Poggio Bracciolini
Giovanni Andrea, dottore Bolognese, uomo di molta fama, fu una
volta sorpreso dalla moglie mentre cavalcava su di una donna di
casa. Meravigliata la donna del fatto strano, voltasi verso il
marito: «Ma Giovanni», disse, «dov'è dunque
la vostra sapienza?». Ed egli, senza turbarsi: «In questo
buco», rispose, «che è un luogo assai adatto
per essa».
Un Romano, che era uomo molto arguto, mi raccontò una storia
molto amena, che era avvenuta ad una sua vicina: «Un frate»,
disse, «dell'ordine dei Minori, che aveva nome Lorenzo, aveva
posti gli occhi su di una bella giovine che era moglie di un vicino
mio (e ne fece il nome). E volendo andar più oltre, chiese
al marito di essere padrino del primo figlio che gli sarebbe nato;
e il frate, che osservava di continuo la giovine, s'accorse ch'ella
era gravida, e alla presenza del marito, come se fosse un indovino,
disse e che essa era gravida e che partorendo avrebbe avuto grande
mestizia. E la donna, credendo che egli parlasse di una femmina
che doveva nascere: «Anche se fosse una femmina», disse,
«io l'avrei graditissima». Ma il frate disse che era
cosa più grave, tutto afflitto nel viso, e fece nascere
nella donna il desiderio di sapere che cosa fosse; ma quanta maggiore
insistenza poneva ella a chiedergli ciò che sarebbe avvenuto,
altrettanta ostinazione egli metteva a non dirlo. Finalmente,
desiderosa di sapere qual male le sovrastasse, la donna, di nascosto
del marito, chiamò il frate e con molte preghiere lo scongiurò
a dirle che mostro avrebbe ella dato alla luce; ed egli, sempre
dicendo che su questo conveniva mantener il silenzio, finalmente
le confessò che avrebbe partorito un maschio, ma senza
naso, cosa che è la più deforme nella faccia di
un uomo. Spaventata la giovine e richiestolo di un rimedio, annuì
il frate, ma le disse era d'uopo stabilire un giorno nel quale
egli, per supplire alla mancanza del marito, avrebbe aggiunto
il naso al bambino. E per quanto questa paresse dura cosa alla
moglie' tuttavia, perché il figlio non nascesse imperfetto,
si dié al frate; ed egli, dicendo che il naso non era ancora
ben formato, fu spesso con la donna, e le ingiungeva di muoversi
perché coll'attrito meglio si attaccasse. Finalmente nacque
un maschio e per caso aveva un naso voluminoso; e alla donna,
che se ne meravigliava, il frate disse che per far quel membro
aveva lavorato troppo; e questo narrò al marito, dicendogli
che aveva stimata oscena cosa se il fanciullo fosse nato senza
naso e il marito la lodò e non disprezzò l'opera
del compare».
Eravi a Firenze un tale talmente abituato alla menzogna che mai
dalla sua bocca usciva la verità. Uno che andava spesso
seco e si era avvezzo a tutte quelle bugie, una volta che incontrò
il bugiardo, prima che questo aprisse bocca: «Tu menti»
gli disse. «Come mento», rispose l'altro, «se non
ho detto alcuna cosa?». «Intendevo di dire», aggiunse
il primo, «se tu avessi parlato».
Un tale di Gubbio che aveva nome Giovanni, ed era uomo molto geloso,
non sapeva trovar certo modo per conoscere se sua moglie avesse
avuto relazioni con altri. E il geloso pensò ad una furberia
degna di se stesso, e si castrò, con questo scopo, che,
se sua moglie si fosse poi incinta, egli sarebbe stato sicuro
del suo adulterio.
Un giorno di festa, all'offertorio, un prete di Firenze riceveva
i doni che i fedeli sogliono fare; e, come e costume, a chi offriva
diceva parole: «Avrete per uno cento e possederete la vita
eterna». Un vecchio nobile, che dava un soldo, udite queste
parole: «Sarei contento», disse, «se mi si rendesse
soltanto il capitale».
