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Mori's Humor Page

Umorismo, facezie, testi letterari curiosi

La lupa


PARTE I    -    PARTE II

Alberto Cavaliere
STORIA ROMANA IN VERSI

CON PREFAZIONE DI GIUSEPPE BOTTAI

NUOVA EDIZIONE

ANGELO SIGNORELLI EDITORE

Roma 1939 – XVII

Alberto Cavaliere nacque a Cittanova (Reggio Calabria) il 19 ottobre 1897 e morì il 7 novembre 1967. Per altre notizia si veda il testo "Chimica in versi" in questo stesso sito.
Questo testo è stato digitalizzato da Giuseppe Amoruso di Cirò Marina (KR)

PREFAZIONE

Misce stultitiam consiliis brevem . Il poeta Alberto Cavaliere, già circondato da un'aureola di legittima notorietà per la sua "Chimica in versi", cui ha sorriso un grande successo di critica e di pubblico, è un fedele seguace della sentenza oraziana. Egli è, un po' , il principe della parodia moderna nei confronti dei più alti prodotti del pensiero, il trasfiguratore lirico del mondo degli intelligenti: alla stessa maniera che Luciano Folgore è il parodista del pathos, dei sentimenti e delle sensazioni.

Il comico di Alberto Cavaliere ha caratteri di classicità. È il comico ellenico, quello che in Grecia trionfa non solo con Aristofane, ma anche con Cratino e Amipsia, quello che scintilla a Roma con Plauto e Terenzio, ricalcato sui mimi buffi di Sofrone di Siracusa, privo sì di invenzione e di originalità, ma ricco di accenti contingenziali, di tocchi maestri, riferentesi al momento in cui prosperava. È il comico, che passa poi nel Medio Evo, penetra, senza intenzioni sacrileghe o comunque profana, fin nelle chiese, attraverso quegli stranissimi giuochi popolari, che solo tardi, ad opera di Gregorio IX, saranno scomunicati e proscritti.
I Canonici, al cominciar di Quaresima, legavano per la testa una salacca quaresimale e la trascinavano lentamente, per benino, attraverso la chiesa, l'uno dietro l'altro, con grottesca solennità, come se veramente compissero una cerimonia ieratica. Il giuoco era fine a se stesso, senza punta di ironia e di scherno; e i teologi lo giustificavano, argomentando così: "Tutti abbiamo una rima di pazzia che ha bisogno di svaporarsi; non è meglio che fermenti nel tempio, sotto gli occhi dell'Altissimo, che fra le domestiche pareti?".
Su per giù, di questo conio è il comico che troviamo anche nel Boccaccio.
Senza finalità moralistiche, senza lo scopo di correggere pregiudizi o abbattere istituzioni, come sarà il comico di Rabelais o di Montaigne. In questi il riso è serio, perché intende lasciare traccia nell'anima. Là invece è il riso per il riso, per scacciare la malinconia e per vincer la noia.
Questa nostra tradizione non si smentisce neppure nel Folengo e nel Machiavelli.
Forse, il Candelaio di Giordano Bruno è tutt'altra cosa, poiché ha in sé finalità più lontane e fiammeggianti. Ma l'arte comica italiana, nelle sue più alte e compiute espressioni, si scinde nettamente dalla satira, né può confondersi con questa.
Ciò anche nel teatro. Goldoni, stesso, il più delle volte, non scrive a tesi, e la parte migliore dei suoi lavori è, quasi sempre, riposta nel loro carattere scenico, al di fuori delle deduzioni, o illazioni etiche, cui la scena sembrerebbe accennare.
L'abilità di rivivere umanamente, con la giocondità che ci viene dall'azzurro dei nostri cieli e dalla dolcezza del nostro clima, forma l'immortale particolarità del comico nostro e della parodia. A questa tradizione si è riportato Alberto Cavaliere con la sua "Chimica in versi inorganica e organica".
E oggi vi insiste felicemente con questa "Storia Romana" che io ho letto con intenso godimento dello spirito, divertendomi e rasserenandomi.
Per altro, c'è da osservare che questo lavoro non deve soltanto considerarsi come un mero scherzo. Chi così lo considerasse, prescindendo da altri elementi essenziali, darebbe prova di superficialità, in quanto il suo genere sta quasi a cavaliere (e, dato il nome del nostro autore, l'espressione potrebbe prestarsi a un piacevole bisticcio) fra il comico ed il pedagogico. Si tratta, anche, di una vigorosa affermazione in senso educativo divulgativo e didascalico, con evidenti intendimenti nazionali e senza contenuto, in certa misura, politico.
È un'opera questa, forse, più notevole della "Chimica", per la nobiltà della ispirazione e per lo spirito eroico da cui, sia pure sotto il velame della facezia, è pervasa.
Alberto Cavaliere ha costruito genialmente, con i suoi versi fluidi che i lettori già conoscono, un compiuto trattato ad usum delphini, che potrà essere consigliato, almeno come elemento validamente sussidiario, agli immaginosi nostri bimbi, e potrà risuscitare così, giocosamente, vecchi ma non disutili metodi mnemonici, che sembravano erroneamente superati dai nuovi cattedratici indirizzi di pedagogia.
Ond' è che il Cavaliere ci riconferma, ancora una volta, con la vena inesauribile della sua briosa liricità, che il sorriso, è sorgente di vita e spesso veicolo di sapienza. Non soltanto Dio, ma anche la Patria può e deve essere servita in letizia.

                              GIUSEPPE BOTTAI  

 

LA LEGGENDA

In tempi lontanissimi,
avvolti dal mistero,
in cui vaga lo spirito
fra la leggenda e il vero,

quando non esistevano
ancor carta ed inchiostro
- cose che tanto abbondano,
invece al tempo nostro, -

né v'erano storiografi,
filosofi, scrittori,
sorse su un colle un'umile,
borgata di pastori,

così modesta e povera
che un solco ebbe per cuna.
Ma in grembo la portarono
la Gloria e la Fortuna;

e da quel colle mitico,
da quel solco fecondo
discese irresistibile
a conquistare il mondo.

In quel remoto secolo,
quando quel borgo sorse,
non ne parlò la cronaca,
nessuno se n'accorse;

ma quando l'ineffabile
poema della gloria
confuse le sue pagine
con quelle della storia,

si ricercò l'origine
della città stupenda:
i vati la cantarono
e nacque la leggenda.

Poiché, interpostisi
spietati dei,
Troia distrussero
gl'invitti Achei,

Enea, partendosi
dai lidi amati,
approdò profugo
coi suoi penati,

dopo lunghissimo
peregrinare,
là dove il Tevere
sbocca nel mare.

Qui, su una piccola
tribù guerriera
e industre, il nobile
Latino impera,

che in festa l'ospite
regale accoglie
e gli dà in seguito
la figlia in moglie.

Ascanio, il giovane
figlio ed erede
d'Enea, del prospero
regno la sede

vuol che nell'inclita
città si ponga
ch'egli medesimo
fondò: Albalonga.

E per tre secoli,
di padre in figlio
i re si seguono
senza scompiglio,

sempre in buon ordine,
con pace e amore,
fino al mitissimo
re Numitore.

Ha questi un giovane
fratello, indegno,
privo di scrupoli,
che aspira al regno:

è Amulio. Il perfido,
coi suoi devoti,
chiude il re in carcere,
fa dei nipoti

una terribile
carneficina
ed a Rea Silvia,
ch'è una bambina,

figlia superstite
del suo rivale,
mette la tonaca
della vestale.

Così chiamavansi
certe donzelle,
dannate ad essere
sempre zitelle

e che dovevano
tenere desta
la fiamma mistica
della dea Vesta.

Ma un dì la vergine,
distratta un poco,
pur mentre vigila
sul sacro fuoco,

due rosei pargoli
si vede intorno:
cose che accadono
pure oggigiorno.

A quanto narrano
le antiche carte,
dal cielo piovere
li fece Marte,

forse servendosi
d'una cicogna.
Amulio strepita:
" Bella vergogna! "

(che sciocco!) ed ordina
che immantinenti
sian dati al Tevere
quegl'innocenti.

Ma il suo domestico
non l'ubbidiva:
depose i pargoli
presso la riva.

Sui loro gemiti
la notte cupa
piomba; dai gelidi
boschi una lupa

scesa, dei miseri
bimbi s'accorge e
lor le turgide
mammelle porge.

Un certo Faustolo,
capo mandriano
- a quel che dicono -
del re inumano,

impietositosi
poi li raccoglie
e a casa reduce,
li dà a sua moglie.

I bimbi crescono;
robusti e pronti;
cacciando corrono
le selve e i monti:

fermezza d'animo,
coraggio estremo
caratterizzano
Romolo e Remo.

Poi, dell'origine
loro informati,
ad Alba accorrono
con molti armati,

Amulio uccidono
- l'usurpatore -
e riproclamano
re Numitore.

Indi decidono
che una città
in riva al Tevere
sorger dovrà.

Ma, le fatidiche
mura finite,
tra loro acerrima,
scoppia una lite,

poiché presentasi
l'arduo problema:
chiamarla Romola?
chiamarla Rema?

E Remo indocile
per sua sventura
salta, violandole,
le sacre mura;

l'irato Romolo
tosto l'afferra,
indi cadavere
lo stende a terra.

E ai suoi volgendosi:
" Muoia così,
chi tenti, incauto,
passar di qui!...".

Ventisei secoli
son tramontati:
moriron popoli,
crollaron stati,

ma ancora mostrano
l'antico orgoglio
la Lupa e l'Aquila
dal Campidoglio.

 

LA MONARCHIA

ROMOLO RE DI ROMA

Dopo che ha Romolo
Roma fondata,
vorrebbe renderla
più popolata;

e della logica
seguendo il filo,
pensa ch'è l'unica
farne un asilo,

nel quale vengano
ricoverati
banditi, profughi,
perseguitati.

L'editto comodo,
naturalmente,
fa a Roma accorrere
parecchia gente,

ch'ha qualche crimine
sulla coscienza;
ma il saggio Romolo
dice: " Pazienza!

Conosco un metodo ch'è
fra i più adatti
ed infallibili
castigamatti... ".

Infatti vedono,
quei malfattori,
dodici uomini
detti littori

che armati girano
di verghe e scuri;
chi ha delle fisime,
si rassicuri:

C'è il " fascio " mobile
che uccide o sferza.
Tutti capiscono:
qui non si scherza!

Romolo ai nobili
compagni suoi
e ai galantuomini
venuti poi

dà questo titolo:
patrizi o padri;
mentre quegli ultimi,
banditi o ladri,

venuti a chiedere
asilo, rei
senz'alcun merito,
chiama plebei.

fra i primi, in sèguito
sceglie i migliori,
formando l'ordine
dei senatori:

cento ne nomina,
che in ogni affare
s'assume l'obbligo
di consultare.

Pensa ora Romolo,
cervello insonne:
" Vi sono gli uomini,
ma non le donne ".

Se adesso il celibe
è volontario
e trova comodo
nutrir l'erario,

a Roma càpita
che l'ammogliato
è invece un essere
privilegiato.

Sembra una favola,
ma ciò non toglie
che a Roma gli uomini
non trovan moglie;

e invan ricorrono
presso i vicini,
che li ritengono
ladri e assassini:

di questo il popolo
soffre e si lagna
(tornasse, o femmine,
quella cuccagna!...).

