessione delle vostre mogli, non ho trovata alcuna che non affermasse di aver mantenuta intatta la fede al marito. Voi invece avete quasi tutti confessato che vi siete serviti delle mogli degli altri. Ora, per non rimanere io in tal dubbio, desidero sapere da voi, chi e dove sieno queste donne».

CXXIII

FACEZIA DI UN TALE SOPRA L'INVIATO DI QUELLI DI PERUGIA

Nel tempo in cui i Fiorentini avevano guerra col Pontefice Gregorio, i Perugini, che avevano abbandonato il Papa, mandarono legati a Firenze a chiedere aiuto; uno di costoro, che era un dottore, uscì con un lungo discorso, e alle prime parole, come proemio, disse: «Dateci del vostro olio». Un uomo allegro, che detestava quei magniloquenti discorsi, lo interruppe: «Di quale olio intendi tu dire? Veniamo a domandare soldati e tu dimandi l'olio? Ti sei forse dimenticato che armi e non olio noi veniamo a richiedere?» E poiché quegli rispose che erano parole della Santa Scrittura: «Bella cosa!», rispose l'altro, «noi siamo nemici della Chiesa e tu invochi la Santa Scrittura!». Risero tutti della facezia di quell'uomo, che con le dette parole si burlò della soverchia prolissità del discorso del dottore e poté così venire all'argomento.

CXIV

DEGLI INVIATI DI PERUGIA A PAPA URBANO

Anche ad Urbano V Papa, che era in Avignone, quei di Perugia mandarono tre ambasciatori; e quando vi giunsero, il Pontefice trovavasi gravemente malato; tuttavia, per non tenerli troppo tempo in pena, li fece chiamare, pregandoli però, prima che cominciassero, di parlar poco. Un dottore, che per via aveva mandato a memoria una lunga orazione, che avrebbe poi recitata al Papa, non ebbe riguardo alcuno che egli fosse malato e in letto, e si profuse in molte parole, così che il Pontefice mostrò spesso di avere a noia l'udirlo. Quando finalmente quell'ignorante ebbe finito, Urbano, cortesemente, chiese agli altri che cosa volessero ancora. Un altro degli ambasciatori, che aveva conosciuta la stoltezza di quello che aveva parlato e la noia recata al Pontefice: «Beatissimo Padre», disse, «abbiamo avuto mandato dai nostri cittadini, che se voi non farete tutto ciò che potrete per quello che vi chiediamo, prima di partire, questo compagno mio vi ripeta ancora il suo sermone». Questa facezia fece sorridere il Papa, il quale ordinò che avessero tosto quel che chiedevano.

CXXV

DETTO SCIOCCO DEGLI INVIATI DI FIRENZE

I nostri inviati fiorentini che furono mandati in Francia, quando giunsero a Milano andarono a visitare il duca Bernabò per fargli onore. E come furono dinanzi a lui, interrogati chi fossero, risposero: «Siamo cittadini e ambasciatori di Firenze, se vi piace», come s'usa dire; ed egli li ricevette e poscia li congedò. Solo quando giunsero a Vercelli, ripensando a ciò che fino allora avevano fatto, tornarono in mente le parole che avevano dette a Bernabò, e poiché uno di loro disse che avergli detto se vi piace era mal detto, perché s'anco non gli fosse piaciuto erano essi e cittadini fiorentini e ambasciatori, così tutti vennero in questo parere e conclusero d'aver avuto torto e di non essere in quel modo stati dignitosi. E di comune accordo tornarono a Milano per ritrattar quelle parole e andarono dal Duca. Là, quello di loro che era più vecchio e pareva più dotto: «Duca», disse, «noi eravamo a Vercelli quando pensammo di averti detto che eravamo cittadini ed ambasciatori fiorentini se ti piace; e questo dicemmo da sciocchi e da ignoranti, perché, piacciati o dispiacciati, noi siamo fiorentini, cittadini e ambasciatori». Il Duca, che era uomo molto severo rise della stolta cura di costoro e disse loro ch'egli aveva piacere, perché essi erano appunto ciò che e' li credeva.