Nello stesso modo, un sacerdote che predicava a' suoi parrocchiani
l'Evangelo, narrava come il nostro Salvatore con cinque pani sfamò
cinque mila uomini; e in luogo di cinque mila disse cinquecento.
II chierico piano gli disse che aveva sbagliato nel numero, perché
di cinquemila parla il Vangelo. «Taci, sciocco», gli
disse il prete, «che dureranno fatica credere a cinquecento
soli».
Mi piace di raccontare tra queste facezie anche la mordace risposta
del Cardinale d'Avignone, che era uomo di molta prudenza. Quando
i Pontefici furono in Avignone, faceansi precedere da molti cavalli
riccamente bardati e senza cavalieri per maggior pompa; e il Re
di Francia, sdegnato della cosa, gli chiese un giorno se gli Apostoli
avessero mostrato tanto splendore; e il Cardinale rispose: «Giammai,
ma gli Apostoli vissero in un tempo nel quale anche i Re avevano
altri costumi, poiché erano pastori e custodi di armenti».
Non per scherzare, ma per far sentire spavento delle scelleratezze,
si racconta questa storia mostruosa. In questa quaresima un frate
dell'ordine degli Agostiniani predicava al popolo (ed io era presente)
e lo esortava alla confessione dei peccati, e narrava il seguente
miracolo che gli era avvenuto sei anni prima. Una volta erasi
alzato con gli altri a mezzanotte per cantar mattutino in San
Giovanni Laterano, e udirono una voce uscire da un sepolcro, dove
era stato deposto diciotto dì prima un cittadino romano;
e lo udirono più volte; spaventati alla prima, poco per
volta si riebbero, poiché il morto diceva che di nulla
temessero, che portassero il calice e togliessero la pietra. E
fatto ciò, il morto sorse e sputò nel calice l'ostia
consacrata che aveva ricevuto prima della morte; disse che era
dannato ed afflitto dalle più atroci pene, perché
aveva avuta la madre e la figlia e non se ne era mai confessato;
e detto ciò, il cadavere ricadde.
Un frate che predicava spesso al popolo, aveva, come è
degli sciocchi, uso di gridar molto, e una delle donne che eran
presenti piangeva con così alti gemiti che parean muggiti.
S'accorse più volte di questa cosa il frate, e credendo
che la donna fosse commossa dalle sue parole, dall'amor di Dio
e dalla coscienza, la chiamò a sé e la richiese
della ragione di quei gemiti, e, se erano le sue parole che le
avevano agitato lo spirito, le disse che spargesse pure quel pianto
che era cosa pia. E la donna rispose che per il suo vociare e
per le sue grida era commossa e dolente; che era vedova e il suo
povero marito le aveva lasciato un asino dal quale traeva di che
vivere; e che quest'asino spesso soleva, di giorno e di notte,
ragliare come il frate faceva; e l'asino era morto e l'aveva lasciata
senza pace; e quando udiva le grandi grida del predicatore, simili
alla voce dell'asino suo, gli tornava questo in memoria, anche
senza volerlo, sì che era costretta a piangere. E così
quello sciocco, più che predicante, latrante, se ne andò
confuso della sua stoltezza.
Un Fiorentino, già vecchio, condusse in moglie una giovine,
che aveva appreso dalle matrone a resistere la notte alle prime
violenze del marito, ed a non cedere la fortezza al primo assalto.
E rifiutò. E l'uomo, che a navigar per quel mare aveva
spiegate tutte le vele, quando la vide così ritrosa, le
chiese del perché non fosse docile seco. E la vergine disse
che ciò era dolor di capo, e l'uomo, ritirati gli ordegni,
si volse sull'altro lato e dormì fino all'alba. La ragazza,
quando s'accorse che ei non la cercava, dolente del consiglio
che le avevano dato, destò il marito e gli disse che il
capo più non le doleva. Ed egli: «Ora mi duole la
coda», rispose, e lasciò la moglie vergine com'era.
Perché è ben fatto ricevere le cose buone tosto
che vengono offerte.