Ma un giorno Romolo,
sempre geniale,
offre una piccola
festa rurale

e invita il pubblico
delle vicine
popolatissime
città sabine.

Mentre la musica
rintrona in piazza,
si getta un milite
su una ragazza;

è il segno: rapidi,
gli altri Romani
sulle più giovani,
metton le mani

e, trascinatele
nelle lor case,
con spicci metodi
le fan persuase.

Infuriatissimi
fratelli e padri
lottano, strillano:
- Romani ladri!...-

Fatica inutile,
ché, inermi e scarsi,
presto finiscono
col ritirarsi.

Ma armati tornano
d'archi e bastoni
pronti ad uccidere
quei birbaccioni

e si riazzuffano
spietati. Infine,
giungon le povere
donne sabine.

Veduto avevano
che, dopo tutto,
non era il diavolo
poi tanto brutto.

Si gettan sùbito
fra i combattenti
ed: - Ormai, gridano,
siete parenti!

Non ammazzatevi:
siam figlie e spose!-
E pianti, gemiti,
voci affannose,

sì che ne furono
impietositi
e s'abbracciarono
padri e mariti.

Allor quel popolo
- la rabbia doma -
si fonde in unico
Stato con Roma,

che un poco estendesi,
così, nel Lazio,
regnando Romolo
con Titio Tazio.

Questi una pessima
fama si crea;
un giorno provoca
l'ira plebea

e, poche chiacchiere,
viene ammazzato:
rimane Romolo
re incontrastato,

che con l'esercito
- dieci coorti
d'armati véliti,
pochi ma forti -

conduce a termine
felici guerre
e accresce il numero
delle sue terre.

Sennonché, capita
che un dì nefando,
mentre l'esercito
sta rassegnando,

scoppia terribile
una tempesta,
per cui rincasano
tutti alla lesta.

scompare Romolo
all'improvviso,
la plebe mormora
ch'è stato ucciso

e, indignatissima,
fra i senatori
cerca i probabili
cospiratori.

Ma Giulio Pròculo,
grande patrizio,
a cui s'accredita
molto giudizio,

giura che Romolo
gli era comparso,
tutto di fulgida
luce cosparso,

assicurandogli
con gesti pii
ch'egli era reduce
fra i patrî iddii.

Pronto a convincersi,
il popolino
del morto Romolo
fa il dio Quirino

e un tempio edifica
su un colle, il quale
da allora ha il termine
di Quirinale.

 

NUMA POMPILIO-TULLO OSTILIO
GLI ORAZI E I CURIAZI

Numa Pompilio,
che a lui succede,
è un uomo semplice,
di molta fede.

Anima candida,
persona seria,
sposa ancor giovane
la ninfa Egeria

ed ispirandosi
da questa dea,
i templi edifica,
le leggi crea.

Fonda le cariche
sacerdotali:
quella dei flamini,
delle vestali

e degli interpreti
dei sacri indizi;
detta le formule
dei sacrifici.

L'anno rotuleo,
con mente accorta,
a mesi dodici
da dieci porta.

E fra la pubblica
stima e l'affetto,
muore vecchissimo
nel proprio letto.

Gli Albani non sopportano
che accanto a loro cresca
Roma, ch'è ognor più prospera
ed anche più manesca.

È sempre assai difficile
filar di buon accordo
col parente malevolo,
con il vicino ingordo.

E quando al diplomatico
e buon Numa Pompilio
succede l'ancor giovane
e ardente Tullo Ostilio,

la guerra è inevitabile;
né sembra che Albalonga
capisca a qual terribile
pericolo s'esponga.

Dinanzi già si trovano
Romani contro Albani,
con agguerriti eserciti
pronti a menar le mani.

Allor Mezio Fuffezio
( io mi domando come
poteva costui vincere
con un siffatto nome!),

re degli Albani, avanzasi,
dicendo:" Io proporrei
che, senza tanto strepito,
combattan solo in sei,

tre contro tre; dall'esito
di questa sfida, poi,
decideremo equanimi
chi vinto avrà di noi,

senza che i nostri popoli
immane lutto strazi ".
È allor che in campo scendono
gli Orazi ed i Curiazi.

Cominciano a combattere
con un'audacia indoma ;
intorno tutti gridano:
" Forz' Alba !.. Forza Roma !..".

Sembra che debban vincere
proprio gli Albani:infatti,
mentre i Romani guardano
ansiosi, esterrefatti,

due degli Orazi sùbito
cadon trafitti al suolo.
La situazione è critica:
resta un Orazio solo.

Ma questi è ancora valido,
mentre i tre d'Alba, arditi
- è vero - ancor combattono,
ma sono già feriti.

L'Orazio, allora, simula
la fuga, e intorno:- Ah grullo!
Ah sciagurato!...- strepita
l'esercito di Tullo.

Gli Albani lo rincorrono
con zoppicante pié ;
l'Orazio a un tratto volgesi
e infilza tutti e tre.

I suoi compagni, attoniti,
finita la tenzone,
con entusiasmo abbracciano
quel celebre campione,

e Roma con gran giubilo
il vincitore accoglie,
che dei nemici ha in premio
le guadagnate spoglie.

Ma, tra il festante popolo,
una di lui sorella,
promessa ad un Curiazio,
piangendo si ribella;

per cui, seccato, il giovane,
in nome degli dèi,
giacché si trova a uccidere,
trafigge pure lei.

Molto indignati i giudici
per questo gesto odioso,
a morte allor condannano
quell'uomo un po' focoso,

e solo poi, per merito
del suo trionfo, in luogo
d'ucciderlo, gl'impongono
di passar sotto il giogo.

Per quella gente semplice
era una pena grave,
anzi, era un'onta orribile
passar sotto una trave:

non piegar mai le vertebre
era in quei tempi un vanto.
Poi, col passar dei secoli,
non ci si badò tanto.

 

ANCO MARCIO

Poiché non vogliono
restare ai patti,
gli Albani in sèguito
vengon disfatti.

Ridotta in cenere
la città doma,
Tullo i superstiti
conduce a Roma,

che quegl'indocili
fieri Latini
tratta da liberi
concittadini:

re Tullo giudica
miglior guadagno
d'un vinto popolo
fare un compagno.

Mentre magnifiche
gesta ha in programma,
un dì la piccola
reggia s'infiamma,

sembra per opera
d'un malfattore:
coi figli il misero
re Tullo muore.

Dalla catastrofe
scampa un nipote,
che poi l'unanime
plauso riscuote,

perché con tattica
salito al trono,
si mostra energico,
prudente e buono,

benché tra il popolo
corra la voce
che il responsabile
dell'atto atroce

sia questo giovane,
detto Anco Marcio.
Regnò pacifico,
con qualche squarcio

d'azioni belliche
contro i vicini:
costretto a battersi,
vince i Latini,

prende del Tevere
la destra sponda
ed Ostia al termine
del fiume fonda:

colonia comoda,
perché procura
il sale e un'ottima
villeggiatura.

(Da non confondersi
col nuovo Lido,
luogo amenissimo,
spiaggia di grido,

dove oggi accorrono
bagnanti a turbe,
ma che non prodiga
più il sale all'Urbe,

per quanto sentasi
dir d'ogni lato
che sia di solito...
molto salato!)

 

TARQUINIO PRISCO - SERVIO TULLIO

Tarquinio, in séguito
chiamato Prisco,
sulla cui origine
non garantisco,

forse era un nobile
di schiatta etrusca:
a Roma il titolo
di re si busca.

È un uomo energico,
sagace e giusto;
e mentre edifica
con molto gusto

il memorabile
tempio di Giove,
a Roma incorpora
centurie nuove,

sapienti e pratiche
leggi compila,
sicché in buon ordine
lo Stato fila.

Intanto, come un principe
in casa egli educava
un Tullio, detto Servio,
figliuolo d'una schiava.

Cresciuto, questo giovane
si mostra tanto saggio,
dà prove così fulgide
d'acume e di coraggio,

che il re lo fa suo genero,
con atto intelligente,
sdegnoso delle chiacchiere
della patrizia gente.

La prole d'Anco Marcio
la plebe ognor sobilla
e uccide il re; la vedova
di questi, Tanaquilla,

astuta, cela al popolo
la morte del re buono
e fa regnare il genero,
che resta poi sul trono.

Ha Servio una notevole
vittoria sui Veienti ;
lo Stato, indi, riordina
contando le sue genti.

Poi la città fa cingere
di poderose mura
e, dopo che l'unanime
consenso si procura,

egli interpella il popolo,
ch'è soddisfatto assai:
neppure un " no " (di regola,
un " no " non manca mai).

Per cattivarsi l'animo
dei figli di Tarquinio,
che di quell'ex - domestico
invidiano il dominio,

decide ch'ai due giovani,
chiamati Lucio e Arante,
in matrimonio siano
le figlie sue congiunte.

Egli ha due figlie: tenera
l'una e assai saggia; l'altra,
ch'ha nome Tullia, perfida,
vile, ambiziosa e scaltra.

Dei figli di Tarquinio,
Arunte è buono e serio,
Lucio è malvagio, indocile
e senza alcun criterio.

Re, Servio dà a quest' ultimo
la prima figlia e invece
affibbia all'altro Tullia,
ch'ha un'anima di pece.

L'ingenuo re fantastica:
" Certo, quel Lucio è un empio,
ma si potrà correggere
se accanto ha il buon esempio.

Tullia è un po' vispa, elastica,
e spesso m'indispone;
si calmerà, sposandosi:
Arunte è un bonaccione...".

Discorsi, applausi, brindisi...
Però, ben presto - ahimè! -
le cose non procedono
come pensava il re.

Sopprimon, Lucio e Tullia,
le loro due metà,
sposando fra lo scandalo
di tutta la città.

Fanno re Servio uccidere
dai loro partigiani
e un giogo insopportabile
impongono ai Romani.

La snaturata Tullia,
con sorridente viso,
passa col cocchio,
in pubblico, sul genitore ucciso.

Il luogo ove fu il crimine
nefando consumato
restò per molti secoli
il Vico Scellerato,

a ricordare ai posteri
come la furia bieca
dell'ambizione gli uomini,
e più le donne, acceca.

 


TARQUINIO IL SUPERBO

Tarquinio, ucciso il suocero
- re Servio, saggio e buono -
sale, spietato despota,
sul sanguinoso trono.

Contrariamente ai metodi
dei suoi predecessori,
vive nel fasto, sperpera,
chiede divini onori,

spietato ed intrattabile
governa a suon di nerbo:
i disgraziati sudditi
lo chiamano il Superbo.

Se v'è, nel ceto nobile,
chi a lui non obbedisca,
lo fa senz'altro uccidere
e i beni gli confisca.

Fa solo lui da giudice,
cinto di sgherri armati;
da solo egli delibera
le guerre ed i trattati.

E intanto, non fidandosi
dei propri cittadini,
stringe amicizie e vincoli
con popoli vicini.

Ma, pur malefico
e disumano,
egli ha del fegato,
da buon Romano.

Contro l'esercito
dei Volsci ad oste
muove, suonandogli
forti batoste.

Ma resistendogli
Gabio, il tiranno
pensa di prenderla
con un inganno

e nella misera
città, per questo,
manda il degnissimo
figliolo Sesto.

Questi, lagnandosi
del genitore,
v'è accolto subito
con grande onore.

E in breve termine
sa con tant' arte
di nobil vittima
giocar la parte

e farsi credere
così valente
che divien l'idolo
di quella gente.