CXXVI

DETTO FACETO DI UN CERTO GIAN PIETRO DA SIÈNA

Gian Pietro, cittadino di Siena, uomo gioviale e faceto, venne una volta in Roma invitato a bere da Bartolommeo de' Bardi; eravamo là in molti, e si scherzava su l'uomo e si beveva, e mentre, com'è d'uso, avevamo tutti, prima di bere, mangiato un boccone di pane, egli solo teneva il pane in mano. Gli chiedemmo perché non mangiasse, ed egli, ridendo, rispose: «Il tuo pane, Bartolommeo, è riverente ed educato; per quanto l'abbia io molte volte avvicinato alla bocca, egli a niun patto vuol entrar prima del vino». Ridemmo tutti del detto faceto di costui, che credeva che il cibo non dovesse andar sempre innanzi alla bevanda, specialmente quando si ha sete.

CXXVII

D'UN UOMO CHE AVEVA COMPRATA UNA VESTE DI
GRAN PREZZO ALLA MOGLIE

Un tale lamentavasi con la moglie, alla quale aveva comprata una veste di gran prezzo, perché egli non si serviva del matrimonio che non gli costasse un ducato almeno. E la moglie a lui: «Questo», disse, «avviene per colpa tua. O perché non te ne servi tanto spesso che non ti venga a costar più di un soldo ?».

CXXVIII

RACCONTO GRAZIOSO D'UN MEDICO

Il cardinale di Bordeaux mi narrò una volta che un certo suo concittadino, una sera, quando tornò a casa, prese a gemere lamentevolmente per un forte dolore ad una gamba. La moglie gli unse ripetute volte la gamba, vi pose sopra lana e stoppa e tutta la recinse con una fascia di tela. Ma l'uomo continuò a lamentarsi del dolore e chiese gemendo il medico; e questi venne, e a poco a poco, dolcemente, per causa del gran dolore che gli faceva, sfasciò la gamba, e la palpò; e nulla avendo trovato di male: «È adunque a questa», disse l'uomo (e gli porse l'altra gamba), «che io sento dolore ?». Bellissima sciocchezza questa d'un uomo che voleva sapere dal medico dove sentisse il male.

CXXIX

DI UN UOMO CHE TROVAVA L'ORO DORMENDO

Una volta in compagnia un amico nostro narrò che in sogno aveva trovato dell'oro. E allora uno disse: «Guarda che non ti accada come al mio vicino, cui l'oro si cambiò in lordura». E perché noi gli chiedemmo di narrare il sogno: «Un mio vicino», disse, «sognò di essere condotto dal demonio in un campo a disseppellire dell'oro, e ne trovò molto; e il demonio allora gli disse: Tu non puoi ora portarlo teco, ma fa' un segno sul luogo, perché tu solo possa conoscerlo. E avendo l'altro chiesto di che segno doveva servirsi: Falla qui, disse il diavolo, chè appunto in questo modo nessuno crederà che qui sia l'oro e tu solo conosci la cosa. L'uomo acconsenti e svegliatosi incontanente sentì d'aver sgombrato il ventre nel letto; sorse fra il puzzo e la poltiglia, e per uscir di casa mise in testa un cappuccio, entro il quale il gatto quella notte aveva fatta la sua. Pien di schifo per l'iniquo tanfo, dové lavarsi la testa e i capelli. Così un sogno d'oro s'era mutato in merda».

CXXX

DI UN SEGRETARIO DI FEDERICO IMPERATORE

Pier de le Vigne, uomo saggio e dotto, fu segretario di Federico imperatore, il quale, essendo nemico di Alessandro III Papa, e avendo portata la guerra nei dominii della Chiesa, fece accecare Pietro, che era italiano, per invidia che fra i barbari si era mossa contro di questo. Poi pentito, perché aveva fatta cattiva azione, lo chiamò nel suo consiglio segreto. Una volta che l'imperatore trovavasi in grave mancanza di denaro, Pietro lo consigliò di servirsi, nella guerra colla Chiesa, delle forze di questa, di prendere e fondere, per continuar la guerra, gli ornamenti d'oro e d'argento delle chiese, fra i quali erano in quel tempo memorabili (erano allora a Pisa) le catene che erano d'intorno alla cattedrale. Piacque il consiglio a Federico, ed arricchì l'esercito con le spoglie della Chiesa, e allora Pietro gli disse: «Imperatore, io mi sono vendicato finalmente della pena che tu mi hai ingiustamente inflitto. Tu ti sei già acquistato l'odio degli uomini; io ti ho fatto per causa del sacrilegio nemico di Dio; d'ora innanzi tutte le cose tue andranno a male». Dopo però fu Federico vincitore; ma poi Alessandro schiacciò l'orgoglio dell'Imperatore; e, con quel detto, Pier de le Vigne dimostrò che le cose sacre non possono portarsi ad uso profano; e chi io fa è punito da Dio.