Un fatto molto ameno, e che trova luogo fra queste storielle,
avvenne tempo fa ad Amalia. Una donna maritata, mossa, come credo,
da ragione di bene, andò a confessare i suoi peccati ad
un frate dell'ordine dei Minori. Costui, parlando, mosso dal desiderio,
fece tanto con la donna, che finalmente la trasse alla sua voglia
e insieme cercarono il modo di far la cosa; e si combinò
fra di loro che la donna si sarebbe finta malata ed avrebbe a
sé chiamato il confessore; con questi è costume
lasciar solo il malato, che così più liberamente
apregli l'anima sua. E la donna finse una malattia, si mise a
letto, simulando un grave dolore, e chiese del confessore, il
quale, essendosi tutti gli altri ritirati, rimase con lei e giocò
seco più volte. Ed essendo stati molto tempo insieme, entrò
alcuno nella stanza, e il frate se ne andò, dicendo che
il dì dopo sarebbe tornato a ricevere la fine della confessione.
Tornò, e levatesi le brache e postele su1 letto della donna,
continuò la confessione nello stesso modo del dì
prima. I1 marito, che di nulla sospettava, meravigliato della
lunghezza di quel sacramento, entrò nella stanza, e il
frate, sorpreso da quella venuta, se ne andò dimenticando
le brache; e il marito, vistele, gridò che quello non era
un frate, ma un adultero, e andò al priore del convento,
protestando, lamentandosi del fatto indegno e minacciando di morte
il reo. I1 priore, che era vecchio, calmò l'ira dell'uomo,
dicendo che quelle grida tornavano anche a disonore della sua
famiglia; che era meglio metter tutto in silenzio e coprire la
cosa. E il marito disse che essa era manifesta per modo delle
brache e che non si poteva nascondere; e il vecchio trovò
rimedio anche a questo; disse che quelle poteano passare per le
brache di San Francesco, che, per guarire la moglie, quel frate
aveva portate; che egli verrebbe con pompa e processione a riprenderle.
Così fu convenuto, e il Priore convocò i frati,
e vestiti degli indumenti sacri, colla croce in testa, si recarono
alla casa di quell'uomo, presero divotamente le brache, e come
se fossero sante reliquie le recarono su un cuscino di seta, e
le fecero baciare al marito, alla moglie e a tutti quelli che
incontrarono per la via, e con gran canti e cerimonie le portarono
al convento e le collocarono nel Santuario fra le altre reliquie.
Ma poi l'affare fu scoperto e vennero a Roma inviati di quella
città a chieder ragione dell'ingiuria.
Andai, di recente, a Tivoli, per vedere i figliuoli che io avevo colà mandati dalla città per causa della peste, e udii là narrare una cosa che non è indegna di riso e di esser messa fra queste fiabe. Pochi giorni prima, un frate, di quelli che vanno attorno (si cominciava già a temere della peste) prometteva di dare un di quei che chiamano brevi da portare al collo, e chi l'aveva non sarebbe morto di peste. Quella sciocca plebe, mossa da questa speranza, spesero i danari che avevano a comprare i brevi e se li attaccarono al collo con un filo. I1 frate aveva prescritto di non aprire il breve che dopo quindici giorni; se l'avessero fatto prima, avrebbe perduta la sua virtù; e dopo aver fatti molti denari, se ne andò. I brevi poi furono letti, per desiderio che gli uomini hanno di conoscere le cose celate; ed in essi era scritto in volgare:
Questo supera tutte le prescrizioni dei medici e tutte le medicine.
Angelotto Romano, uomo loquace e mordace, non la perdonava ad
alcuno. Quando per colpa dei tempi, per non dire per la stoltezza
degli uomini, egli fu fatto Cardinale, una volta, come è
costume, nel concistoro segreto dei cardinali tacque; e volgarmente
si dice che i nuovi Cardinali hanno chiusa la bocca fino a che
il Papa, dando loro permesso di parlare, glie la apra. Un giorno
chiesi al Cardinale di San Marcello che cosa avessero fatto nel
Concistoro: «Abbiamo» rispose, «aperta la bocca
ad Angelotto». «Oh», risposi, «era assai meglio
chiudergliela con un forte catenaccio».
A Ridolfo di Camerino, del quale abbiamo più sopra detto,
fu chiesto una volta da un nobile Piacentino un cavallo in dono,
che doveva riunire tante buone qualità e tanta bellezza,
da non potersene trovar uno sì fatto nelle stalle del principe.