- Ma che simpatiche,
ma che leggiadre
maniere! – esclamano.
- Mentre suo padre

è così perfido,
feroce, impervio,
egli ha il carattere
del nonno Servio...-

È tanto il crescere
della sua fama,
che infine il popolo
capo l'acclama.

Or ch'ha l'ingenua
città in dominio,
l'astuto giovane
manda a Tarquinio

un messo a chiedergli
che dovrà fare;
il re, squadratolo
senza parlare,

mozza, servendosi
d'un bastoncino,
gli alti papaveri
del suo giardino.

Il messo, attonito,
guarda il sovrano
senza comprendere
quell'atto strano.

Impazientitosi,
con fiero ciglio
Tarquinio gli ordina:
" Va da mio tiglio

e riferiscigli
solo il mio gesto:
non è uno stupido
mio figlio Sesto..."

Quell'uomo tituba,
ma sta di fatto
che, a Gabio reduce,
ripete l'atto

e Sesto, pratico,
- basta la mossa -
capisce subito
ch'è caccia grossa:

gli alti papaveri
sono le teste
che di più spiccano,
le più moleste.

Fa allor sopprimere
dai suoi sicari
tutti i notabili
e i dignitari

e dà la nobile
città, non doma
ma in modo subdolo
tradita, a Roma.

Vedrete in seguito
come il tiranno
e il vile giovane
la sconteranno.

 

LUCREZIA

Mentre Tarquinio trovasi
ad oste contro Ardea,
forte città dei Rutili,
Sesto ha una bella idea.

Com'è seduto a tavola,
scaldato un po' dal vino,
fra suoi parenti ed intimi,
fra i quali è Collatino,

dato che tutti lodano
le proprie mogli, dice:
- Andiamole a sorprendere!
La mia sarà felice...-

Montati i loro celeri
cavalli, a Roma vanno:
le donne dei Tarquinii,
liete, a banchetto stanno

in compagnia di giovani
(la notte è già inoltrata)
e, visto Sesto, esclamano:
- La guerra è terminata?...-

In altre case vedono
che le lodate spose
dormon nei caldi talami,
felici ed obliose,

mentre a Collazia trovano
la pia Lucrezia, insonne,
che fila malinconica
in mezzo alle sue donne.

Dopo di che, quest' ultima,
di Collatino moglie,
fra tutte, poi, bellissima,
la maggior lode coglie.

Sesto Tarquinio, perfido,
vinto da tanta grazia,
dal campo allontanandosi,
un giorno va a Collazia;

Lucrezia, che con l'ospite
regale è assai gentile,
da lui, ch'ha alzato il gomito,
è offesa in modo vile.

Allora indignatissima,
manda al marito un plico
pregandolo d'accorrere
col padre e qualche amico.

Giunge Lucrezio, trepido,
con Collatino e Bruto:
la donna si fa animo
narra l'accaduto;

chiede che la si vendichi
dell'oltraggiato onore,
prende un coltello e rapida
s'apre il pudico cuore.

Erano assai sensibili,
le donne, in quel paese,
per cui non tolleravano
le più leggiere offese,

mentre oggidì le femmine,
più facili e più miti,
gli oltraggi di tal genere
nascondono ai mariti...

Lo sposo e il padre cacciano
alte e dolenti grida;
toglie il coltello rorido
dal cuor della suicida,

Bruto, ed al ciel volgendosi:
- Per questo sangue santo,
il giogo dei Tarquinii
sarà per sempre infranto!-

giura. Ed infatti, subito
mette a rumore il luogo,
poi scende a Roma e al popolo,
che già mordeva il giogo,

ricorda tutte l'opere
malvage, gli assassinii,
i tradimenti ignobili
compiuti dai Tarquinii.

E Roma sorge unanime
a chiedere vendetta;
fugge atterrita Tullia,
percossa e maledetta;

al re sul viso sbattono
della città le porte;
il figlio Sesto a Gabio
trova spietata morte.

Deposto allor dal popolo
l'usurpator tiranno,
eletti son due consoli
da rinnovarsi ogni anno.

 

LA REPUBBLICA

GIUNIO BRUTO

Comincia la repubblica
nel cinquecentonove:
imprese memorabili,
meravigliose prove

d'amor di patria, eroiche
gesta, di cui nei tempi
e presso tutti i popoli
non troverete esempi,

ben presto già ne segnano
il fulgido cammino.
Eletti primi consoli
son Giunio e Collatino,

gli stessi che levarono
il popolo a sommossa.
Però, l'antico despota
s'accinge alla riscossa.

Vi sono alcuni giovani
d'antica discendenza,
a cui facevan comodo
l'arbitrio e la licenza;

dei figli dell'autocrate
godevan l'amicizia,
per cui spadroneggiavano
in barba alla giustizia

ed arraffavan cariche,
mostrando a tutti i denti
e molestando il prossimo,
esosi e prepotenti.

Adesso questi consoli
(guardate che arroganza!)
parlan di pace, d'ordine,
di legge, d'uguaglianza.

Addio, vita di sperpero,
d'intrighi e di delitti!
Si va a finire in carcere,
se non si fila dritti!

E allor quei tali nobili,
viziosi e perdigiorno,
dell'esule Tarquinio
preparano il ritorno.

Con messi del re tramano
nell'ombra: è gran ventura
che un servo scopra e ai consoli
denunzi la congiura.

Vengon tradotti in carcere
gli allegri congiurati,
e i beni dei Tarquinii
al popolo son dati,

mentre un podere fertile
che avevan essi, a parte,
fra la città ed il Tevere,
è consacrato a Marte.

Immaginate l'animo
dell'infelice Giunio,
quando si vede vittima
d'un tragico infortunio:

fra quegli iniqui complici,
i quali, genuflessi,
da lui la grazia implorano,
vede i suoi figli stessi!

Il cuore gli si lacera:
che orribile destino!
-Perdonali!- lo supplica,
pietoso, Collatino.

Invano! Ed al carnefice
dall'affilata scure
consegna, inesorabile,
le proprie creature:

tanto il dovere domina
in quel romano cuore,
tanto l'amor di patria;
supera ogni altro amore!

Tarquinio, rifugiatosi
fra i popoli vicini,
prepara un grand' esercito
d'Etruschi e di Latini,

il quale, sotto gli ordini
del di lui figlio Arante,
minaccia la repubblica
e le città congiunte.

Avvien nella selva Arsia ,
un memorando scontro:
succede che, vedendosi,
Bruto ed Arunte incontro

si lancian con tant' impeto,
con furia sì tremenda
che, come in una favola,
s'ammazzano a vicenda.

La notte, in mezzo agli alberi,
s'ode una voce arcana,
che annunzia la vittoria
dell'aquila romana;

allor fugge l'esercito
nemico in iscompiglio.
Grandi onoranze trìbuta
Roma al suo morto figlio

ed in omaggio al vindice
del femminile onore
per ben un anno portano
il lutto le signore,

gemendo:" Siamo vedove!..."
Ed in quel tempo il nero,
sulle signore, simbolo
di lutto era davvero

ed imponeva rigida
clausura e sacrifici.
Ai nostri dì, le vedove
non son così infelici...

 

PORSENNA - ORAZIO COCLITE

Fallito il suo proposito,
Tarquinio non tentenna
e pensa di rivolgersi,
adesso, al re Porsenna.

Contava allor l’Etruria
città molto potenti,
sparse per tutta Italia,
fra loro indipendenti,

di modo che formavano
come altrettanti stati,
con proprie leggi, liberi
di far guerre e trattati,

di stringer leghe e battersi
in separate azioni;
i capi si chiamavano
non re, ma lucumoni.

Era Porsenna il principe
della città di Chiusi.
Gli sforzi di Tarquinio
non furono delusi:

il lucumone rapido
con le sue truppe scende
su Roma, e sul Gianicolo
in breve alza le tende.

Separa il biondo Tevere
dalla città quel monte,
donde gli Etruschi tentano
d'attraversare il ponte.

È quivi a guardia un milite,
intrepido figliolo:
Orazio, detto Coclite
per via ch'ha un occhio solo.

Come i Chiusini avanzano
con la cavalleria,
i suoi compagni, pavidi,
voltan le spalle e via!

Soltanto pochi militi
restano ancor di fronte
all'invasore e cercano
di far crollare il ponte:

Intanto Orazio Coclite,
con gesti audaci e bruschi
e con roventi apostrofi
si fa contro gli Etruschi:

" Mercenari vilissimi,
che avventurieri scaltri
han trascinato a offendere
la libertà degli altri!..."

Ed il nemico tituba,
s'arresta per quel tanto
che basta a che precipiti
nel fiume il ponte infranto.

Sotto una fitta grandine
di dardi, Orazio poi
si getta a nuoto e incolume
ritorna in mezzo ai suoi.

Ha, in premio a tanta fulgida
virtù, statua nel Foro,
molti terreni pubblici,
una medaglia d'oro,

il titolo di nobile
e, come immaginate
un posto in prima linea
in tutte le parate.

 

MUZIO SCEVOLA - CLELIA

Un giovinetto nobile,
tal Caio Muzio, ardito,
nel campo etrusco penetra,
un giorno, travestito,

celando sotto gli abiti
un'affilata daga.
È lì tutto l'esercito:
è il giorno della paga.

Tranquillamente fattosi
avanti, il temerario
vede seduti a un tavolo
Porsenna e un dignitario:

han la divisa identica,
le stesse insegne d'oro
Muzio, perplesso, chiedesi:
" Chi sarà il re, di loro? "

Una domanda simile
sarebbe inopportuna:
lo tradirebbe. Il giovane
s'affida alla fortuna;

e benché intorno veglino
tante nemiche schiere,
snoda la daga. È un attimo:
ha ucciso il cancelliere!

Tratto in arresto, accortosi
del proprio error, da forte,
mostra il più freddo e cinico
disprezzo per la morte.

E grida: " Non illuderti!
A Roma una legione
saprà seguir l'esempio
di Muzio, o lucumone! "

A quella fiera apostrofe,
Porsenna lo minaccia,
ma impallidisce ; Muzio
gli ride sulla faccia:

" Sappi che a Roma giovani,
vecchi, plebei, patrizi
serenamente affrontano
la morte ed i supplizi!

Son pronto a dimostrartelo..."
E il nobile Romano
su un focolare, impavido,
stende la destra mano.

Dinanzi a tanto fegato,
Porsenna, stupefatto,
rimanda indietro il giovane
con generoso scatto;

e tanto lo disanima
il gesto dell'audace,
che invia dei messi a chiedere
un'onorata pace.

Restò del braccio a Muzio
soltanto un moncherino,
per cui lo chiamò Scevola
(o monco) il popolino:

quel classico nomignolo
che dopo gli rimase.
Ebbe in compenso cariche,
terre, sesterzi e case.

Or, fra gli ostaggi; trovasi
la giovinetta Clelia,
meravigliosa vergine,
per cui il periglio è celia.

Visto un cavallo libero,
lo inforca e come un lampo
ritorna a casa; il console
la rispedisce al campo:

non vuole esser fedifrago;
afferma: " La parola,
per un Romano autentico,
dev'essere una sola ".

Il lucumone mormora:
" Per Castore, che gente! "
Ed impressionatissimo
fa vela immantinente.