CXXXI

DI UN FIORENTINO CHE SENZA SAPERLO MANGIO'
DELL'EBREO MORTO

Venivano due giudei da Venezia, dove abitavano, a Bologna, e accadde che uno di essi colpito da malattia morisse in viaggio; l'altro desiderava di trasportarne il cadavere a Venezia, e poiché ciò non potea farsi palesemente, così, tagliatolo in minuti pezzi, lo pose in un piccolo barile, mescolandolo con diversi aromi e con miele, tanto che usciva meravigliosamente un soave odore dal barile, e questo raccomandò ad un altro ebreo che andava a Venezia. Costui portò seco il barile sulla barca per il canale di Ferrara, ed essendo sulla barca in molti, accadde che un Fiorentino si mettesse a sedere vicino al barile. Quando venne la notte, attratto dall'odore, e sospettando che dentro si contenessero cose buone a mangiare, tolse di nascosto il coperchio e prese a gustare ciò che dentro vi era; e poiché gli parve che questo fosse un cibo molto saporito, così quella notte a poco a poco quasi tutto lo vuotò, credendo di aver mangiato buona cosa. Quando a Ferrara l'ebreo fu per uscir dalla nave e prese il barile, sentì dalla leggerezza del peso che esso era vuoto; e mentre e' da una parte si lagnava che gli avean rubato il cadavere, il Fiorentino dall'altra sentiva che egli stesso era il sepolcro del giudeo.

CXXXII

VISIONE DI FRANCESCO FILELFO

Francesco Filelfo, geloso della moglie, viveva in continua pena che ella non avesse con qualche altro a fare, ed era giorno e notte intento a vigilarla. Una notte che e' dormiva, in sogno, poiché avviene spesso che ci tornino nei sogni le cose che desti abbiam per la mente, vide un demonio che gli promise che avrebbe la donna sicura, se facesse ciò che egli avrebbe detto di fare. Ed avendo egli nel sonno annuito, dicendo di esserne assai grato e promettendone premio, il diavolo gli disse: «Prendi questo anello e tienlo sempre diligentemente in dito; poiché, mentre l'avrai, non potrà la tua moglie, senza che tu lo sappia, con altro uomo giacere». Tolto improvvisamente per la gioia dal sonno, sentì d'avere il dito nella cosa della moglie. E quello è davvero il migliore rimedio pe' gelosi, perché le donne non possano mai, alle spalle de' mariti, essere infedeli.

CXXXIII

DI UN BEVITORE

Un famoso bevitore di vino fu preso dalla febbre, per la quale gli si aumentò la sete; vennero i medici e discutevano sul modo di toglier la febbre e la straordinaria sete: «Solo della febbre», disse il malato, «voglio che voi vi occupiate, ché quanto a curar la sete, quello è affar mio».

CXXXIV

MOTTO FACETO DI EVERARDO SEGRETARIO APOSTOLICO
CHE USCI' IN UN RUMOR DI VENTRE AL
COSPETTO DI UN CARDINALE

Un dì che il cardinale de' Conti, uomo grasso e corporuto, era andato alla caccia, quando fu verso mezzogiorno si sentì fame e discese per pranzare. Era d'estate, e tutto sudato si pose a mangiare, e poiché i servi erano lontani occupati in varie faccende, così egli comandò a un certo Everardo Lupi, segretario apostolico, di fargli vento. Questi gli disse: «Non so io come voi vogliate»; e il Cardinale: «Fa' come tu vuoi». E l'altro: «Con molto piacere, per bacco!» ed alzata la gamba destra, ruppe in grandissimo crepito, dicendo che in quel modo soltanto era egli solito di far vento. Questa cosa fece ridere moltissimo coloro che erano presenti ed erano in grande numero.

