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Umorismo, facezie, testi letterari curiosi


Alberto Cavaliere
STORIA ROMANA IN VERSI

PARTE I    -    PARTE II

I GRACCHI

I nuovi ricchi imperano,
traendo dalle guerre
sempre maggiori cespiti
e sterminate terre.

E poi che le centurie
si basano sul censo,
i ricchi hanno sui poveri
un predominio immenso.

Son essi che ricoprono
i principali uffici,
che indisturbati godono
di tutti i benefici

e senza tanti scrupoli
spoglian l'Italia e il mondo.
Ai fondarelli rustici
succede il latifondo.

Accanto ai ricchi, i piccoli
rurali, andando in guerra,
o coltivar non possono
la loro grama terra,

od ai lor campi reduci,
sprovvisti di danari,
sono costretti a venderli
ai grossi proprietari.

Gli schiavi innumerevoli,
sfruttati in modo infame,
le terre, poi, coltivano,
governano il bestiame,

e più non serve l'opera
dei contadini: or dunque,
sorge lo spettro livido
della miseria ovunque.

A sollevar gli spiriti,
ad animare i fiacchi,
a imporre più giustizia
mirano adesso i Gracchi.

La madre lor, Cornelia,
figlia dell'Africano,
che già, rimasta vedova,
sdegnò d'un re la mano,

è donna virtuosissima.
Una matrona gretta
le ostenta alcuni ninnoli
dei quali si diletta;

Cornelia, austera e semplice,
mostrando i due fratelli,
risponde a quella frivola:
" Son questi i miei gioielli ".

Tiberio, il primogenito,
vuol rendere alla plebe
martorizzata e misera
le mal curate glebe.

E quando, infatti, il popolo
tribuno il Gracco elegge,
questi, senz'altro, formula
una famosa legge,

che stabilisce un massimo,
oltre cui non è dato
aver neppur un jugero
di terra dello Stato:

la parte disponibile,
così rimasta, va
distribuita ai poveri
dietro un'indennità.

" Le bestie " il Gracco perora
" e gli esseri più vili,
signori miei, possiedono
lor tane e lor covili!

E quelli che combattono
e sfidano la morte
per questa Roma olimpica,
per questa Italia forte,

pietra non hanno, miseri!,
su cui poggiar la testa,
e intanto i ricchi, immemori,
s'impinguano e fan festa ".

I ricchi, che paventano
quell'uomo ardente e savio,
adescano e gli mettono
contro il tribuno Ottavio.

Lungi, però, dal cedere,
anzi, montato in ira,
non solo il Gracco indocile
la legge non ritira,

bensì l'aggrava, e il popolo,
che fa le parti sue,
convoca perché subito
deponga uno dei due.

Deposto, infatti, Ottavio,
che il popolo ha tradito,
fra l'entusiasmo pubblico
la legge va a partito.

Moriva, intanto, un Attalo,
di Pergamo sovrano,
lasciando i suoi dominii
al popolo romano.

Tiberio vuol che a poveri,
provvisti di terreni,
per acquistar gli uténsili
sian dati i nuovi beni;

onde s'accresce l'odio
del ricco, il quale attende
l'ora propizia a insorgere
Tiberio lo comprende.

Per renderlo inviolabile,
la plebe, molto grata,
vuole che l'alta carica
gli sia riconfermata.

Scoppia un tumulto: arrivano,
armati fino ai denti,
coi loro servi, i nobili
e i ricchi intransigenti,

che l'infelice uccidono
con molti suoi fidati,
gettandone nel Tevere
i corpi mutilati.

Condannano all'esilio
o a morte ogni seguace
del gran tribuno: il popolo,
intimidito, tace.

Ma quando approva in pubblico
Scipione l'Emiliano,
cognato di Tiberio,
quell'atto disumano,

il vincitore d'Africa
sconta il giudizio stolto:
trovato un dì cadavere,
è senza onor sepolto,

Comincian nuovi torbidi
quando - inatteso scacco -
vedono i ricchi eleggere
tribuno Caio Gracco,

l'altro gioiello: è un giovane
del primo più impetuoso,
ragazzo eloquentissimo,
tenace, ardimentoso.

Da lungo tempo in animo
matura il desiderio
di proseguire l'opera
del fratel suo Tiberio,

Dapprima la giustizia,
di cui sol fino a ieri
era il Senato l'arbitro,
affida ai cavalieri.

Detta e promulga un cumulo
di leggi popolari,
mentre sgomenti tacciono
i nobili avversari;

fa garantire ai poveri
il grano a buon mercato,
sicché gli accorda il popolo
di nuovo il tribunato.