E Ridolfo, perché quell'altro fosse contento, gli mandò
una cavalla ed uno stallone de' suoi, aggiungendovi che gli spediva
quegli ordegni perché potesse con essi fare un cavallo
a suo modo, perché come egli lo aveva richiesto non l'aveva.
Queste parole insegnano a non chieder cose così squisite,
che o siano troppo difficili, o si possono onestamente negare.
Una donna di Roma, che io conobbi, che guadagnava la vita col
suo corpo, aveva una figlia maggiore molto bella, che aveva dedicata
a Venere. Sorta una volta contesa fra lei e una vicina che facea
lo stesso mestiere, vennero a ingiurie e contumelie di ogni maniera.
E avendo la vicina minacciata la madre e la figlia, parlando di
non so quale alta protezione, quella, toccando la figliuola sotto
il ventre: «Che Iddio», disse, «salvi e custodisca
questa e me; che io disprezzerò le tue parole e le tue
minacce». E rispose bene; perché si confidava ad un
ottimo patrocinio, nel quale molti avevano diletto.
Un prete era di gran giorno in letto con la moglie di un villano,
e questo era nascosto sotto per sorprenderlo. Forse pel troppo
lavoro, come caduto in delirio, e non sapendo del villano che
era nascosto sotto il letto, saltò su il prete a dire:
«Oh! si dispiega sotto i miei occhi tutto quanto il mondo».
E il villano che il dì prima aveva perduto l'asino: «Ehi,
vi prego», disse, «guardate se in qualche parte non
vedeste l'asino mio».
Quando io era in Inghilterra, accadde ad un tintore una cosa molto
da ridere e che merita di trovar luogo qui. Questi aveva moglie
e in casa aveva molti garzoni e serve, e sopra una di costoro
gittò gli occhi che più delle altre pareva bella;
egli più volte le chiese di venir seco, ed essa alla padrona
riferì ogni cosa, e per consiglio di questa accondiscese.
Nel giorno e nell'ora stabiliti la padrona andò invece
dell'ancella nel luogo segreto ed oscuro; e l'uomo venne e compì
l'opera sua, non dubitando ch'ella fosse la moglie; e quando ebbe
finito ed uscì, narrò la cosa ad uno de' suoi giovini
dicendogli, che se voleva, poteva anch'egli servirsi della ragazza.
E quegli vi andò, e la moglie che lo credette il marito
lo prese senza dir verbo; e dopo quello andò un terzo,
e la donna, sempre credendo che fosse il marito, si assoggettò
per la terza volta al sacrifizio. Quando finalmente poté,
uscì la donna di nascosto dal luogo e alla notte rimproverò
il marito, che verso di lei si mostrava così tranquillo
e colla serva tanto acceso da ripetere per tre volte
un giorno seco la stessa cosa. E il marito fe' finta di non saperne
e del suo errore e del peccato della moglie, del quale egli era
stato la causa.
Un tale, che non aveva risparmiato né anche il pudore di
sua sorella, venne a Roma per confessar quel peccato e cercò
un confessore toscano. E quando glie ne indicarono uno, egli vi
andò chiedendo prima di tutto se egli fosse toscano. E
quegli rispose che era, e l'altro incominciò la confessione,
e fra le altre scelleratezze narrò che un giorno, essendo
nella stanza di sua sorella e aveva l'arco pronto, le scoccò
una freccia; e il confessore: «Scellerato!», esclamò,
«forse hai uccisa la sorella?». «No», rispose
l'altro, «ma voi non capite il toscano». «Lo comprendo
benissimo, se son nato in Toscana, ora tu mi dici che tesa la
balestra saettasti tua sorella». «Non intendo in questo
modo», soggiunse, «ma che avevo l'arco teso, che vi
posi una freccia e che colpii la sorella». E il confessore:
«E la feristi o nella faccia o in altra parte del corpo».