CXXXV

SCHERZO GIOCONDISSIMO DI UN ALTRO CARDINALE

Collo stesso strumento il cardinale di Tricario rispose agli avvertimenti di Alto de' Conti. Era il cardinale di vita assai dissoluta, e un giorno alla caccia Alto lo ammoniva con lungo sermone a darsi a vita migliore; il cardinale, udite le parole di Alto, fissò questo per un poco in volto; poi, piegata la testa sul cavallo, alzò il deretano e diede un gran suono dicendo: «Alla tua faccia». E dopo questa unica risposta se ne andò, mostrando così in che stima avesse quegli avvertimenti.

CXXXVI

DI UNA DONNA CHE PER COPRIRSI IL CAPO SI
SCOPRI' IL SEDERE

Una donna, che per malattia della pelle s'era fatta radere il capo, un giorno venne chiamata fuori da una vicina per certa faccenda, ed uscì di casa dimenticando nella fretta di coprirsi il capo. Quando l'altra donna la vide in quel modo, la rimproverò d'esser venuta sulla via col capo nudo e così brutto; ed ella, per coprirsi il capo, sollevando le vesti di dietro, scoprì il deretano. Tutti quelli che videro risero di ciò che aveva fatto la donna, che per piccola cagion di pudore maggior male aveva fatto.

Questo va detto di chi cerca di nascondere un piccolo delitto con più grave scelleratezza.

CXXXVII

ISTORIA GRAZIOSA DI UN TALE CHE MANDO' LETTERE A
SUA MOGLIE E AD UN MERCANTE

Francesco di Ortano, cavaliere napoletano, che ebbe da re Ladislao il governo di Perugia, ricevette una volta lettere dalla moglie e da un mercante di Genova, al quale era debitore di denaro preso a mutuo. Quella della moglie lo esortava a tornare a casa, e gli ricordava ch'e' dovea compiere l'ufficio coniugale e la promessa di tornar presto e di mantenere la data fede; l'altra lo richiedeva della restituzione del denaro prestatogli. Rispose egli, com'era giusto, al mercante, che lo avrebbe quanto prima pagato, chiedendogli una breve dilazione; e scrisse alla moglie calmandone il desiderio con molte blandizie e promesse, dicendo che sarebbe tornato subito, che avrebbe fatto ogni cosa per risarcirla della lunga astinenza; e con la confidenza che aveva con la moglie si servì di parole un po' allegre, fra le quali vi erano queste aggiunte, che l'avrebbe contentata in molte maniere, e, per servirmi delle sue frasi, l'avrebbe in diversa guisa cavalcata. Nel sigillar le lettere mandò quella del mercante alla moglie, e quella di questa al mercante. Quando la moglie

ricevette la lettera, si meravigliò assai che e' non rispondesse a ciò che gli aveva scritto. Ma il Genovese, quando lesse la lettera che gli era pervenuta, e che conteneva cose liete o da moglie, fra le quali principalmente che l'altro sarebbe tornato, e con essa avrebbe molte volte ripetuto il giuoco, e altre cose più oscene, credette che l'altro si prendesse beffa di lui e andò dal Re a mostrargli la lettera, e lamentandosi che invece del denaro che gli doveva gli prometteva di cavalcarlo finché fosse stanco, aggiungendo che egli era stato cavalcato abbastanza quel giorno che avevagli prestato il denaro. Tutti presero a ridere, e risero anche di più quando fu conosciuto l'error della lettera.

CXXXVIII

STORIA DI DANTE
CHE RIMPROVERAVA SPESSO LA MOGLIE

Uno del mio paese, di nome Dante, la cui moglie avea fama d'essere poco onesta, era dagli amici molto spesso consigliato di togliere dalla sua casa il disonore, e rimproverava acerbamente sua moglie; ed ella con molte lacrime e con giuramenti protestava della sua fedeltà. dicendo che quelle cose erano dette dagli invidiosi della loro tranquillità. L'uomo fu persuaso da queste parole, e, una volta che gli amici tornarono a consigliarlo di rimproverare la moglie: «Ohè!», disse, «non mi annoiate più con codeste parole! Forse che voi meglio di lei conoscete i suoi peccati?». E tutti dissero che la moglie meglio li conosceva. «Allora» soggiunse, «ella dice che voi tutti mentite, e ad essa più che a tutti voi io presto fede».

