Poggio Bracciolini
Un cittadino di Firenze, che era stato fuori di paese, quando
dopo un anno tornò a casa sua, trovò sua moglie
che stava per partorire, ed ei male sopportava questa cosa, poiché
temeva che sua moglie non gli si fosse serbata fedele. Ed essendo
egli nel dubbio, andò per consiglio da una nobile signora
che abitava lì presso, e ch'era donna molto ingegnosa,
e le richiese se egli avesse potuto aver un figlio dopo dodici
mesi. Ed ella, conosciuta la dappocaggine dell'uomo, rispose per
consolarlo: «Certamente, che se la moglie tua, quel giorno
in cui concepì, vide un asino, secondo il costume di questi
animali partorirà dopo un anno». E l'uomo si chetò
alle parole della signora, e ringraziando Dio che toglieva a lui
un forte sospetto e risparmiava a sua moglie un grave scandalo,
tenne per suo il fanciullo che nacque.
Fuori della porta di Perugia evvi la Chiesa di San Marco, e in
un giorno di festa, in cui tutto il popolo era convenuto in essa,
Cicero, che n'era il pievano, nella predica ch'ei faceva secondo
il costume, concluse con queste parole: «Fratelli, io desidero
che voi mi togliate da un grave dubbio. Quando io in quest'ultima
quaresima ho udito la confessione delle vostre mogli, non ho trovata
alcuna che non affermasse di aver mantenuta intatta la fede al
marito. Voi invece avete quasi tutti confessato che vi siete serviti
delle mogli degli altri. Ora, per non rimanere io in tal dubbio,
desidero sapere da voi, chi e dove sieno queste donne».
Nel tempo in cui i Fiorentini avevano guerra col Pontefice Gregorio,
i Perugini, che avevano abbandonato il Papa, mandarono legati
a Firenze a chiedere aiuto; uno di costoro, che era un dottore,
uscì con un lungo discorso, e alle prime parole, come proemio,
disse: «Dateci del vostro olio». Un uomo allegro, che
detestava quei magniloquenti discorsi, lo interruppe: «Di
quale olio intendi tu dire? Veniamo a domandare soldati e tu dimandi
l'olio? Ti sei forse dimenticato che armi e non olio noi veniamo
a richiedere?» E poiché quegli rispose che erano parole
della Santa Scrittura: «Bella cosa!», rispose l'altro,
«noi siamo nemici della Chiesa e tu invochi la Santa Scrittura!».
Risero tutti della facezia di quell'uomo, che con le dette parole
si burlò della soverchia prolissità del discorso
del dottore e poté così venire all'argomento.
Anche ad Urbano V Papa, che era in Avignone, quei di Perugia mandarono
tre ambasciatori; e quando vi giunsero, il Pontefice trovavasi
gravemente malato; tuttavia, per non tenerli troppo tempo in pena,
li fece chiamare, pregandoli però, prima che cominciassero,
di parlar poco. Un dottore, che per via aveva mandato a memoria
una lunga orazione, che avrebbe poi recitata al Papa, non ebbe
riguardo alcuno che egli fosse malato e in letto, e si profuse
in molte parole, così che il Pontefice mostrò spesso
di avere a noia l'udirlo. Quando finalmente quell'ignorante ebbe
finito, Urbano, cortesemente, chiese agli altri che cosa volessero
ancora. Un altro degli ambasciatori, che aveva conosciuta la stoltezza
di quello che aveva parlato e la noia recata al Pontefice: «Beatissimo
Padre», disse, «abbiamo avuto mandato dai nostri cittadini,
che se voi non farete tutto ciò che potrete per quello
che vi chiediamo, prima di partire, questo compagno mio vi ripeta
ancora il suo sermone». Questa facezia fece sorridere il
Papa, il quale ordinò che avessero tosto quel che chiedevano.