Però, s'aliena gli animi
quando una legge avanza
perché godan gl'italici
della cittadinanza.

Dovendosi ora in Africa
dedurre una colonia,
dove già fu Cartagine,
col nome di Giunonia,

è Caio Gracco all'opera,
per sorte, destinato:
assente lui, nel torbido
pesca il rival Senato.

Il quale cambia tattica,
e dall'opposizione
passa a blandire il popolo
con leggi ancor più buone:

è suo strumento il nobile
tribuno Livio Druso,
che s'accaparra l'animo
del popolino illuso.

Le leggi favorevoli
proposte fanno effetto
ed, in Italia reduce,
Caio non è rieletto.

Grandissimo è il pericolo:
acerrimo rivale
del Gracco, Lucio Opimio
al consolato sale,

e gli ottimati sferrano
un accanito attacco
contro le democratiche
leggi di Caio Gracco.

Accadono disordini:
è ucciso un insolente,
che con discorsi subdoli
vuol sobillar la gente.

I padri allor decretano,
a gran furore in preda,
che alla salute pubblica
il console provveda.

Opimio, con l'esercito,
sull'Aventino sbanda
i pochi fedelissimi
che Caio ancor comanda.

Questi, percossa l'anima
da quel nefando scempio,
da un servo si fa uccidere
in un romito tempio;

e fra il terrore pubblico
esposta è poi nel Foro
la testa del magnanimo,
venduta a peso d'oro.

Cornelia inconsolabile
sopporta il triste fato
con tal grandezza d'animo
che il popolo ammirato

un monumento dedica
alla gran madre in lutto,
con la scritta:" A Cornelia
madre dei Gracchi ": è tutto!

Sempre lo stesso il popolo:
gli eroi persegue o ammazza,
poi li sistema in pubblico,
in una bella piazza!

 

CAIO MARIO – LA GUERRA GIUGURTINA –
I CIMBRI E I TEUTONI - LA GUERRA SOCIALE

Dov'è la virtù semplice
che fulse nel passato?
Dov'è? l'anima eroica
di Lucio Cincinnato?

Dov'è Caio Fabrizio
ch'oro e lusinghe sdegna?
Ormai nella repubblica
la corruzione regna.

Dilagano gli scandali.
Sulla Numidia scissa
i tre nipoti regnano
del grande Massinissa;

Giugurta, crudelissimo,
per quanto uomo d'ingegno,
i due cugini trucida
e ne conquista il regno.

Chiamato a Roma a rendere
ragione ai dirigenti,
ritorna salvo in Africa
a furia di talenti.

Ma si comporta il Numido
con tale tracotanza
che l'indignato popolo
chiede la guerra a oltranza.

Ben sa le consuetudini
il Numida sagace
e dal romano esercito
compra vittoria e pace.

Contro la pace ignobile
il popolo protesta,
fa mettere i colpevoli
sotto severa inchiesta

e il valoroso console
Quinto Metello manda
in Africa a sconfiggere
quel fiero capobanda.

Invano! Allora console
è eletto un Caio Mario,
dei ricchi e, più, dei nobili
temibile avversario.

È l'uomo nuovo, l'unico
che si ritenga in grado
di compiere il miracolo:
è un figlio del contado,

rozzo, ma fiero, energico,
tenace, intransigente;
però, gli brucia l'anima
un'ambizione ardente.

Egli, sbarcato in Africa,
rieduca le file
del rilassato esercito
al grande antico stile;

poi, con sapiente tattica,
sconfigge a più riprese
l'esterrefatto Numida
e n'occupa il paese.

Segue il suo cocchio splendido
il vinto re in catene,
che in fondo a un buio carcere
poi giustiziato viene.

Or, mentre la repubblica
contro Giugurta è in guerra
dai lidi del mar Baltico
terribile si sferra,

sulla vicina Gallia
un popolo germanico
e avanza con grand'impeto,
spargendo ovunque il panico.

Son di migranti barbari
innumeri colonne,
che dietro trascinandosi
vecchi, fanciulli e donne,

cercano il sud ed avidi
di preda e di conquista
ai piè dell'Alpi giungono,
né c'è chi lor resista.

Mandati a opporre un argine
a quelle ignote genti,
l'un dopo l'altro i consoli
ripiegano sgomenti;

e proprio quando ha termine
la guerra giugurtina,
sulle pianure italiche
il barbaro sconfina.

Percorre la penisola
un brivido d'orrore;
solo confida il popolo
nel nuovo vincitore:

e Roma, nel pericolo
unanime e raccolta,
proclama Mario console
per la seconda volta.