CXXXIX

TESTAMENTO DI UN VECCHIO IN FAVOR DELLA MOGLIE

Pietro Masini, nostro concittadino, fu uomo molto mordace nel discorso; e quando fu vecchio e presso a morte, nel testamento che fece, nulla lasciò alla moglie fuori della dote; questa mal sopportava la cosa, e lamentavasi che il marito la maltrattasse, né le lasciasse alcuna cosa della sua sostanza, e chiedeva con molto pianto che le fosse legato un qualche sussidio per la vecchiaia: «Chiamate dunque», disse il moribondo, «il notaio ed i testimoni, affinché io lasci qualche cosa alla moglie». E questi vennero prontamente, ed essendo la moglie presente, disse Pietro, rivolto ai testimoni: «Costei mi annoia perché io le lasci qualche cosa, ed io per togliermi il fastidio, chiamo voi che siete presenti ad attestare che io le lascio la più fetente e più larga vagina che vi sia in questa città». Detto questo, tutti se ne andarono ridendo, e la donna rimase mesta e delusa della risposta del marito.

CXL

RACCONTO DI ZUCCARO DI UNA DONNA CHE CHIEDEVA
UNA MEDICINA AD UN PRETE

Zuccaro, che fu il più gentile degli uomini, soleva narrare di una donna non brutta e che era sua vicina, la quale, essendo sterile, chiedeva spesso al prete, al quale essa si confessava, se e' non sapesse di un qualche rimedio atto a far concepire i figliuoli. Egli alla fine accondiscese e le disse di venire da lui un giovedì, che era il giorno meglio adatto alla cosa; quando il dì venne la donna desiderosa di figliuoli andò alla abitazione del prete, che le disse: «Io mi servirò di un incantesimo che fa sorgere molte e varie illusioni, in modo che sembra che avvengano cose, che in realtà non avvengono. Or dunque, perché la cosa riesca, occorre costanza e fermezza d'animo. Vi sembrerà che io vi tocchi, ch'io vi baci e vi abbracci, ch'io faccia ancora quelle altre cose che suol fare vostro marito; tutto questo non è vero, ma così pare per la efficacia delle parole che si devono dire, le quali hanno appunto potenza di far parere vere cose che non lo sono». Consentì la donna confidente alle parole del prete, e disse che in niun conto avrebbe essa tenute queste stregherie. Il prete fe' molti segni, disse all'aria molte parole, poi prese a baciar la donna e la distese sul letto. E quando ella tremante gli chiese che cosa facesse: «Non ve lo dissi poco fa», rispose il compagnone, «che le cose che avreste vedute non sarebbero state vere?» E così e' fece due volte il piacer suo colla donna, sempre affermando che ciò non era. E così, credendo di essere stata illusa da un incantesimo, la donna se ne tornò a casa.

CXLI

DI UN EREMITA CHE SI GODE' MOLTE DONNE

Eravi in Padova un eremita che aveva nome Ausimirio, al tempo di Francesco, che fu il settimo duca di Padova; e sotto pretesto di confessione, egli, che era in fama di uomo santo, ebbe molte donne anche della nobiltà. Finalmente, poiché l'ipocrisia non si può lungamente nascondere, si divulgò la fama di queste scelleratezze, e preso dal Podestà, confessò molte di quelle nefandità e fu condotto a Francesco. Questi fe' venire un segretario, e per riderne, chiese all'eremita certe notizie e i nomi delle donne che egli aveva avute. E il segretario scriveva i nomi, molti dei quali erano di donne mogli a familiari del Duca, e questo per averne poi causa di riso. Quando alla fine parve che avesse il romito finito di nominare, il Duca chiese se ve ne fossero ancora, egli costantemente negò; ma il segretario lo redarguì più aspramente e lo minacciò della tortura se non avesse detto ogni cosa. Allora l'eremita sospirando: «Scrivete», gli disse, «anche la vostra e mettete anche quella nel numero delle altre». Quando udì ciò, cadde di mano, pel dolore, la penna al segretario; e il Duca ne fece gran riso, dicendo che era giusto che quegli che con tanto piacere aveva udita la sventura degli altri venisse ad essere in loro compagnia.