I nostri inviati fiorentini che furono mandati in Francia, quando
giunsero a Milano andarono a visitare il duca Bernabò per
fargli onore. E come furono dinanzi a lui, interrogati chi fossero,
risposero: «Siamo cittadini e ambasciatori di Firenze, se
vi piace», come s'usa dire; ed egli li ricevette e poscia
li congedò. Solo quando giunsero a Vercelli, ripensando
a ciò che fino allora avevano fatto, tornarono in mente
le parole che avevano dette a Bernabò, e poiché
uno di loro disse che avergli detto se vi piace era mal
detto, perché s'anco non gli fosse piaciuto erano essi
e cittadini fiorentini e ambasciatori, così tutti vennero
in questo parere e conclusero d'aver avuto torto e di non essere
in quel modo stati dignitosi. E di comune accordo tornarono a
Milano per ritrattar quelle parole e andarono dal Duca. Là,
quello di loro che era più vecchio e pareva più
dotto: «Duca», disse, «noi eravamo a Vercelli quando
pensammo di averti detto che eravamo cittadini ed ambasciatori
fiorentini se ti piace; e questo dicemmo da sciocchi e da ignoranti,
perché, piacciati o dispiacciati, noi siamo fiorentini,
cittadini e ambasciatori». Il Duca, che era uomo molto severo
rise della stolta cura di costoro e disse loro ch'egli aveva piacere,
perché essi erano appunto ciò che e' li credeva.
Gian Pietro, cittadino di Siena, uomo gioviale e faceto, venne
una volta in Roma invitato a bere da Bartolommeo de' Bardi; eravamo
là in molti, e si scherzava su l'uomo e si beveva, e mentre,
com'è d'uso, avevamo tutti, prima di bere, mangiato un
boccone di pane, egli solo teneva il pane in mano. Gli chiedemmo
perché non mangiasse, ed egli, ridendo, rispose: «Il
tuo pane, Bartolommeo, è riverente ed educato; per quanto
l'abbia io molte volte avvicinato alla bocca, egli a niun patto
vuol entrar prima del vino». Ridemmo tutti del detto faceto
di costui, che credeva che il cibo non dovesse andar sempre innanzi
alla bevanda, specialmente quando si ha sete.
Un tale lamentavasi con la moglie, alla quale aveva comprata una
veste di gran prezzo, perché egli non si serviva del matrimonio
che non gli costasse un ducato almeno. E la moglie a lui: «Questo»,
disse, «avviene per colpa tua. O perché non te ne
servi tanto spesso che non ti venga a costar più di un
soldo ?».
Il cardinale di Bordeaux mi narrò una volta che un certo
suo concittadino, una sera, quando tornò a casa, prese
a gemere lamentevolmente per un forte dolore ad una gamba. La
moglie gli unse ripetute volte la gamba, vi pose sopra lana e
stoppa e tutta la recinse con una fascia di tela. Ma l'uomo continuò
a lamentarsi del dolore e chiese gemendo il medico; e questi venne,
e a poco a poco, dolcemente, per causa del gran dolore che gli
faceva, sfasciò la gamba, e la palpò; e nulla avendo
trovato di male: «È adunque a questa», disse
l'uomo (e gli porse l'altra gamba), «che io sento dolore
?». Bellissima sciocchezza questa d'un uomo che voleva sapere
dal medico dove sentisse il male.
Una volta in compagnia un amico nostro narrò che in sogno
aveva trovato dell'oro. E allora uno disse: «Guarda che non
ti accada come al mio vicino, cui l'oro si cambiò in lordura».
E perché noi gli chiedemmo di narrare il sogno: «Un
mio vicino», disse, «sognò di essere condotto
dal demonio in un campo a disseppellire dell'oro, e ne trovò
molto; e il demonio allora gli disse: Tu non puoi ora portarlo
teco, ma fa' un segno sul luogo, perché tu solo possa conoscerlo.
E avendo l'altro chiesto di che segno doveva servirsi: Falla qui,
disse il diavolo, chè appunto in questo modo nessuno crederà
che qui sia l'oro e tu solo conosci la cosa. L'uomo acconsenti
e svegliatosi incontanente sentì d'aver sgombrato il ventre
nel letto; sorse fra il puzzo e la poltiglia, e per uscir di casa
mise in testa un cappuccio, entro il quale il gatto quella notte
aveva fatta la sua. Pien di schifo per l'iniquo tanfo, dové
lavarsi la testa e i capelli. Così un sogno d'oro s'era
mutato in merda».