«Oh!» rispose il penitente, «voi non sapete parlar
toscano». «Ma se ho capito le tue parole»»,
riprese il confessore; «guarda piuttosto che tu non sia quello
che non sa parlare in quel sermone». «Non dico»,
aggiunse l'altro, «di aver ferita la sorella, ma di aver
scoccata una freccia dall'arco teso». E avendo il confessore
concluso che non capiva quel che si dicesse, e l'altro ripetendo
che egli non capiva il toscano, e rinnovando la storia della balestra
e della saetta: «Se non ti servi di altre parole», disse
il confessore, «io non arrivo a capire». E l'altro,
dopo avere così a lungo tergiversato per il pudore, disse
finalmente con parole proprie tutto ciò che aveva fatto.
«Ora», disse il confessore, «tu parli toscano a
un toscano, e capisco perfettamente», e datagli la penitenza
lo assolse. È davvero segno di cattivo animo dimostrare
il pudore con le parole, mentre nei fatti si è impudico
e scellerato.
In quest'anno 1451, nel mese di aprile, è avvenuta una
cosa meravigliosa fra la Gallia e quella che ora si chiama Britannia.
Gazze e cornacchie, schieratesi in aria con acute grida, combatterono
accanitamente per tutto un giorno. E la vittoria fu delle cornacchie,
e furono trovate morte per terra duemila di loro e quattromila
gazze. Vedremo che cosa ci recherà questo prodigio.
Francesco Quartente, mercante fiorentino, dimorava a Genova con
la moglie e la famiglia; e i suoi figliuoli erano macilenti e
di corpo gracile; e i figli dei Genovesi sono invece più
forti e robusti. Un giorno un Genovese chiese a Francesco per
qual ragione fossero i figliuoli suoi tanto deboli e magri, mentre
che per i loro figli non era in quel modo. Ed egli: «La ragione
è facile», rispose. «Io faccio i figli miei da
me solo, mentre voi altri per farli avete bisogno che molti vi
aiutino». Perché i Genovesi, appena hanno preso moglie,
vanno subito sul mare e le mogli abbandonate lasciano, come essi
soglion dire, alla custodia degli altri per moltissimi anni.
Uno de' miei amici raccontò una volta che egli aveva conosciuto
un Fiorentino, il quale aveva la moglie bella che era perseguitata
da molti amatori. E alcuni di quelli, alla notte, sulla via vicino
alla casa venivano con le fiaccole a fare la serenata, come si
dice. I1 marito, che era uomo molto arguto, spesse volte destato
dal suono delle trombe e dai canti, s'alzò una notte dal
letto e venne alla finestra con la moglie, e vista la turba degli
amanti che facean baccano, con gran voce li pregò di stare
un poco a vedere. Tutti a quell'invito alzarono gli occhi, ed
egli espose fuori della finestra un arnese molto abbondante, in
funzione, dicendo loro, che per quanto essi ne avessero egli ne
aveva anche di più per contentare la donna, che era quindi
vano ed inutile che si dessero tanto attorno, sperava adunque
che non gli avrebbero più dato noia. E questo grazioso
discorso li distolse dall'inutile cura.
Un altro narrò una storia simile di un Fiorentino, che
era suo vicino, il quale in età avanzata aveva sposata
una donna giovine. Questa, Riccardo degli Alberti, giovine nobile
e bello, prese ad amare e similmente alla notte con molti sonatori
e cantanti sulla via destava l'uomo che dormiva. Questi finalmente
andò da Benedetto, che era padre del giovane, e invocata
l'antica amicizia, e i servizi che s'eran resi, dopo molti lamenti
concluse che e' non s'era meritato che suo figlio lo uccidesse.
A queste parole meravigliato il padre rispose che ciò non
avrebbe egli mai sopportato e che avrebbe impedito il delitto,
e chiese in che modo potesse meglio punire suo figlio. E l'altro:
«Tuo figlio è innamorato di mia moglie, e spesso la
notte con suoni e con canti desta me e la moglie dal sonno, e
per questo avviene che io, sveglio, più di quello che possa,
e perché ella non pensi ad altri, debba dare opera seco.
E poiché ciò accade assai spesso, così mi
mancano le forze, e se tuo figlio non smette, io sono presso a
morire». E con questa facezia Riccardo, ammonito dal padre,
non gli fu più molesto.