CXLII

DI UN FIORENTINO CHE SI ACCOMODO' CON LA
MOGLIE DI SUO PADRE

A Firenze, una volta, mentre un giovane stava sulla noverca, sopravvenne il padre e lo sorprese nel fatto con la moglie; la cosa nuova ed indegna colpì costui, che prese con gran rumore a rimproverare acerbamente il figliuolo, e questi balbettando cercava di scusarsi. Era molto tempo ch'essi disputavano, quando, mosso dalle grida, venne un vicino, ignaro della cosa, per comporre la contesa. E quando e' chiese la ragione del litigio, essi per pudor della cosa tacevano; finalmente, poiché il vicino più fortemente insisteva, e il padre dava la colpa al figlio, questi per primo prese a dire: «Costui, che è mio padre, oltre misura indiscreto, ebbe mille volte mia madre ed io nulla dissi; ora, perché io ho avuto per una volta sola sua moglie, per la mia sconsideratezza riempie la casa di grida come un matto». Rise colui della faceta risposta del figlio e condusse seco il padre, cui cercò, come gli fu possibile, di consolare.

CXLIII

DISPUTA DI CERTI FRATI MINORI SUL MODO DI
FAR L'IMMAGINE DI S. FRANCESCO

Certi frati dell'ordine de' Minori chiamarono un pittore perché dipingesse loro l'immagine di San Francesco; ma erano fra loro discordi, perché alcuni lo volevan colle stimmate, altri in atto di predicar al popolo, altri in diversa guisa. Passarono tutto un giorno a disputar della cosa e alla sera andarono a dormire, lasciando il pittore senza aver nulla deciso; e il pittore, conosciuta la stoltezza dei frati, vedendosi beffato, lo dipinse in atto di sonare il flauto, altri dicono impiccato pel collo. Veduta la figura, i frati cercarono dappertutto il pittore per fargli del male, credendo essi che egli avesse fatto gravissimo oltraggio alla religione e meritasse la maggior pena; ma egli si era raccomandato alle gambe.

CXLIV

DI UN PRETE FIORENTINO CHE ANDO' IN UNGHERIA

È costume nel regno d'Ungheria, che, dopo la messa, coloro che sono in chiesa e che han male agli occhi, s'avvicinino all'altare e si faccian bagnar gli occhi dal prete con acqua versata nel calice; nello stesso tempo il sacerdote pronunzia alcune parole dei sacri libri, con le quali egli prega la sanità. Andò una volta in Ungheria un prete di Firenze con Filippo detto lo Spagnolo; e avendo una volta detta la messa alla presenza del re Sigismondo, quando ebbe finito, vide avvicinarglisi molti malati agli occhi, perché questi egli bagnasse loro coll'acqua del calice. Ed egli, credendo che il male fosse loro venuto per la crapula e il troppo bere, prese il calice, come aveva visto che gli altri facevano, e li asperse, dicendo in italiano: «Andatevene, che siate morti a ghiado». Ciò udì il Re ed Imperatore, e non poté trattenere il riso; e a tavola il dì dopo riportò, per riderne, le parole del prete, che mossero il riso a tutti e l'ira a coloro che avean gli occhi malati.

CXLV

RISPOSTA DI UN VILLANO AL PADRONE

Uno de' nostri villani fu una volta interrogato dal padrone in qual tempo avessero essi maggior lavoro ne' campi. «In maggio», rispose. E poiché egli glie ne chiedeva la ragione, perché ciò pareva strano in quanto sembra che in quel mese riposino i lavori della campagna: «perché», disse, «è in quel mese che noi dobbiamo coprire e le nostre e le vostre donne».

CXLVI

DETTO DI UN UOMO RIDICOLO

Un Romano, che noi abbiamo conosciuto, montò una volta su di un muricciuolo che era in un canneto, e, come se si trovasse dinanzi al popolo, prese a parlare alle canne, intrattenendole sulle cose della città. Mentre parlava, per un po' di vento che s'era mosso, le canne piegavano le cime; e quell'uomo sciocco che fingeva a se stesso che quelle canne fossero uomini, come se esse lo ringraziassero del discorso: «Non abbiate tanto rispetto», disse, «o signori Romani, per me che sono l'ultimo di voi». E questa frase venne poscia in proverbio.