Pier de le Vigne, uomo saggio e dotto, fu segretario di Federico
imperatore, il quale, essendo nemico di Alessandro III Papa, e
avendo portata la guerra nei dominii della Chiesa, fece accecare
Pietro, che era italiano, per invidia che fra i barbari si era
mossa contro di questo. Poi pentito, perché aveva fatta
cattiva azione, lo chiamò nel suo consiglio segreto. Una
volta che l'imperatore trovavasi in grave mancanza di denaro,
Pietro lo consigliò di servirsi, nella guerra colla Chiesa,
delle forze di questa, di prendere e fondere, per continuar la
guerra, gli ornamenti d'oro e d'argento delle chiese, fra i quali
erano in quel tempo memorabili (erano allora a Pisa) le catene
che erano d'intorno alla cattedrale. Piacque il consiglio a Federico,
ed arricchì l'esercito con le spoglie della Chiesa, e allora
Pietro gli disse: «Imperatore, io mi sono vendicato finalmente
della pena che tu mi hai ingiustamente inflitto. Tu ti sei già
acquistato l'odio degli uomini; io ti ho fatto per causa del sacrilegio
nemico di Dio; d'ora innanzi tutte le cose tue andranno a male».
Dopo però fu Federico vincitore; ma poi Alessandro schiacciò
l'orgoglio dell'Imperatore; e, con quel detto, Pier de le Vigne
dimostrò che le cose sacre non possono portarsi ad uso
profano; e chi io fa è punito da Dio.
Venivano due giudei da Venezia, dove abitavano, a Bologna, e accadde
che uno di essi colpito da malattia morisse in viaggio; l'altro
desiderava di trasportarne il cadavere a Venezia, e poiché
ciò non potea farsi palesemente, così, tagliatolo
in minuti pezzi, lo pose in un piccolo barile, mescolandolo con
diversi aromi e con miele, tanto che usciva meravigliosamente
un soave odore dal barile, e questo raccomandò ad un altro
ebreo che andava a Venezia. Costui portò seco il barile
sulla barca per il canale di Ferrara, ed essendo sulla barca in
molti, accadde che un Fiorentino si mettesse a sedere vicino al
barile. Quando venne la notte, attratto dall'odore, e sospettando
che dentro si contenessero cose buone a mangiare, tolse di nascosto
il coperchio e prese a gustare ciò che dentro vi era; e
poiché gli parve che questo fosse un cibo molto saporito,
così quella notte a poco a poco quasi tutto lo vuotò,
credendo di aver mangiato buona cosa. Quando a Ferrara l'ebreo
fu per uscir dalla nave e prese il barile, sentì dalla
leggerezza del peso che esso era vuoto; e mentre e' da una parte
si lagnava che gli avean rubato il cadavere, il Fiorentino dall'altra
sentiva che egli stesso era il sepolcro del giudeo.
Francesco Filelfo, geloso della moglie, viveva in continua pena
che ella non avesse con qualche altro a fare, ed era giorno e
notte intento a vigilarla. Una notte che e' dormiva, in sogno,
poiché avviene spesso che ci tornino nei sogni le cose
che desti abbiam per la mente, vide un demonio che gli promise
che avrebbe la donna sicura, se facesse ciò che egli avrebbe
detto di fare. Ed avendo egli nel sonno annuito, dicendo di esserne
assai grato e promettendone premio, il diavolo gli disse: «Prendi
questo anello e tienlo sempre diligentemente in dito; poiché,
mentre l'avrai, non potrà la tua moglie, senza che tu lo
sappia, con altro uomo giacere». Tolto improvvisamente per
la gioia dal sonno, sentì d'avere il dito nella cosa della
moglie. E quello è davvero il migliore rimedio pe' gelosi,
perché le donne non possano mai, alle spalle de' mariti,
essere infedeli.
Un famoso bevitore di vino fu preso dalla febbre, per la quale
gli si aumentò la sete; vennero i medici e discutevano
sul modo di toglier la febbre e la straordinaria sete: «Solo
della febbre», disse il malato, «voglio che voi vi occupiate,
ché quanto a curar la sete, quello è affar mio».