Il console chiamavasi
Publicola Valerio,
soldato valentissimo
ed uomo di criterio,

non solo, ma integerrimo
a un punto tal che, morto,
non lasciò manco spiccioli
pel funebre trasporto;

e vi provvide il popolo.
Signori miei, che tempi!
Cercate al nostro secolo
di cosiffatti esempî!

Tarquinio, irremovibile,
non sembra però sazio
d'aizzare contro il popolo
romano Etruria e Lazio:

raduna un altro esercito,
dei primi ancor più forte,
deciso, infine, a vincere
od a trovar la morte.

Dinanzi a tal pericolo
un dittator s'elegge:
il capo unico e massimo,
che impera oltre la legge.

Eletti son dai consoli,
soltanto, i dittatori,
innanzi ai quali marciano
i fasci dei littori;

ma al più nell'alta carica
sei mesi son lasciati,
dopo di che ritornano
dei semplici privati.

Ha il vecchio Aulo Postumio
la dittatura: il duce,
per l'intervento magico
di Càstore e Pollùce

(vi prego di non credere
che sian due generali:
allor gli dèi scendevano
fra i miseri mortali)

sconfigge il reo Tarquinio
al lago di Regillo.
E dopo tanti triboli
lo Stato è un po' tranquillo.

Il vecchio re rifugiasi
nella vicina Cuma
e qui nella sua rabbia
in breve si consuma.

LA PLEBE SULL'AVENTINO
MENENIO AGRIPPA

Intanto corrono,
signori miei,
tempi assai critici
per i plebei.

Essi non contano
nulla: i comizi
i voti esprimono
sol dei patrizi.

Questi s'impinguano
mercè le guerre,
accaparrandosi
tutte le terre,

laddove i poveri,
che sono molti,
lasciando i piccoli
poderi incolti

e i loro traffici
fino al ritorno,
s'immiseriscono
di giorno in giorno

e, sovraccarichi
d'ogni gravame,
devon far debiti,
patir la fame.

Mentre oggi, libero,
tu cionchi e godi,
e vivi placido
piantando chiodi,

invece, all'epoca
di quei nostri avi,
mio caro, i debiti
tu li pagavi;

o, senza chiacchiere,
i creditori,
genia vecchissima
di malfattori,

su te mettevano
gli aguzzi artigli,
schiavo traendoti
con moglie e figli.

La plebe tribola,
beve il veleno,
ma freme e brontola,
mordendo il freno.

Un giorno, un povero
centurione
riesce a evadere
dalla prigione,

dove per debiti
langue il meschino,
caduto vittima
d'uno strozzino.

Ha il petto carico
di cicatrici
che gli lasciarono
dardi nemici,

mentre le misere
spalle son rosse
di sangue e livide
per le percosse

somministrategli
dal creditore:
le mostra e il popolo
leva a rumore.

La folla strepita,
ma perde il fiato,
ché non vuol cedere,
duro, il Senato.

Allor l'esercito,
naturalmente
composto in massima
di bassa gente,

volendo infrangere
quelle catene,
su un colle accampasi
oltre l'Aniene,

mentre ritirasi,
un bel mattino,
la plebe unanime
sull’Aventino:

colle fatidico
ma che oggigiorno,
in casi analoghi,
non vale un corno!

E - mantenendosi
lì pervicace -
dieci autorevoli
messi di pace,

scelti fra i nobili,
manda il Senato,
perché addivengasi
a un concordato.

L'alterco celebre
fra membra e trippa
racconta al popolo
Menenio Agrippa :

" Un giorno, in epoche
molto lontane,
fecero sciopero
le membra umane.

Noi - protestavano -
sgobbiamo, mentre
mangia e pacifico
s'ingrassa il ventre.

Su, liberiamoci
dal giogo infame!
Il ventre subdolo
muoia di fame!

Ma presto videro
ch'è un brutto affare
lasciar lo stomaco
senza mangiare:

sbadigli tragici,
guance avvizzite,
braccia scheletriche,
gambe stecchite...

Lo stesso stomaco,
se pur non sembra,
nutre e vivifica
tutte le membra ".

Poiché sul pubblico
un discorsetto
garbato ed abile
fa sempre effetto,

a quei brav' uomini
va molto a genio
l'arguto apologo
del buon Menenio.

E si convincono:
se i benefizi
del ventre godono,
certo, i patrizi,

tagliando i viveri
al patriziato
lo stesso popolo
resta affamato.

Ma fu benefica
la ribellione:
la plebe ai nobili
dei patti impone.

Sia data subito
la libertà
a chi pei debiti
perduta l'ha;

non sian più i poveri
costretti mai
a fare il comodo
degli usurai;

la plebe nomini
quattro tribuni
che, come i consoli,
sacri ed immuni,

pur senza porpora,
pur senza onori,
nell'aula stiano
dei senatori:

non approvandone
qualche decreto,
imporre possano
senz'altro il veto.

Per quanto i nobili
sian sempre ostili,
la plebe ha in seguito
pure gli edili:

questi sarebbero
dei magistrati
che sovraintendono
specie ai mercati,

alle vie pubbliche,
agli edifici,
e che rivestono
molti altri uffici.

Di quel buon esito
lieti i plebei,
solenni rendono
grazie agli dei.

Piuttosto ch'essere
sempre ossequienti,
talvolta è utile
mostrare i denti.

CORIOLANO

È Caio Marzio un nobile
temuto, intransigente,
terribile nell'opere,
audace ed eloquente.

Soldato animosissimo,
valente capitano,
prese Corioli e in premio
fu detto Coriolano.

Per quella guerra, sterili
restan le incolte glebe :
la fame inesorabile
minaccia ora la plebe.

Notandosi fra il popolo
un certo malcontento,
vuole il Senato ai poveri
dar gratis il frumento;

invece, altri s'oppongono
recisamente: alcuni,
fra i quali è Marzio, vogliono
soppressi anche i tribuni.

E Coriolano indocile
fomenta la gazzarra,
onde l'accusa il popolo,
mandandolo alla sbarra.

Lo si vorrebbe assolvere,
ma è tale il suo contegno
che, ad onta dei suoi meriti,
muove i tribuni a sdegno;

e questi lo condannano
ad un esilio a vita.
Egli s'avvia con l'anima
percossa e inacerbita;

i suoi parenti e i nobili
tutti fino alle mura
lo seguono esortandolo:
- Sopporta la sventura!-

Ad Anzio egli rifugiasi,
fra i Volsci, già nemici,
che quel guerriero celebre
accolgono felici;

anzi, d'un loro esercito
gli affidano il comando.
Ha Caio Marzio in animo
un crimine nefando:

marciar contro la patria,
ch'egli or detesta a morte.
E vincitore accampasi
presso le sacre porte.

Nella città, fra il popolo,
sorgon discordie indegne.
I sacerdoti supplici
van con le sacre insegne,

piangendo, e si prosternano
innanzi a lui, ma invano:
egli sarà il carnefice
del popolo romano!

Dopo, la moglie, i pargoli,
la madre sua - Veturia -
accorsi al campo placano
quella sdegnata furia.

Figlio ossequiente, tenero
sposo, affettuoso padre,
ei vuol baciare i piccoli,
la donna sua, sua madre.

Ma questa respingendolo,
in pianto sì, ma fiera:
- No, no! Prima rispondimi:
son madre o prigioniera?-

gli chiede, ed in un impeto
di sdegno, di vergogna
e di dolore il reprobo
dopo così rampogna:

- Considera, se un atomo
di cuore in te sussiste,
che cosa riserbavami
la mia vecchiezza triste:

veder mio figlio, l'unico
orgoglio mio, far guerra
ai suoi lari domestici,
alla sua stessa terra;

dover pensare, misera!,
che per l'amaro frutto
delle mie stesse viscere
la nostra patria è in lutto;

ch'io sarei morta libera
se tu non fossi nato;
che il tuo gran nome, o Marzio,
sarà sempre esecrato! -

L'onta di quei rimproveri
cotanto può su Caio,
che si discioglie in lacrime
quell'anima d'acciaio.

Abbraccia i suoi, fa togliere
le tende all'improvviso
e torna indietro: ad Anzio
dai Volsci stessi è ucciso.

Poiché due donne avevano
salvato l'Urbe, essendo
riuscite alfine a scuotere
il cuor di quel tremendo,

Roma commossa edifica,
con gesto assai gentile,
un tempio all'introvabile
Fortuna femminile,

tanto non par credibile
all'uomo che qualcuna,
in mezzo a tante femmine,
possa portar fortuna!

 

CINCINNATO

I DECEMVIRI
LOTTE FRA PATRIZI E PLEBEI

Intanto, si delibera
che debbasi il diritto
vigente esporre al pubblico
redatto per iscritto.

Una missione apposita
nell'Ellade si reca
e studia l'impeccabile
legislazione greca.

S'eleggon dieci nobili
(i quali, per l'appunto,
il nome di decemviri
in carica hanno assunto),

che son della repubblica
il solo magistrato:
sono aboliti i consoli
ed anche il tribunato.

Frutto d'un anno fervido
di studio e di lavoro,
le leggi, in dieci tavole,
s'espongono nel Foro.

Vantaggi incalcolabili
ne traggono i plebei.
L'anno seguente, eleggonsi
dieci altri legulei,

che, proseguendo l'opera
con senno ed equità,
aggiungono due tavole
a quelle esposte già.

Ma quei signori trovano
comodo assai quel posto:
scaduto l'anno, vogliono
restarci ad ogni costo.

E, instauran la tirannide
più odiosa: chi protesta,
o va diritto in carcere,
o gli si fa la festa.

Il più cattivo d'animo,
il perfido Appio Claudio,
che bei sesterzi sperpera
vivendo in festa e in gaudio,

adocchia la bellissima
figliola di Virginio
e, senza tanti scrupoli,
commette un abominio:

poiché non gli vuol cedere
la vergine plebea,
egli, con arti subdole,
un vile intrigo crea,

coi mezzi che la carica
altissima gli dava,
riuscendo quella vittima
a dichiarar sua schiava.

Ma il padre, onesto milite,
per evitar che sia
sua figlia dell'ignobile
decemviro in balìa,

la uccide; indi l'esercito
solleva e il popolino,
che minacciosi accampansi
sul solito Aventino.

Deposta è dei decemviri
la malfamata cricca;
per evitar il pubblico
processo, Appio s'impicca.

Or coi tribuni e i consoli
s'eleggon due censori,
a cui spetta la nomina
dei nuovi senatori,

il censimento e, in seguito,
ancor la sorveglianza,
estremamente rigida,
non sol della finanza,

ma dei costumi pubblici,
ché le matrone, intanto,
pare che già comincino
a esagerare alquanto.

I due questori creansi,
patrizi: son costoro
che amministrare debbono
il pubblico tesoro;

se ne raddoppia il numero,
poi, dopo lotte nuove;
ed i plebei v'accedono
nel quattrocentonove.

La plebe ottiene subito
dei nuovi benefizi,
perché le si concedono
le nozze coi patrizi.

Così, pian piano il popolo
matura e in alto ascende:
la parità politica
completa ormai pretende.

Sol dopo eventi tragici
e disperate tregue,
(scendon su Roma i barbari)
nel secolo che segue,

delle discordie civiche
finisce il piagnisteo:
vedremo accanto al nobile
il console plebeo.

 

L'INVASIONE DEI BARBARI
FURIO CAMILLO

Dall'Alpi scendono
certi guerrieri
valorosissimi,
predaci e fieri.