Ai bagni di Petriolo udii da una dotta persona narrare di una
faceta risposta di una meretrice, che non è indegna di
essere registrata fra queste facezie. Eravi a Venezia una cortigiana
da bassa gente, alla quale andavano uomini di tutti i paesi; uno
di questi un giorno le chiese quali fra gli uomini del mondo le
paressero meglio forniti. E la donna tosto rispose che erano i
Veneziani. E chiestane la ragione: «L'hanno tanto lungo»,
disse, «che per quanto siano in mare e in lontani paesi,
arrivano fino alle loro mogli e fanno loro fare fanciulli».
Scherzava in questo modo sulle mogli dei Veneziani, che, quando
questi vanno lontano, sono lasciate alle cure degli altri.
Molti frati conversavano sulla età e sulle opere di nostro
Signore e come Egli al trentesimo anno incominciasse la predicazione.
Un tale, che non sapeva di lettere e che era presente, li richiese
di ciò che avesse fatto Gesù dopo aver compito il
trentesimo anno. E poiché alcuni dei frati tacevano, e
altri in diversa guisa rispondevano: «Con tutta la vostra
sapienza», soggiunse, «non sapete una cosa che è
tanto facile». E domandando quegli che cosa fatto egli avesse
dopo il trentesimo anno, disse l'altro: «Entrò nel
trentunesimo». E tutti scoppiarono in riso e lodarono la
facezia di quell'uomo.
Carlo Gerio, mercante fiorentino, uno di quei banchieri che seguono
la Curia Romana, venne in Avignone, com'è costume dei mercanti
che fanno commercio in varie province; poi, tornato a Roma, e
in un pranzo di amici, parlando, un giorno fu richiesto del come
vivessero i Fiorentini che ad Avignone si trovavano; ed egli rispose
che erano contenti ed allegri come matti, perché, soggiunse,
a stare un anno in quel paese si diventava matti. Allora un convitato,
che si chiamava Allighieri ed era un uomo arguto, chiese a Carlo
per quanto tempo fosse egli rimasto in Avignone. E Carlo rispose
che solo per sei mesi ci aveva fatta dimora. E l'altro: «Tu
hai dunque molto ingegno, Carlo», gli disse, «perché
in soli sei mesi hai fatto ciò che gli altri fanno in un
anno». E tutti ridemmo del mordace detto di quel tale.
Un giovane di Firenze bruciava d'amore per una donna nobile ed
onesta, e spesso la seguiva in chiesa o in qualunque luogo ella
andasse. E soleva dir con gli amici che e' desiderava di trovar
luogo e tempo per dirle poche parole, che egli aveva già
pensato e composte. Un dì di festa venne la donna alla
chiesa di Santa Lucia, e uno degli amici disse al giovane che
era quella l'occasione per parlarle, quando la vedesse andare
al santo fonte a prendere l'acqua benedetta. Ed egli, istupidito,
come se avesse perduta ogni forza, cedendo agli incitamenti dell'amico,
andò vicino alla donna: e dimenticate le parole che aveva
pensate, non osava né anche parlare; e poiché l'amico
gli ripeteva che era tempo di dirle qualche cosa: «Signora»,
disse finalmente, «io sono vostro servitore». Alle quali
parole rispose la donna sorridendo: «A casa ho abbastanza
e anche troppi servitori, che spazzano le camere e lavano il vasellame;
perciò non ho io bisogno di voi». E tutti risero e
della stupidaggine del giovane e della bella risposta della donna.
Quando l'imperatore Federico (che morì a Buonconvento su
quel di Siena) pose, come nemico, gli accampamenti a due miglia
da Firenze, molti nobili presero le armi per difendere la loro
città e uscirono ad attaccare i nemici nel loro campo;
un millantatore, di nobile famiglia, montò armato a cavallo
e si slanciò di galoppo fuori dalle porte della città,
rimproverando la lentezza degli altri, che venivano dietro come
se avesser paura, e urlando che sarebbe anche solo andato contro
ai nemici. Quando correndo, e buttando le forze in queste millanterie,
ebbe trascorso un miglio e vide alcuni che ritornavano coperti
di ferite avute dai nemici, prese ad andar più piano e
ad allentare il passo. E quando udì le grida dei nemici
che combattevano co' suoi concittadini, e vide di lontano la battaglia,
si fermò. E quando uno, che aveva udite le sue millanterie,
gli chiese perché non si spingesse innanzi e non entrasse
nella mischia, egli, dopo essere stato per qualche tempo in silenzio,
rispose: «Non mi sento così forte e valoroso nelle
armi come credevo». Si devono pesare le forze del corpo e
dell'animo per non promettere mai più di quello che si
possa dare.