Un dì che il cardinale de' Conti, uomo grasso e corporuto,
era andato alla caccia, quando fu verso mezzogiorno si sentì
fame e discese per pranzare. Era d'estate, e tutto sudato si pose
a mangiare, e poiché i servi erano lontani occupati in
varie faccende, così egli comandò a un certo Everardo
Lupi, segretario apostolico, di fargli vento. Questi gli disse:
«Non so io come voi vogliate»; e il Cardinale: «Fa'
come tu vuoi». E l'altro: «Con molto piacere, per bacco!»
ed alzata la gamba destra, ruppe in grandissimo crepito, dicendo
che in quel modo soltanto era egli solito di far vento. Questa
cosa fece ridere moltissimo coloro che erano presenti ed erano
in grande numero.
Collo stesso strumento il cardinale di Tricario rispose agli avvertimenti
di Alto de' Conti. Era il cardinale di vita assai dissoluta, e
un giorno alla caccia Alto lo ammoniva con lungo sermone a darsi
a vita migliore; il cardinale, udite le parole di Alto, fissò
questo per un poco in volto; poi, piegata la testa sul cavallo,
alzò il deretano e diede un gran suono dicendo: «Alla
tua faccia». E dopo questa unica risposta se ne andò,
mostrando così in che stima avesse quegli avvertimenti.
Una donna, che per malattia della pelle s'era fatta radere il capo, un giorno venne chiamata fuori da una vicina per certa faccenda, ed uscì di casa dimenticando nella fretta di coprirsi il capo. Quando l'altra donna la vide in quel modo, la rimproverò d'esser venuta sulla via col capo nudo e così brutto; ed ella, per coprirsi il capo, sollevando le vesti di dietro, scoprì il deretano. Tutti quelli che videro risero di ciò che aveva fatto la donna, che per piccola cagion di pudore maggior male aveva fatto.
Questo va detto di chi cerca di nascondere un piccolo delitto
con più grave scelleratezza.
Francesco di Ortano, cavaliere napoletano, che ebbe da re Ladislao il governo di Perugia, ricevette una volta lettere dalla moglie e da un mercante di Genova, al quale era debitore di denaro preso a mutuo. Quella della moglie lo esortava a tornare a casa, e gli ricordava ch'e' dovea compiere l'ufficio coniugale e la promessa di tornar presto e di mantenere la data fede; l'altra lo richiedeva della restituzione del denaro prestatogli. Rispose egli, com'era giusto, al mercante, che lo avrebbe quanto prima pagato, chiedendogli una breve dilazione; e scrisse alla moglie calmandone il desiderio con molte blandizie e promesse, dicendo che sarebbe tornato subito, che avrebbe fatto ogni cosa per risarcirla della lunga astinenza; e con la confidenza che aveva con la moglie si servì di parole un po' allegre, fra le quali vi erano queste aggiunte, che l'avrebbe contentata in molte maniere, e, per servirmi delle sue frasi, l'avrebbe in diversa guisa cavalcata. Nel sigillar le lettere mandò quella del mercante alla moglie, e quella di questa al mercante. Quando la moglie
ricevette la lettera, si meravigliò assai che e' non rispondesse
a ciò che gli aveva scritto. Ma il Genovese, quando lesse
la lettera che gli era pervenuta, e che conteneva cose liete o
da moglie, fra le quali principalmente che l'altro sarebbe tornato,
e con essa avrebbe molte volte ripetuto il giuoco, e altre cose
più oscene, credette che l'altro si prendesse beffa di
lui e andò dal Re a mostrargli la lettera, e lamentandosi
che invece del denaro che gli doveva gli prometteva di cavalcarlo
finché fosse stanco, aggiungendo che egli era stato cavalcato
abbastanza quel giorno che avevagli prestato il denaro. Tutti
presero a ridere, e risero anche di più quando fu conosciuto
l'error della lettera.