Ce li descrivono
come colossi,
con occhi glauchi,
capelli rossi,

vesti adamitiche,
usanze strane
e alquanto macabre :
di teste umane

i crini adornano
dei lor cavalli.
Son le terribili
tribù dei Galli:

otto. Sul fertile
lombardo piano
discesi, gl'Insubri
fondan Milano,

mentre i Cenòmani
fondan Verona;
altri procedono
fino ad Ancona,

donde l' Apulia
molestan poi;
prende l'acerrima
tribù dei Boi

l'etrusca Félsina,
oggi Bologna.
Ma nuove il barbaro
conquiste agogna.

Disfatti i Liguri,
gli Umbri, gli Etruschi
(dai soli Veneti
par che ne buschi),

trovando i valichi
dei monti schiusi,
irresistibile
piomba su Chiusi.

Quivi trovandosi
certi legati
romani aiutano
gli assediati:

non solo, uccidono
per sovrappiù
un autorevole
capo-tribù.

Allora i barbari
- Chiusi ormai doma -
adiratissimi
marcian su Roma.

Mai la repubblica
fu più premuta:
la strada è libera,
Roma è perduta!

Si fa lo sgombero
dei cittadini:
vegliardi, invalidi,
donne e bambini;

e in città restano
solo il Senato
e chi può essere
utilizzato,

asserragliandosi
sul Campidoglio.
Ma i vecchi nobili,
con santo orgoglio,

della repubblica
seguir la sorte
vogliono e attendere
fermi la morte,

pur consapevoli
di quali stragi,
saranno vittime
nei lor palagi.

Giungono i barbari:
li stupefà
la solitudine
della città;

e quando vedono
- poi ch'hanno invase
le belle e comode
patrizie case -

quei vecchi immobili,
dai bei costumi,
a loro sembrano
statue di numi.

Ognuno, attonito,
tace ed ammira;
ma un Gallo, fattosi
coraggio, tira

a un venerabile
vecchio la, barba;
il vecchio indocile,
cui ciò non garba,

preso da subito
sdegno protesta,
spezzando al barbaro
lo scettro in testa.

È il famosissimo
Marco Papirio,
che con grand' animo
sfida il martirio.

Rubano, ammazzano,
poi quelle turbe
selvagge, in cenere
riducon l' Urbe.

- Chi può quei barbari
scacciar? - sospira
il vinto esercito
che si ritira.

Solo l'intrepido
Furio Camillo
potrebbe toglierlo
da quell'assillo.

Eroe magnifico,
novello Marte,
quest' uomo al popolo
non vuol far parte

- malgrado gli ordini
d'un leguleio -
delle magnifiche
terre di Veio,

città fortissima
ch'egli ha espugnato,
incenerendola;
onde il Senato,

temendo al solito
l'ira plebea,
lo scaccia. Ed esule
egli è in Ardea.

Però, non imita
quel Coriolano
che offuscò il nobile
nome romano;

ma va a raggiungere
con gli Ardeati,
da lui medesimo
sollecitati,

il proprio esercito,
che lo scongiura
d'accettar subito
la dittatura.

Soldato splendido,
bravo figliuolo,
quadrato, energico,
ma un po' pignolo,

Camillo replica:
- Sarei ben lieto,
ma m'è impossibile
senza decreto! -

Allora un milite,
Ponzio, devoto
e audace giovane,
raggiunge a nuoto

Roma, s'inerpica
sul Campidoglio,
porta all'esercito,
firmato, il foglio

che dà all'eroico
trionfatore
di Veio, il titolo
di dittatore.

Il re dei barbari,
frattanto, volle
padrone rendersi
del sacro colle.

I Galli iniziano,
quindi, l'ascesa,
certi di vincere
con la sorpresa.

Sì cauti salgono
che, inosservati,
di notte arrivano
sugli steccati,

e di là vedono
le sentinelle
che dormon placide
sotto le stelle.

Lassù, in quell'epoca,
è da sapere
che s'allevavano
delle oche vere:

bestie domestiche
sacre a Giunone,
che poi rimasero
per tradizione.

Prese dal panico
subitamente,
poiché s'accorsero
che c'era gente,

quell'oche fecero
tanto baccano,
che, risvegliandosi,
balzò un Romano,

Manlio, fortissimo,
quel cittadino
chiamato in seguito
Capitolino.

Dalla terribile
rupe Tarpea
un primo barbaro
per lui cadea ;

indi, destatasi
la guarnigione,
degli audacissimi
Galli ha ragione.

La prova diedero
più luminosa
l'oche che servono
a qualche cosa

e imporsi seppero
di tal maniera,
da fare in seguito
tanta carriera!

Dopo una serie
d'attacchi vani,
i Galli intendere
fanno ai Romani

che tornerebbero
a casa loro
dietro un buon numero
di libbre d'oro.

Questi, che sentono
venir la fame,
l'onta subiscono
del patto infame.

Forti facendosi
delle lor lance,
i Galli apprestano
false bilance.

Gli altri si lagnano:
basta l'accenno
perché il re barbaro
l'atroce Brenno,

- di fiamme cupide
gli sguardi accesi -
aggiunga subito
la spada ai pesi,

mentre, in quel perfido
gesto di sfida,
al vinto popolo:
" Vae victis ! " grida.

Ma l'atto ignobile
fu malaugurio.
Giunge l'esercito
di Marco Furio,

prima che compiersi
possa il mercato;
sorprende il barbaro,
che, sconcertato,

vede in pericolo
già l'aurea soma.
Camillo, impavido,
proclama:- Roma

non si ricompera
presso un merciaio
con l'oro subdolo,
ma con l'acciaio! -

E i Galli sgomina
con strage immane:
non un sol barbaro
vivo rimane.

È indescrivibile
con quale ardore
accolga il popolo
quel dittatore,

che, detto Romolo
dalla sua gente,
Roma riedifica
completamente.

 

LA GUERRA SANNITICA

Poi che, alleatisi
con i Campani,
formando un unico
fronte, i Romani

furon limitrofi
con i Sanniti,
incominciarono
presto le liti.

E ineluttabile,
quindi, si sferra
fra quei due popoli
spietata guerra,

che, per un volgere
d'oltre vent' anni,
su loro accumula
glorie ed affanni.

Poiché gl'incauti
Napoletani
un giorno mossero
guerra ai Campani,

dicon gli storici
che furon quelli
i responsabili
del casus belli.

Roma, avvalendosi
dei patti stretti,
corse a difendere
i suoi protetti.

Rabbonì subito
le tribù galle,
assicurandosi
così le spalle.

La, greca Napoli
venne assediata
e in breve termine
fu conquistata.

Oltre tre secoli
prima di Cristo,
Roma di Napoli
fa dunque acquisto,

sempre lasciandole,
pur tuttavia,
una larghissima
automomia.

Poiché non tollera
queste vicende,
in guerra il popolo
sannita scende.

Se sui primi esiti
di queste lotte,
impenetrabile
grava la notte,

rimane celebre
comunque il fatto
che un giorno il console
Postumio è attratto,

mentre nel Sannio
penetrar vuole,
in certe orribili
dirute gole,

fra impervî valichi,
mentre il Sannita,
fermo, implacabile,
chiude ogni uscita.

Intorno s'odono
gli alti clamori,
gl'inni di giubilo
dei vincitori.

Questi ad Erennio,
l'uomo più anziano,
padre del giovane
lor capitano,

adesso chiedono:
che cosa fare?
Il vecchio replica:
" Lasciarli andare! "

È inaccettabile
questo consiglio!
Il vecchio, sùbito,
con fiero ciglio

dice: " Uccideteli
uno per uno,
ché vivo e libero
non resti alcuno! "

Quei saggi moniti,
a tutti quanti,
sembrano illogici
e stravaganti

e accolti vengono
con gran disprezzo:
è meglio scegliere
la via di mezzo.

Gli umiliatissimi
Romani, infatti,
la pace giurano,
scendendo a patti,

l'armi consegnano,
passando, infine,
sotto le perfide
forche caudine.

Passano i consoli,
inermi e muti,
fra oltraggi ignobili,
fra lazzi e sputi;

passan le lacere
vinte legioni
fra sconci strepiti,
turpi canzoni.

Ma grida l'anima
di Roma: " Inulto
non resti il barbaro
crudele insulto!

Per te s'approssima
già l'ora estrema,
o Sannio ! O popolo
sannita trema!

Non sempre complici,
tu ben lo sai,
le gole comode
di Caudio avrai!"

E Roma alleasi,
pochi anni dopo,
Lucani e Apulii
con uno scopo:

il Sannio invadere
dall'Oriente,
dond' è accessibile
più facilmente.

E zuffe seguono,
stragi, rapine,
né tanto prossima
sembra la fine.

Trecentoquindici:
ecco i Sanniti
tentar con gli ultimi
sforzi riuniti,

per porre termine
a tanto strazio,
un audacissimo
colpo sul Lazio.

Pur sotto l'abile
guida di Quinto
Fabio, l'esercito
romano è vinto.

Tutto precipita
in una volta:
sconfitti i consoli,
Capua in rivolta.

Ma non disanima
l'avversa sorte
Roma l'impavida,
Roma la forte,

ch'elegge subito
un dittatore,
detto Papirio
nonché Cursore.

Il grand' esercito
ch'egli comanda,
a Cinna, i militi
sanniti sbanda,

riduce all'ordine
Capua ribelle,
occupa in seguito
Nola e Fregelle.

La guerra è al termine,
quand'ecco, bruschi,
in campo scendere
pure gli Etruschi.

Ma Quinto Fabio,
come una furia,
d'un tratto penetra
nell'alta Etruria

e, sorprendendoli
con mossa audace,
gli Etruschi sgomina,
che chiedon pace.

Ed or che libere
hanno le mani,
gl'infaticabili
nostri Romani

sul Sannio piombano,
che smania ancora
ed il cui esercito
ripreso ha Sora,

lo risconfiggono
ed il paese
poi ne saccheggiano
per qualche mese.

Allora, vistosi
così alle strette,
il Sannio eroico
si sottomette.

Pochi anni passano:
Sanniti, Galli,
Etruschi apprestano
armi e cavalli,

e vede svolgersi
l'umbro Appennino
la pugna acerrima
presso Sentino.

Rotto l'esercito
nemico venne,
né mai catastrofe
fu più solenne.

Ma il Sannio indomito
fu debellato
solo dal console
Curio Dentato.

L’infelicissimo
Ponzio d'Erennio,
che, senza cedere,
per un trentennio

tenne nel popolo
del Sannio accesa
l'ardente fiaccola
della difesa,

di Curio console,
suo gran rivale,
orna il magnifico
carro trionfale.

Dopo, nel carcere,
lo sfortunato
eroe sannitico
vien decollato.

Nuovo pericolo:
l'orda barbarica,
fortificatasi,
torna alla carica.

Dinanzi all'impeto
delle legioni,
sconfitti fuggono
prima i Senoni,

e la medesima
sorte avrà poi
la temutissima
tribù dei Boi.

Portata a termine
l'impresa enorme,
sui lauri placida
Roma non dorme,

ché un altro fulgido
sogno or l'ammalia:
esser l'egemone
di tutta Italia.

 

LA GUERRA CONTRO TARANTO
PIRRO

Turii, città del Bruzio,
premuta dai Lucani,
chiese ed ottenne il valido
aiuto dei Romani.