Temo, che ciò che sto per raccontare non sembri una favola,
perché ripugna alla natura e pare che si possa facilmente
negare. Un tale, che aveva nome Giacomo, e che al tempo di Papa
Eugenio era nella Curia Romana, nel posto chiamato di copista,
tornò a Noyon in Francia, che era il suo paese natale,
e qui cadde in grave e lunga malattia. I1 mio racconto sarebbe
troppo lungo se dovessi dire tutte le cose che egli disse e che
gli erano durante quella malattia accadute. Finalmente, dopo molti
anni, al sesto anno del pontificato di Niccolò V, tornò
alla Curia, per andare al sepolcro di nostro Signore, nudo e povero,
perché per la via i ladri lo avevano spogliato; e andò
da alcuni della Curia, miei vicini, uomini onestissimi che lo
avevano prima conosciuto. E raccontò loro, che già
da due anni dopo la malattia non aveva né mangiato né
bevuto, per quanto avesse provato spesso. È un uomo magrissimo,
ed è prete; ha la mente perfettamente sana, dice l'ufficio,
ed io ne ho udita la messa. Molti teologi e fisici hanno lungamente
parlato con lui, e dicono che è cosa contro natura, ma
talmente stabilita che sarebbe ostinazione non crederla. Ogni
giorno vengono moltissimi a vederlo e ad interrogarlo; e si hanno
su di ciò diverse opinioni. Alcuni credono che il suo corpo
sia abitato dal demonio; ma egli non ne dà alcun segno,
e pare uomo prudente, probo e religioso, e anche ora lavora al
suo mestiere di copista. Altri affermano che il suo umore malinconico
gli sia di nutrimento. Io stesso ho molte volte parlato seco,
ed egli crede false queste opinioni; e confessa che ne è
più meravigliato degli altri. Ma non venne a questa consuetudine
tutt'in una volta, ma a poco a poco. Io mi meraviglierei di più
di questo prodigio, se sfogliando certi annuali che copiai in
Francia, non avessi letto che similmente ciò avvenne al
tempo di Lotario imperatore e di Papa Pasquale, nell'anno 822.
Una fanciulla di dodici armi a Commercv, nel territorio di Toul,
dopo avere avuta la comunione pasquale, si astenne dal mangiar
pane per dieci mesi prima, poi per tre anni da qualunque cibo
e bevanda; poi tornò alla consuetudine di prima; ed egli
spera di far lo stesso.
Un signorotto, allo scopo di rapire i beni di un vassallo, che
si vantava di saper fare molte cose, gli comandò sotto
grave pena di insegnar a leggere a un asino. E quello rispose
che ciò era impossibile, se non gli avesse lasciato molto
tempo per educar l'asino a far quella cosa; e poiché i1
signore gli concesse di chieder quanto tempo voleva, così
e, chiese un decennio. Tutti lo deridevano perché si era
assunto di fare una cosa impossibile, ed egli consolava in questo
modo gli amici: «Non temo nulla», diceva, «perché
in questo tempo, o io muoio, o muor l'asino, o muore il signore».
Con queste parole dimostrò che è saggio trarre alle
lunghe e differire una cosa difficile.
Un amico mio nel giorno dell'Epifania mi narrò di una stoltezza
di un certo prete, suo compaesano: «Fuvvi», disse, «un
prete che annunziò in questo modo al popolo la festa del
dì dopo: «Domani», disse, «veneriamo con
molta divozione la Epifania; perché questa è una
delle principali feste. Non so davvero se fosse uomo o donna;
ma in qualunque modo è necessario osservare questo giorno
con la massima riverenza».
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