Uno del mio paese, di nome Dante, la cui moglie avea fama d'essere
poco onesta, era dagli amici molto spesso consigliato di togliere
dalla sua casa il disonore, e rimproverava acerbamente sua moglie;
ed ella con molte lacrime e con giuramenti protestava della sua
fedeltà. dicendo che quelle cose erano dette dagli invidiosi
della loro tranquillità. L'uomo fu persuaso da queste parole,
e, una volta che gli amici tornarono a consigliarlo di rimproverare
la moglie: «Ohè!», disse, «non mi annoiate
più con codeste parole! Forse che voi meglio di lei conoscete
i suoi peccati?». E tutti dissero che la moglie meglio li
conosceva. «Allora» soggiunse, «ella dice che voi
tutti mentite, e ad essa più che a tutti voi io presto
fede».
Pietro Masini, nostro concittadino, fu uomo molto mordace nel
discorso; e quando fu vecchio e presso a morte, nel testamento
che fece, nulla lasciò alla moglie fuori della dote; questa
mal sopportava la cosa, e lamentavasi che il marito la maltrattasse,
né le lasciasse alcuna cosa della sua sostanza, e chiedeva
con molto pianto che le fosse legato un qualche sussidio per la
vecchiaia: «Chiamate dunque», disse il moribondo, «il
notaio ed i testimoni, affinché io lasci qualche cosa alla
moglie». E questi vennero prontamente, ed essendo la moglie
presente, disse Pietro, rivolto ai testimoni: «Costei mi
annoia perché io le lasci qualche cosa, ed io per togliermi
il fastidio, chiamo voi che siete presenti ad attestare che io
le lascio la più fetente e più larga vagina che
vi sia in questa città». Detto questo, tutti se ne
andarono ridendo, e la donna rimase mesta e delusa della risposta
del marito.
Zuccaro, che fu il più gentile degli uomini, soleva narrare
di una donna non brutta e che era sua vicina, la quale, essendo
sterile, chiedeva spesso al prete, al quale essa si confessava,
se e' non sapesse di un qualche rimedio atto a far concepire i
figliuoli. Egli alla fine accondiscese e le disse di venire da
lui un giovedì, che era il giorno meglio adatto alla cosa;
quando il dì venne la donna desiderosa di figliuoli andò
alla abitazione del prete, che le disse: «Io mi servirò
di un incantesimo che fa sorgere molte e varie illusioni, in modo
che sembra che avvengano cose, che in realtà non avvengono.
Or dunque, perché la cosa riesca, occorre costanza e fermezza
d'animo. Vi sembrerà che io vi tocchi, ch'io vi baci e
vi abbracci, ch'io faccia ancora quelle altre cose che suol fare
vostro marito; tutto questo non è vero, ma così
pare per la efficacia delle parole che si devono dire, le quali
hanno appunto potenza di far parere vere cose che non lo sono».
Consentì la donna confidente alle parole del prete, e disse
che in niun conto avrebbe essa tenute queste stregherie. Il prete
fe' molti segni, disse all'aria molte parole, poi prese a baciar
la donna e la distese sul letto. E quando ella tremante gli chiese
che cosa facesse: «Non ve lo dissi poco fa», rispose
il compagnone, «che le cose che avreste vedute non sarebbero
state vere?» E così e' fece due volte il piacer suo
colla donna, sempre affermando che ciò non era. E così,
credendo di essere stata illusa da un incantesimo, la donna se
ne tornò a casa.
Eravi in Padova un eremita che aveva nome Ausimirio, al tempo
di Francesco, che fu il settimo duca di Padova; e sotto pretesto
di confessione, egli, che era in fama di uomo santo, ebbe molte
donne anche della nobiltà. Finalmente, poiché l'ipocrisia
non si può lungamente nascondere, si divulgò la
fama di queste scelleratezze, e preso dal Podestà, confessò
molte di quelle nefandità e fu condotto a Francesco. Questi
fe' venire un segretario, e per riderne, chiese all'eremita certe
notizie e i nomi delle donne che egli aveva avute. E il segretario
scriveva i nomi, molti dei quali erano di donne mogli a familiari
del Duca, e questo per averne poi causa di riso. Quando alla fine
parve che avesse il romito finito di nominare, il Duca chiese
se ve ne fossero ancora, egli costantemente negò; ma il
segretario lo redarguì più aspramente e lo minacciò
della tortura se non avesse detto ogni cosa. Allora l'eremita
sospirando: «Scrivete», gli disse, «anche la vostra
e mettete anche quella nel numero delle altre». Quando udì
ciò, cadde di mano, pel dolore, la penna al segretario;
e il Duca ne fece gran riso, dicendo che era giusto che quegli
che con tanto piacere aveva udita la sventura degli altri venisse
ad essere in loro compagnia.