Le navi di questi ultimi,
entrate, forse a torto,
dell'opulenta Taranto
nell'inibito porto,

in quel remoto secolo
già ben munito e ricco,
dai Tarantini incauti
furon colate a picco.

Mandò legati subito
Roma, montata in furia,
soddisfazione a chiedere
della sofferta ingiuria.

Erano già in quell'epoca
corrotti i Tarantini,
oziosi e loquacissimi,
di gusti molto fini;

e quando i messi videro
dell'ancor rozza Roma,
che alquanto tartassavano
l'ellenico idioma,

vestiti in modo semplice,
piuttosto in mal' arnese;
- Guardate questi barbari,
che stolide pretese! -

risero, e tal Floride,
fra lazzi e osceni gesti,
con atto empio e vilissimo
bruttò le loro vesti.

Onde gridò Postumio
con indignata foga:
- Dovrai col sangue, Taranto,
lavar questa mia toga! -

La guerra è inevitabile.
Taranto ha bei danari
e assolda, per difendersi,
guerrieri mercenari.

Raccolto un forte esercito
fra stati e città in giro,
ne dà il comando a un abile
stratega: il re d'Epiro.

Re Pirro, audace e cupido,
da tempo ha il desiderio
d'estendere all'Italia
il suo già vasto imperio

e fiuta in quell'incarico
un'ottima occasione
per soddisfar d'un subito
l'intima ambizione.

Approda infatti a Taranto
con numerosi fanti,
con cavalieri tessali
e ventitré elefanti.

Appena giunto, recluta
la gioventù del luogo,
che, a molli cure dedita,
mal ne sopporta il giogo.

Intanto, rapidissimo,
il console Levino,
volendo il re sorprendere,
traversa l'Appennino.

Segue una pugna acerrima
nei pressi d'Eraclea;
e già i nemici fuggono
dall'ultima trincea,

quando re Pirro, vistosi
perduto, ordina:- Avanti!
Fate venire subito
in linea gli elefanti! -

Tanto spavento incutono
gli orribili bestioni,
che sbaragliate fuggono
le povere legioni;

ma esclama Pirro, d'uomini
conoscitor profondo:
- Datemi un tale esercito
ed io conquisto il mondo! -

L'anno seguente, ad Ascoli,
il grande capitano
riesce ancora a battere
l'esercito romano;

ma ha tali e tante perdite,
che dice il tristanzuolo:
- Ancora una vittoria
e torno a casa solo! -

Per cui vorrebbe chiedere
la pace, tanto più
che molte città sicule
lo chiamano laggiù.

E cerca di corrompere
l'ambasciator Fabricio,
danaro promettendogli
ed ogni beneficio,

affinché a ciò s'adoperi;
pensa:- La cosa è certa;
Fabricio è tanto povero
che accetterà l'offerta.-

Questi, però, gli snocciola:
- Mio caro re d'Epiro,
se pensi di corrompermi,
t'abbraccio e mi ritiro.-

Era con Pirro un celebre
politico, Cinea,
astuto, eloquentissimo,
sì che il re dir solea :

- È valsa, un sì gran numero
di terre a procacciarmi,
più di Cinea la chiacchiera
che la virtù dell'armi.

Va adesso a Roma l'abile
legato, che in presenza
dei senatori spandere
sa un fiume d'eloquenza;

e quelli stan per cedere
innanzi al furbo greco,
quando Appio Claudio il nobile
decano, infermo e cieco,

giunge alla curia e perora
con dire sì efficace,
che spinge tutti, unanimi,
a rifiutar la pace.

Al principale attonito,
che mai conobbe affronti
e il consigliere interroga:
Cinea, che mi racconti? -

questi risponde:- Un tempio
è Roma e parve a me
il suo Senato, credimi,
un'assemblea di re.

Sulla virtù, sull'ordine
quella città si basa.
Niente da fare! Ascoltami,
torniamocene a casa... -

Malgrado ciò, in Sicilia
re Pirro va lo stesso
e ottien contro Cartagine
il massimo successo.

Questa città fa subito
con Roma un'alleanza.
Intanto, il re nell'isola
ha tale un’arroganza

che se ne aliena gli animi,
così che quei paesi
di nuovo se la intendono
con i Cartaginesi.

E dato che in Italia
le cose vanno peggio,
passa lo Stretto, invadere
tenta, ma invano, Reggio,

riprende Locri, a Taranto
poi giunge difilato
e muove contro il console
plebeo, Curio Dentato.

S'affronta con l'esercito
romano a Benevento:
le belve che barriscono
non fanno più spavento,

ché con accese fiaccole
ora i Romani, fermi,
son loro che atterriscono
gli strani pachidermi.

Pirro, disfatto, in lacrime
fa vela per l'Epiro.
Agli alleati italici
Roma non dà respiro:

cade vilmente Taranto,
e tutto il suo tesoro
di greca arte, mirabile,
va ad abbellire il Foro.

Altre città s'arrendono
e sull'Italia intera
ormai, dall'Alpi all'Jonio,
Roma potente impera.

Ora, laggiù c'è un'isola
superba di beltà
e di ricchezza: l'aquila
lo sguardo appunta là.

Re Pirro, per quell'isola
mordendosi le mani,
diceva:- È imperdonabile
lasciarla a quei Romani!...-

 

PRIMA GUERRA PUNICA

Sul lido d'Africa,
là dove adesso
la nuova Tunisi
sorge, o assai presso,

fu già Cartagine,
città potente,
sede d'un popolo
intraprendente,

ricco, ma perfido,
scaltro ed avaro,
assai fanatico
del dio danaro.

Città dei Punici,
ossia Fenici,
conduce a termine
guerre felici,

sì che nel secolo
terzo già appare
superba egemone
del nostro mare.

Ha una magnifica
flotta, potente,
che i mari domina
dell'Occidente.

I Mauri, i Numidi
soggetti tiene,
ha in pugno l'Africa
fino a Cirene,

Sardegna, Corsica,
parte di Spagna;
domini punici
l'Oceano bagna.

Poi verso i Siculi
volge la prua
e in parte l'isola
diventa sua.

Febbrile traffica,
vive, lavora,
centro del piccolo
mondo d'allora.

Dai lidi etiopici
giungon le navi,
cariche d'ebano,
d'avorio e schiavi;

le perle giungono
dall'India arcana;
e drappi serici,
panni di lana,

tutto in Cartagine
si compra e vende,
metalli e porpora,
nonché... prebende,

perché chi ha spiccioli,
volendo, ha pure
onori, cariche,
magistrature.

Questa repubblica
di commercianti
sfrutta i suoi sudditi,
cerca contanti,

costretta a spendere
molti denari,
avendo eserciti
di mercenari.

Per un buon secolo,
con tutto ciò,
Roma medesima
per lei tremò,

perché quegli uomini
bugiardi e ladri
furono l'incubo
dei nostri padri.

Già cordialissime,
solo di fresco
Roma e Cartagine
stanno in cagnesco:

è per quest'ultima
tremendo spettro
l'Italia unitasi
sotto uno scettro.

E anela battersi:
le dà la scusa
Gerone, il despota
di Siracusa,

che vuol accrescere
i suoi confini
col sottomettere
i Mamertini.

Questi, più deboli,
mercè un tributo,
a Roma volgonsi
chiedendo aiuto.

Allor l'esercito
cartaginese,
poiché non tollera
che in quel paese

Roma intromettasi,
entra in azione,
tosto alleandosi
con quel Gerone.

Ma Claudio l' ìnfido
Stretto attraversa
sapendo eludere
la flotta avversa

e quindi sgomina
le opposte schiere,
perseguitandole
senza quartiere.

Gerone, vistosi
così conciato,
non ha da scegliere,
cambia alleato,

pagando al console
cento " talenti "
e rifornendolo
di combattenti.

Restano al cauto
siracusano
gli onori e il titolo
di re sovrano.

Dopo un assedio
lungo e cruento,
viene a Cartagine,
tolta Agrigento.

Pur nel succedersi
delle vicende
più favorevoli,
Roma comprende

che non può essere
oltre condotta
campagna simile
senza una flotta.

Recluta artefici
solerti e bravi,
che costruiscono
navi su navi;

e in breve termine,
la fede è tanta
che se ne approntano
centosessanta.

Non solo: il console
Gaio Duilio,
d'esperti tecnici
mercè l'ausilio,

inventa e fabbrica
certi congegni,
i quali acciuffano
gli avversi legni

e un ponte formano
che dà il vantaggio
di poter correre
all'arrembaggio.

E messi i Punici
nell'imbarazzo,
sul mar li sgomina
presso Milazzo;

poi, quasi subito,
con quell'armata,
anche la Corsica
viene occupata.

Vinta Cartagine
per mare e terra,
vuol Roma in Africa
portar la guerra.

In una tragica
zuffa navale,
l'armata punica
finisce male,

presso la sicula
punta d' Ecnomo.
Uno dei consoli,
quel galantuomo

d’Attilio Regolo,
sbarca a Clupea,
sconfigge eserciti,
dissensi crea

fra i vari popoli
di quei paesi:
Libici, Numidi,
Cartaginesi,

che pace chiedono,
così disfatti.
Ma impone il console
feroci patti,

sì che Cartagine
la nuova sfida
al lacedemone
Santippo affida.

L'incauto Romolo
si caccia avanti,
finché va a sbattere
fra gli elefanti,

che, nella tattica
bene addestrati,
allor fungevano
da carri armati.

È da premettere
che le legioni
mal conoscevano
questi bestioni

e si sentirono
del tutto inermi
innanzi all'impeto
dei pachidermi:

si deve arrendere
lo stesso Attilio,
mentre Cartagine
va in visibilio.

E un altro càpita
disastro immane:
duecentoquindici
navi romane

sommerse vengono
dalla tempesta.
Roma ne fabbrica
altre alla lesta;

prende Tindaride,
quindi, e Palermo,
a sé aggiogandole
con pugno fermo.

E quando Asdrubale,
gran capitano,
assale il vigile
campo romano,

perde l'esercito
più gli elefanti,
che a Roma adduconsi
tra feste e canti,

affinché il popolo
romano giostri
e faccia pratica
coi buffi mostri.

Ormai Cartagine,
stanca, avvilita,
cerca di chiudere
quella partita.

Pensa che Regolo,
molto ascoltato
tanto dal popolo
che dal Senato,

e che in un carcere
da un lustro giace,
vorrà pur spingere
Roma alla pace.

" Farò il possibile!..."
Giura, però:
" Se non accettano,
ritornerò ".

Ma a Roma predica
guerra ad oltranza:
" Ormai Cartagine
non ha speranza;

se Roma insistere
saprà tenace,
potrà concludere
ben altra pace "

Ciò detto, Regolo
senza esitare
riprende subito
la via del mare.

Non sente moniti,
pianti, consigli;
non vuol ricevere
la moglie è i figli,

ché non l'inducano
a rimanere
le loro lacrime,
le lor preghiere.

Protesta il popolo,
anche il Senato
insiste, supplica...
Niente, ha giurato!

Tornato in Africa,
sa virilmente
soffrir le ingiurie
di quella gente,

che lo precipita,
vile e spietata,
dentro un'ermetica
botte chiodata,

per una ripida
china: che modi!
Ed il magnanimo
morì sui chiodi.

(Sembra impossibile,
c'è tanta gente
che ci sa vivere
tranquillamente!)