CXLII

COME UN UOMO CHE VOLEA UCCIDERE IL PORCO FU DERISO

Era costume una volta, in un borgo del Piacentino, che, quando alcuno all'inverno ammazzava il maiale, invitasse i vicini a cena. Un tale, al fine di evitar quella spesa, consultò un compare. E questo gli disse: «Di', domani, che questa notte t'han rubato il porco». E quella notte, di fatti, mentre l'altro non sospettava d'alcuna cosa, gli rubò il porco. Alla mattina, quando vide che gli mancava la bestia, andò dal compare amentando con alte grida che glielo avessero rubato. E l'altro: «Tu dici bene, compare; è così che io ti ho insegnato di dire». E per quanto l'altro ripetute volte e per tutti gli Dei giurasse che quel che diceva era vero: «Fai bene», l'altro diceva, «era secondo il consiglio che ti diedi». E siccome l'altro ripeteva il giuramento: «Io ti dissi prima che tu dovevi parare di questa guisa; ed io ti diedi buon consiglio». Finalmente il pover'uomo se ne andò deluso.

CXLVIII

DETTO DI FACINO CANE

Facino Cane, capitano de' Ghibellini, entrò in Pavia e, come era convenuto, saccheggiò soltanto i beni dei Guelfi. Quando questi furono finiti, cominciò le sue scorrerie anche nelle case dei Ghibellini. Andarono questi a lagnarsi di essere stati spogliati essendo della stessa fazione: «Voi dite la verità», disse Facino, «o figli miei, voi siete tutti Ghibellini, ma i beni sono Guelfi». In questo modo, senza far differenza tra le fazioni, tutti i beni furono tolti.

CXLIX

DI UN GIOVANE INESPERTO CHE NON SI SERVI' DELLA
MOGLIE LA PRIMA NOTTE

Un giovane bolognese, senza ingegno e sciocco, prese per moglie una giovinetta bellissima. E la prima notte, ignaro della cosa, poiché non aveva mai avuto alcuna donna, non seppe consumare il matrimonio. Alla mattina dopo, interrogato da un amico del come le cose della notte fossero andate: «Male», rispose, «perché, dopo aver lunga

mente cercato di far la cosa con mia moglie, holla io trovata senza il taglio che le donne, dicono, hanno comunemente». E allora l'amico, conosciuta l'imbecillità dell'altro: «Taci», gli disse; «ti scongiuro di non farne parola, perché è cosa di grande pudore e di grave pericolo se si viene a sapere». Ed avendo quegli richiestolo di consiglio e di aiuto: «Io», rispose, «farò la fatica per te, e se mi paghi una cena sontuosa, ti farò quel taglio; ma per far questo ho bisogno di otto giorni di tempo, perché la è cosa assai difficile a farsi». E lo stolto acconsentì, e di nascosto lo pose quella notte nel letto colla moglie, ed egli in altro letto solo andò a coricarsi. Dopo gli otto giorni, essendo per opera dell'amico molto larga la via, da non lasciar più alcun timore, chiamò questi il marito, e gli disse che per amor suo aveva egli molto e lungamente faticato e che finalmente aveva finito di fare quel taglio che egli voleva. La fanciulla, essa pure istruita molto, si compiacque col marito del lavoro dell'amico. E lo stolto, quando trovò la moglie forata, tutto lieto ringraziò l'amico e gli pagò la cena.

CL

DELLA MOGLIE DI UN PASTORE CHE EBBE UN FIGLIO
DA UN PRETE

Un pastore di Rivo, borgo nevoso di montagna, aveva la moglie che giaceva spesso col prete e concepì da questo un fanciullo, che nacque e crebbe in casa del pastore. Quando questo ebbe sette anni, il prete con molta dolcezza disse al pastore che il fanciullo era suo, e che volevalo, giunto com'era a sett'anni, condurre in casa sua: «Questo non potrà mai essere», disse il pastore, «il fanciullo è mio perché è nato in casa; perché, soggiunse poi, «sarebbe un brutto affare per me per il mio padrone se tutti gli agnelli che nascono dalle mie pecore coperte dai maschi degli altri dovessero essere del padrone dei maschi».

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