A Firenze, una volta, mentre un giovane stava sulla noverca, sopravvenne
il padre e lo sorprese nel fatto con la moglie; la cosa nuova
ed indegna colpì costui, che prese con gran rumore a rimproverare
acerbamente il figliuolo, e questi balbettando cercava di scusarsi.
Era molto tempo ch'essi disputavano, quando, mosso dalle grida,
venne un vicino, ignaro della cosa, per comporre la contesa. E
quando e' chiese la ragione del litigio, essi per pudor della
cosa tacevano; finalmente, poiché il vicino più
fortemente insisteva, e il padre dava la colpa al figlio, questi
per primo prese a dire: «Costui, che è mio padre,
oltre misura indiscreto, ebbe mille volte mia madre ed io nulla
dissi; ora, perché io ho avuto per una volta sola sua moglie,
per la mia sconsideratezza riempie la casa di grida come un matto».
Rise colui della faceta risposta del figlio e condusse seco il
padre, cui cercò, come gli fu possibile, di consolare.
Certi frati dell'ordine de' Minori chiamarono un pittore perché
dipingesse loro l'immagine di San Francesco; ma erano fra loro
discordi, perché alcuni lo volevan colle stimmate, altri
in atto di predicar al popolo, altri in diversa guisa. Passarono
tutto un giorno a disputar della cosa e alla sera andarono a dormire,
lasciando il pittore senza aver nulla deciso; e il pittore, conosciuta
la stoltezza dei frati, vedendosi beffato, lo dipinse in atto
di sonare il flauto, altri dicono impiccato pel collo. Veduta
la figura, i frati cercarono dappertutto il pittore per fargli
del male, credendo essi che egli avesse fatto gravissimo oltraggio
alla religione e meritasse la maggior pena; ma egli si era raccomandato
alle gambe.
È costume nel regno d'Ungheria, che, dopo la messa, coloro
che sono in chiesa e che han male agli occhi, s'avvicinino all'altare
e si faccian bagnar gli occhi dal prete con acqua versata nel
calice; nello stesso tempo il sacerdote pronunzia alcune parole
dei sacri libri, con le quali egli prega la sanità. Andò
una volta in Ungheria un prete di Firenze con Filippo detto lo
Spagnolo; e avendo una volta detta la messa alla presenza del
re Sigismondo, quando ebbe finito, vide avvicinarglisi molti malati
agli occhi, perché questi egli bagnasse loro coll'acqua
del calice. Ed egli, credendo che il male fosse loro venuto per
la crapula e il troppo bere, prese il calice, come aveva visto
che gli altri facevano, e li asperse, dicendo in italiano: «Andatevene,
che siate morti a ghiado». Ciò udì il Re ed
Imperatore, e non poté trattenere il riso; e a tavola il
dì dopo riportò, per riderne, le parole del prete,
che mossero il riso a tutti e l'ira a coloro che avean gli occhi
malati.
Uno de' nostri villani fu una volta interrogato dal padrone in
qual tempo avessero essi maggior lavoro ne' campi. «In maggio»,
rispose. E poiché egli glie ne chiedeva la ragione, perché
ciò pareva strano in quanto sembra che in quel mese riposino
i lavori della campagna: «perché», disse, «è
in quel mese che noi dobbiamo coprire e le nostre e le vostre
donne».
Un Romano, che noi abbiamo conosciuto, montò una volta
su di un muricciuolo che era in un canneto, e, come se si trovasse
dinanzi al popolo, prese a parlare alle canne, intrattenendole
sulle cose della città. Mentre parlava, per un po' di vento
che s'era mosso, le canne piegavano le cime; e quell'uomo sciocco
che fingeva a se stesso che quelle canne fossero uomini, come
se esse lo ringraziassero del discorso: «Non abbiate tanto
rispetto», disse, «o signori Romani, per me che sono
l'ultimo di voi». E questa frase venne poscia in proverbio.