Intanto, da Cartagine,
ardito, il mare varca
il valoroso Amilcare,
cognominato Barca.

Egli, approdato a Trapani,
dopo un trionfal cammino,
presso Palermo accampasi,
sul monte Pellegrino.

Ma Roma, per conchiudere
quella snervante lotta,
mercè colletta pubblica,
arma una nuova flotta:

contro i nemici, a l'Egadi,
quel fiero colpo sferra,
che vale a porre termine
alla spietata guerra.

Gaio Lutazio Càtulo,
il console plebeo,
conquista in breve Trapani
e il forte Lilibeo :

il duro assedio Amilcare
non può più sostenere,
ma torna in patria libero,
con tutte le sue schiere.

Questa campagna punica,
causa di tanti affanni
e di superbe glorie,
durò ventiquattr'anni.

L'Italia ora è un'amalgama
di popoli gagliardi:
s'aggioga la repubblica
Siculi, Corsi e Sardi.

Né solo ebbe quell'isole :
con sacrifici ingenti,
strappandoli ai suoi sudditi,
tremila e più talenti

dovette sborsar subito
(pensate con che pianto!)
la povera Cartagine
che ci teneva tanto.

 

SECONDA GUERRA PUNICA

Dalla Sicilia in Africa
tornati, quei briganti
di mercenarî avanzano
pretese esorbitanti.

Con queste truppe unitisi,
i popoli scontenti
minacciano Cartagine,
che non ha più talenti.

Contro i ribelli Amilcare,
probissimo, si sferra
e li riduce all'ordine
dopo un’atroce guerra.

Condotta contro i Numidi
ancora una campagna,
accresce, dopo, i punici
dominî nella Spagna.

È ucciso in un assedio;
il successore, il forte
Asdrubale, suo genero,
ne vendica la morte,

scendendo sugl'Iberici,
che vinti a sé incatena.
Poi fonda la fortissima
città di Cartagèna.

Pur carezzando in animo
i più ambiziosi piani,
sa conservar buonissimi
rapporti coi Romani,

mediante una politica
astuta e intelligente;
ma cade ucciso, ad opera
d'un suo luogotenente.

Il valoroso Annibale,
ventiseienne appena,
acclama ora l'esercito
riunito in Cartagèna.

Figlio del grande Amilcare
e del suo genio erede,
estraneo alla sua patria,
senza pietà né fede,

cresciuto in campo, energico,
crudele ed ostinato,
da bimbo odio terribile
a Roma egli ha giurato.

Distratta dagl’Illirici,
dai Galli e dagli Etòli,
Roma lasciò Cartagine
giostrar con gli Spagnoli,

ma impose ad essa il limite
dell'Ebro: tuttavia,
mal tollerava il crescere
di quell'egemonia.

E quando prese Annibale
e sterminò Sagunto,
senza badare agli ordini
che Roma aveva ingiunto,

questa mandò a Cartagine
alcuni messaggeri,
chiedendo a ostaggi Annibale
e i fidi consiglieri.

Invano! Quinto Fabio
non ama esser loquace;
alza la toga:- Punici,
qui porto guerra e pace, -

dice, - v'invito a scegliere
quella che più v'aggrada.
- È guerra... Snuda, Annibale,
la tua tremenda spada,

e a questa Roma perfida
e prepotente mostra
quale sia ancora l'èmpito
della potenza nostra!

Subitamente Annibale
dai luoghi conquistati
si parte, avendo al seguito
novantamila armati:

fida nel suo grand' animo
nei propizî dei.
Sconfigge i Celtiberici,
sorpassa i Pirenei,

varca del largo Rodano
la rapida corrente,
ed una strada aprendosi
fra una nemica gente,

giunge tra mille ostacoli
ai piè dell'Alpi immani,
le cui cime mai videro
orma di piedi umani.

E con coraggio indomito,
tenacia senza pari,
in nove giorni supera
i ghiacci millenari.

Va dietro lui l'esercito
martorizzato e stanco:
soldati esausti cadono
su quel deserto bianco.

Valanghe, insidie, baratri:
ruinano cavalli
ed elefanti ed uomini
nelle profonde valli.

Ma non desiste Annibale:
avanti, avanti, avanti!
Ormai non gli rimangono
che ventimila fanti

del poderoso esercito
che uscì da Cartagèna;
e in piano, alfine, sboccano
in cenci e senza lena.

Strappa con essi Annibale
ai Liguri Torino,
sbaraglia poi Cornelio
Scipione sul Ticino;

Cornelio fugge e rapido
l'insegue quel demonio,
battendo sulla Trebbia
il console Sempronio.

A lui s' uniscon gl'Insubri,
i Galli cisalpini;
così fortificatosi,
traversa gli Appennini.

Dell'accorrente esercito
del console Flaminio,
al Trasimeno attrattolo,
fa un tragico sterminio;

e solo pochi militi
che sfuggono alla morte,
sbandati, a Roma giungono:
Annibale è alle porte!

Roma li accoglie in lacrime,
percossa dal dolore,
e Quinto Fabio Massimo
proclama dittatore.

Scende in Abulia, celere,
Annibale, ogni loco
che tenta di resistergli
mettendo a ferro e a fuoco.

Fabio, con saggia tattica,
attende l'occasione
a lui propizia ed evita.
di scendere a tenzone,

soltanto cimentandosi
in qualche scaramuccia.
Insoddisfatto, il popolo
contro di lui si cruccia;

e gl'impazienti fremono,
lo chiaman traditore,
scherniscon Fabio Massimo,
il temporeggiatore.

Si muove allora il console
Marco Marrone : han dato
il lor consenso, unanimi,
il popolo e il Senato.

Regnano fede ed ordine
nelle romane file.
Siamo al duecentosedici:
è il giorno due sestile.

Mai pugna ebbe nei secoli
più clamoroso grido
di quella combattutasi
a Canne sull'Aufido.

Ridusse il fiero Punico,
su quel nefando piano,
letteralmente in polvere
l'esercito romano:

quarantamila veliti
periron, due questori,
venti tribuni, un console,
ottanta senatori.

Pur nell'angoscia pubblica,
a Roma dà il Senato
sublimi prove d'animo,
degne del suo passato:

calma ed esorta il popolo
a nuovi sacrifici,
rifiuta di ricevere
gli ambasciator nemici,

che ad offrir pace vengono
con ostentata boria;
accoglie e - non potendolo
lodar della vittoria -

loda ugualmente il console
sconfitto, umile e prono,
perché dalla repubblica
non disperò il perdono.

 

LA CADUDA DI SIRACUSA
SCIPIONE L'AFRICANO

Morto Gerone, autocrate
di Siracusa, avviene
che, dopo lunghi torbidi
e sanguinose scene,

la forte città sicula,
in mano a partigiani
devoti di Cartagine,
si stacca dai Romani.

Subito allora il console
Marcello la circonda
per terra e mar d'assedio:
la lotta è furibonda;

ma mesi e mesi passano
e la città non cede.
Famoso matematico
e fisico, Archimede

per la difesa escogita
non mai veduti ordigni,
che sui nemici lanciano
terribili macigni;

con certe lunghe pertiche
dall’alto delle mura
preme le navi e subito
le manda in sepoltura;

oppure, sollevandole
a guisa d'una piuma,
contro gli scogli attoniti
le sbatte e le frantuma;

o le riduce in cenere
con i convessi specchi:
e sempre ha pronti all'opera
di morte altri apparecchi.

Toglie Marcello, in ultimo,
l'assedio, assai cruento;
ma la città capitola
per via d'un tradimento.

La splendida metropoli
l'esercito saccheggia:
ricchezze incalcolabili
trovate nella reggia,

tesori d'arte ellenica,
statue, vasi, dipinti,
spedisce a Roma il console
dalla città dei vinti.

Pochi abitanti sfuggono
all'orrido macello,
e, nonostante gli ordini
del console Marcello,

che vuol vedere incolume
il celebre scienziato
anche Archimede è vittima
dell'odio d'un soldato.

È il distrattone classico
(gridando " eureka ", un giorno,
in mutandine e sandali
fu visto andare intorno):

sta lavorando all'opera
di strage e di difesa,
senza nemmeno accorgersi
che la città s'è arresa,

e non risponde a un milite
sprezzante che gli chiede:
-Sei tu l'illustre tanghero
che chiamano Archimede? -

Assorto nelle formule,
non l'ode; e l'ignorante,
per forza d'abitudine,
lo fredda sull'istante.

Poiché rinforzi in Africa
inutilmente chiese,
stretto fra Bruzio e Apulia,
il gran Cartaginese

ancora Turii, Taranto
riduce in suo potere,
ma deve suddividere
le affievolite schiere.

E poi, quel forte esercito,
che ha combattuto tanto,
nei dolci ozi di Capua
s'è rammollito alquanto:

dolce e fatale è il tossico
che la città propina,
per cui l'antico spirito
ogni dì più declina.

Roma riprende in seguito
quest' ultima città
e la condanna a perdere
l'antica libertà.

Altre cittadi italiche,
d'Annibale alleate,
a Roma allor ritornano,
incerte e spaventate.

Ora in Ispagna recasi
un giovane Scipione,
che in breve tempo sgomina
Asdrubale e Magone.

Il generale Asdrubale,
sfuggito a quel macello,
passa in Italia a porgere
aiuto a suo fratello.

Lo affronta Marco Livio ;
il console collega,
Nerone, al fiero Annibale
le mani intanto lega;

con parte dell'esercito,
dopo, fulmineo muove
e accanto all'altro console
giunge con forze nuove.

E sul Metauro, Asdrubale,
in quel di Sinigaglia,
è vinto; per quel misero
è l'ultima battaglia;

il capo suo dal console
Nerone è balestrato
nel campo dov'è Annibale,
fremente, esacerbato.

Scipione, a Roma reduce
fra deliranti scene
di popolare giubilo,
il consolato ottiene.

Dalla Sicilia in Africa
passa con forte armata:
lotta tremenda ed impari,
impresa forsennata!

Ah, lo Scipione incauto!
il temporeggiatore
condanna a Roma in pubblico
quel giovanile ardore;

ma innanzi a quel gran giovane,
il popolo romano
si ride della tattica
del vecchio posapiano.

Sìface, re dei Numidi
di Roma già alleato,
si schiera con Cartagine,
illuso e sconsigliato.

Da lui deposto, il giovane
e furbo Massinissa
con Roma, ma senz'uomini,
partecipa alla rissa.

Scipione intanto simula
- astuto insieme e audace -
con Sìface ed Asdrubale
d'intavolar la pace,

ma i loro campi incendia,
la notte, e dà battaglia:
gl'impreparati eserciti
sorprende e li sbaraglia.

E al trono di Numidia
or Massinissa sale,
lo spodestato principe,
di Sìface rivale.

Poiché verso Cartagine
Publio Scipione avanza,
la città pace supplica,
perduta ogni speranza.

Sia richiamato Annibale,
ceduta sia la Spagna:
a questi patti ha termine
l'acerrima campagna.

Annibale, ridottosi
a Turii ed a Crotone,
quivi in un tempio incidere
fa prima un'iscrizione

per tramandare ai posteri
le sue superbe gesta;
poi parte, sbarca in Africa
e a guerreggiar s'appresta.

Fidando allor Cartagine
sui sopraggiunti armati,
decide di rescindere
i patti già firmati.

Scipione, accorso subito,
corona la sua fama,
l'ancor invitto Annibale
polverizzando a Zama.