Era costume una volta, in un borgo del Piacentino, che, quando
alcuno all'inverno ammazzava il maiale, invitasse i vicini a cena.
Un tale, al fine di evitar quella spesa, consultò un compare.
E questo gli disse: «Di', domani, che questa notte t'han
rubato il porco». E quella notte, di fatti, mentre l'altro
non sospettava d'alcuna cosa, gli rubò il porco. Alla mattina,
quando vide che gli mancava la bestia, andò dal compare
amentando con alte grida che glielo avessero rubato. E l'altro:
«Tu dici bene, compare; è così che io ti ho
insegnato di dire». E per quanto l'altro ripetute volte e
per tutti gli Dei giurasse che quel che diceva era vero: «Fai
bene», l'altro diceva, «era secondo il consiglio che
ti diedi». E siccome l'altro ripeteva il giuramento: «Io
ti dissi prima che tu dovevi parare di questa guisa; ed io ti
diedi buon consiglio». Finalmente il pover'uomo se ne andò
deluso.
Facino Cane, capitano de' Ghibellini, entrò in Pavia e,
come era convenuto, saccheggiò soltanto i beni dei Guelfi.
Quando questi furono finiti, cominciò le sue scorrerie
anche nelle case dei Ghibellini. Andarono questi a lagnarsi di
essere stati spogliati essendo della stessa fazione: «Voi
dite la verità», disse Facino, «o figli miei,
voi siete tutti Ghibellini, ma i beni sono Guelfi». In questo
modo, senza far differenza tra le fazioni, tutti i beni furono
tolti.
Un giovane bolognese, senza ingegno e sciocco, prese per moglie una giovinetta bellissima. E la prima notte, ignaro della cosa, poiché non aveva mai avuto alcuna donna, non seppe consumare il matrimonio. Alla mattina dopo, interrogato da un amico del come le cose della notte fossero andate: «Male», rispose, «perché, dopo aver lunga
mente cercato di far la cosa con mia moglie, holla io trovata
senza il taglio che le donne, dicono, hanno comunemente».
E allora l'amico, conosciuta l'imbecillità dell'altro:
«Taci», gli disse; «ti scongiuro di non farne parola,
perché è cosa di grande pudore e di grave pericolo
se si viene a sapere». Ed avendo quegli richiestolo di consiglio
e di aiuto: «Io», rispose, «farò la fatica
per te, e se mi paghi una cena sontuosa, ti farò quel taglio;
ma per far questo ho bisogno di otto giorni di tempo, perché
la è cosa assai difficile a farsi». E lo stolto acconsentì,
e di nascosto lo pose quella notte nel letto colla moglie, ed
egli in altro letto solo andò a coricarsi. Dopo gli otto
giorni, essendo per opera dell'amico molto larga la via, da non
lasciar più alcun timore, chiamò questi il marito,
e gli disse che per amor suo aveva egli molto e lungamente faticato
e che finalmente aveva finito di fare quel taglio che egli voleva.
La fanciulla, essa pure istruita molto, si compiacque col marito
del lavoro dell'amico. E lo stolto, quando trovò la moglie
forata, tutto lieto ringraziò l'amico e gli pagò
la cena.
Un pastore di Rivo, borgo nevoso di montagna, aveva la moglie
che giaceva spesso col prete e concepì da questo un fanciullo,
che nacque e crebbe in casa del pastore. Quando questo ebbe sette
anni, il prete con molta dolcezza disse al pastore che il fanciullo
era suo, e che volevalo, giunto com'era a sett'anni, condurre
in casa sua: «Questo non potrà mai essere», disse
il pastore, «il fanciullo è mio perché è
nato in casa; perché, soggiunse poi, «sarebbe un brutto
affare per me per il mio padrone se tutti gli agnelli che nascono
dalle mie pecore coperte dai maschi degli altri dovessero essere
del padrone dei maschi».
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