Resta a Cartago l'Africa,
né in quella stessa terra
senza il parer dei consoli
l'è dato muover guerra.

I senatori guardano
arder le belle navi,
i loro figli vedono
tratti lontani e schiavi,

e restano impassibili;
ma, avari impenitenti,
in lacrime si sciolgono
versando i lor talenti.

Roma il trionfo tributa
al grande capitano
e gli concede il titolo
superbo d'Africano.

(Però, vedrete in sèguito
che, a torto od a ragione,
andrà in esilio, e il popolo
lo chiamerà... sciupone!)

 

CONQUISTA DELLA MACEDONIA E DELLA GRECIA
GUERRA SIRIACA - MORTE D'ANNIBALE

Dati del vivere
civile esempî
che inobliabili
saran nei tempi,

vergate pagine
di gloria enorme,
maestra ai popoli
d'eterne forme,

in preda a torbide
lotte intestine,
ormai va l'Ellade
verso la fine.

Il re macedone,
Filippo quinto,
che già un vastissimo
potere ha attinto,

adesso in animo
nutre il disegno
d'unir la debole
Grecia al suo regno.

Aiuto chiedono,
quindi, ai Romani,
con altri popoli,
Rodii e Spartani.

Poiché il Macedone,
molto potente,
all'Urbe replica
sgarbatamente,

contr'esso il console
Sulpicio va,
ed incominciano
le ostilità.

Ma arriva a metterlo
a capo chino
solo l'esercito
di Flaminino;

ché questo console,
sagace e blando,
le antiche glorie
magnificando,

dichiara d'essersi
recato là
per dare all'Ellade
la libertà:

le città elleniche
gli apron le porte
ed entusiastiche
gli dan man forte.

A Cinocefale,
nella Tessaglia,
egli il Macedone,
così, sbaraglia.

Oh irrefrenabile
grido lanciato
da tutto un popolo
resuscitato,

quando allo stadio
le genti accorse
a veder l'istmiche
famose corse

il bando ascoltano
che risaluta
la Grecia libera,
forte e temuta!

In quel fantastico
circo corinzio,
tutti si gettano
su Tito Quinzio

e il grande e nobile
liberatore
col nome acclamano
di salvatore.

Roma ad un fulgido
trionfo assiste:
vasi bellissimi,
cose mai viste,

diademi splendidi,
statue, un tesoro
di centoquindici
corone d'oro

che regalarono
le città elléne,
emancipatesi
dalle catene,

il cocchio seguono
di Flaminino,
fra i canti e il giubilo
del popolino.

Ma quando il dèmone
della discordia
in casa penetra,
misericordia!

Non contentandosi
dei lor guadagni,
gli Etoli muovono
continui lagni;

e poiché battersi
non san da sé,
Antioco chiamano,
di Siria re,

che già dall'Asia
gli occhi volgea
verso la prossima
costa europea.

Del potentissimo
re nella corte
cacciava Annibale
l'iniqua sorte.

Questi lo stimola
così abilmente,
che sbarca in Ellade.
quell'imprudente.

Accorre il console
Manio Glabrione,
che lo felicita
d'una lezione;

non solo Antioco
per terra è in rotta,
ma perde all'isola
di Chio la flotta.

Allora, il console
Scipio, germano
del celeberrimo
Publio Africano

lo affronta in Asia,
avendo a lato
Publio medesimo
come legato,

ed a Magnesia,
con mosse accorte,
vince un esercito
del suo più forte.

Roma su Annibale
vuol metter l'ugna,
ma, poi che all'animo
troppo ripugna

del fiero profugo
tanta ignominia,
s'affida a Prussia,
re di Bitinia,

e, sotto l'impeto
dell'odio antico,
di Roma renderlo
vuole nemico.

Allora mandano
messi i Romani,
chiedendo Annibale
nelle lor mani;

poiché possibile
scampar non è,
bevendo un tossico
ch'egli ha con sé,

si vota agl'inferi
l'eroe tremendo,
Roma, implacabile,
maledicendo.

Or l'illegittimo
figlio del vinto
re dei Macedoni
Filippo quinto,

Perseo, sentendosi
forte abbastanza,
intollerabili
pretese avanza.

E in Grecia penetra
con le sue genti,
acclamatissimo
dagli scontenti;

ma a Pidna il misero
battuto è a segno
che perde esercito,
onore e regno.

L'inestimabile
tesoro regio,
monete ed opere
di sommo pregio;

su un cocchio, in lacrime,
chine le ciglia,
il re medesimo
con la famiglia;

file lunghissime
di prigionieri;
tratto da candidi
quattro destrieri

il cocchio splendido
di Paolo Emilio,
l'invitto console,
fra il visibilio

indescrivibile
d'immense turbe,
sfilare vedono
le vie dell'Urbe.

Lotte egoistiche
fra genti ingorde
la Grecia tengono
sempre discorde,

e, a placar gli animi,
in quello Stato
deve intromettersi
sempre il Senato.

Poiché mal tollera
quella tutela,
di liberarsene
la Grecia anela;

ed altri popoli
a loro attratti,
in armi insorgono
gli Achei compatti.

Un grand'esercito
forma la lega,
che marcia agli ordini
d'uno stratega;

ma, com'è logico,
pur esso è vinto:
Megara, cadono,
Tebe, Corinto.

Questa magnifica
città è distrutta.
Roma s'incorpora
la Grecia tutta,

che alla macedone
provincia appaia:
la nuova suddita
si chiama Acaia.

Ed un buon numero
d'opere d'arte
ancor dall'Ellade.
per Roma parte.

Ma, mentre compionsi
tali destini,
predando l'aquile
oltre i confini,

quale implacabile
voce, tremenda,
contro Cartagine
grida:" Delenda! "?

 

CATONE IL CENSORE - LA TERZA GUERRA PUNICA

Ora, i Romani rustici,
furia di contatti
coi raffinati popoli
da loro già disfatti,

cominciano a corrompersi
ad imitar quel lusso
ch'ebbe su questi popoli
sì funesto influsso;

con ché s'illustra in pratica
l'adagio secolare:
chi con lo zoppo bazzica
impara a zoppicare.

V'erano già in quell'epoca
potenti pescicani,
a cui le guerre assidue
davan guadagni immani.

Non si contavan gli uomini
pei quali erano scherzi
in pranzi e feste spendere
milioni di sesterzi.

Già nelle case crescono
corrotti adolescenti;
tempo e danaro sciupano
le donne in ornamenti.

Però, non tutti seguono
l'andazzo tristo e insano;
primeggia fra i più savii
un Porcio tusculano,

Catone: ha l'abitudine
di dire quel che pensa;
veste una rozza tunica,
siede a modesta mensa.

Giovane, contro Annibale
aveva militato;
poi fu tribuno ed ebbesi
l'onor del consolato.

Or è censore e, rigido,
spande eloquenza a fiumi,
bollando quell'irrompere
di pessimi costumi.

Il patriziato mormora
contro l'insigne Porcio:
" Non s'è mai visto un nobile
più zotico e spilorcio! "

Né più manesco: al genero
tirò uno schiaffo -oh bella!-
perché baciava in pubblico
la moglie sua Porcella.

Gente gagliarda ed inclita
in guerra, gli Scipioni
sono sfrenati e sprecano
milioni su milioni;

e più di tutti esagera
il vincitor di Zama,
mentre sta zitto il popolo,
che lo rispetta e l'ama.

Però, poiché si mormora
che insieme all'Asiatico
egli abbia agito in Siria
nel modo più antipatico,

facendosi corrompere
per mitigar la pace,
Porcio li accusa in pubblico,
se a Roma ogni altro tace.

Publio, per tutta replica,
mandandolo all'inferno,
fa le valigie ed esule
va a vivere a Literno.

Nel testamento egli ordina
che sia sulla fossa
inciso: "Ingrata patria,
non avrai le mie ossa ".

Poiché quel diavolo
di Massinissa
con la sua perfida
vicina è in rissa,

questo grandissimo
Porcio, sagace,
mandato in Africa
per metter pace,

sente in Cartagine
già rifiorita
sì formidabile
soffio di vita

e tale un impeto
di forza nuova,
che un indicibile
sgomento prova.

E, a Roma reduce,
mostra in Senato
dei, fichi libici
ch'egli ha portato.

Meravigliandosi,
quei vecchi allora
dicon: " Per Cerere!
Son freschi ancora! "

" Sfido! La punica
stupenda costa
tre giorni trovasi
da qui discosta ".

Da allora in pubblico,
dicendo va
ch'è da distruggere
quella città;

pur di qualsiasi
altra faccenda
parlando, termina
così: " Delenda! "

e di ripetere
non è mai pago
l'atroce apostre
contro Cartago.

La guerra che quest'ultima,
tirata pei capelli,
dichiara al vecchio Numida,
provoca il casus belli.

I consoli Manilio
Nepote e Censorino
con un potente esercito
si mettono in cammino.

Dalla Sicilia chiedono
ed han trecento ostaggi
cartaginesi, nobili
e illustri personaggi.

Sbarcano quindi in Africa,
chiedendo la consegna
dell'armi, e ancor Cartagine
s'inchina e si rassegna.

Avute l'armi, impongono
che vadan gli abitanti
a stabilirsi dodici
miglia dal mar distanti,

ché la città dev'essere
distrutta:il più efficace
e sbrigativo metodo
per mantener la pace!

A quel decreto orribile,
nella sua vita lesa,
la città tutta, eroica,
si leva alla difesa.

Quanti Romani e Italici
vivon colà massacra
ed il furente popolo
chiama alla guerra sacra.

Son dichiarati liberi
i servi; uomini e donne
fabbrican armi, fervidi
nella fatica insonne;

ed i giardini pubblici,
le strade cittadine,
le case stesse, i tempii
diventan officine.

Le fiere donne privansi
delle superbe trecce
e corde d'archi tessono
con cui lanciar le frecce.

Infine, si fa fondere
non solo ogni lavoro
di bronzo, ma s'apprestano
armi d'argento e d'oro.

La cupida Cartagine
s'accorge che i danari
non sono tutto: esistono
tesori assai più cari,

la libertà, la patria,
l'onore! E per tre anni
sostiene un duro assedio
ed inauditi affanni.

Qui ancor vince uno Scipio,
il giovane Emiliano,
nipote invitto ed emulo
del celebre Africano.

Quando il nemico penetra
nelle città, la gente
al vincitor esercito
s'oppone strenuamente.

Battaglia memorabile!
non mai vedute stragi!
Nei serpeggianti vicoli,
nei templi, nei palagi,

per ben sei giorni il popolo
frenetico si batte,
mangiando dei cadaveri
le carni putrefatte.

I miseri superstiti,
scacciati da ogni luogo,
nel tempio d'Esculapio
si gettano in un rogo.

Distrutta fu Cartagine;
furon lasciati solo
i templi e agli dèi inferi
fu consacrato il suolo.

Il giovinetto console
fu visto errar in pianto
tra i fumiganti ruderi
di quell'impero infranto:

dinanzi allo spettacolo
terribile e inumano
ha la visione tragica
del giorno ancor lontano,

in cui, caduta l'aquila
sul prodigioso soglio,
violate l'are fulgide
del sacro Campidoglio,

saccheggeranno i barbari
in modo furibondo
quell'Urbe che per secoli
ha saccheggiato il mondo.

 

PARTE II