Il generale, rapido
recatosi in Provenza,
il rinnovato esercito
addestra con pazienza.

Decide ora dei barbari
il popolo concorde
d'invadere l'Italia
diviso in due grandi orde:

i Cimbri seguirebbero
le elvetiche regioni;
il litorale ligure
i Teutoni e gli Ambroni.

Hanno un immenso esercito
e ben organizzato.
Malio sul basso Rodano
fa un campo trincerato;

sopporta qui dei Teutoni
le inutili molestie,
poi li rincorre celere,
li affronta alle Acque Sestie

e in una memorabile
giornata li distrugge:
non un sol uomo libero
dalle sue mani sfugge.

Frattanto i Cimbri avanzano:
il console collega,
Quinto Lutazio Catulo,
dinanzi a lor ripiega.

I barbari in Val d'Adige
si fermano dapprima:
qual eden incantevole!
qual delizioso clima!

Oh, sono dispostissimi
a far cessar la guerra,
se, solo, avran coi Teutoni
quella divina terra!

E fan saper al console
che questo è il loro sogno.
" I lor fratelli Teutoni
non n'hanno più bisogno! "

Ed anche ai Cimbri miseri
non servirà più nulla:
Mario sui campi Raudii
li assalta e li maciulla.

Detto " novello Romolo ",
cessato l'uragano,
egli diventa l'idolo
del popolo romano.

Ma quando è eletto console
la sesta volta, Mario
governa la repubblica
in modo autoritario.

Impone ai ricchi e ai nobili
degli eccessivi gioghi,
dietro i consigli pessimi
d'alcuni demagoghi,

fra cui primeggian Glàucia
pretore, ed Appuleio,
tribuno violentissimo,
feroce leguleio.

Un giorno Glàucia uccidere
fa Memmo, suo rivale,
che gode in mezzo al popolo
la stima universale;

poiché giustizia chiedono
e insorgono i Romani,
lo stesso Mario sgomina
gli antichi partigiani,

e uccisi i capi vengono
dal popolo in furore.
Ma dopo questi torbidi
s'accorge il dittatore

che s'è alienati gli animi,
e temporaneamente,
parte con un incarico
per il lontano Oriente.

Nuovi tumulti seguono:
nell'anno novantuno,
un Livio Druso, nobile,
eletto vien tribuno.

Egli, animoso, equanime,
a tutti gl'Italiani
concessi vuol gl'identici
diritti dei Romani;

perciò contro si suscita
moltissimi avversarii,
che l'infelice uccidono
per mezzo di sicarii.

Vediamo allor gl'Italici
in armi sollevarsi:
ai più agguerriti popoli,
come i Sanniti e i Marsi,

tengono dietro i Bruzii,
gli Apuli ed i Sabelli;
sol Umbri, Etruschi e Siculi
non seguono i ribelli.

In uno stato autonomo
s'aggruppan gl'Italiani:
batton moneta eleggono
esperti capitani;

a capital trascelgono
la città di Corfinio
ed è il vitello italico
l'insegna del dominio.

Comandano gli eserciti
romani Mario e Silla.
La lega è formidabile
e la fortuna oscilla.

Per cattivarsi i neutri,
a chi ne faccia istanza
Roma concede subito
la sua cittadinanza.

Parecchi defezionano
e Spilla, da legato,
dopo i successi bellici,
adisce il consolato.

Man mano s'assoggettano
gran parte degl'insorti,
ma sul terreno restano
trecentomila morti.

Venne chiamata marsia,
o meglio ancor sociale,
la guerra " inespiabile "
in seguito alla quale

i municipii italici,
scossa l'antica soma,
a mano a mano acquistano
diritti uguali a Roma.

 

MARIO E SILLA - LA PRIMA GUERRA MITRIDATICA –
LA GUERRA CIVILE

Regna sul Ponto un principe
potente, Mitridate,
il quale, insignoritosi
di terre sconfinate,

non si contenta ed occupa
Bitinia e Cappadocia;
in un sol giorno uccidere
fa con brutal ferocia

quanti Romani trovansi
nei suoi dominii; invade,
mercé la flotta, l'Ellade,
che in suo potere cade,

e in Macedonia penetra,
via via fatto più audace
dalle vittorie facili
e dall'aiuto trace.

E salvator lo acclamano
quei luoghi, contristati
dal giogo abominevole
d'iniqui magistrati.

Mentre per la repubblica
l'Oriente va in rovina,
divampa a Roma, tragica,
la guerra cittadina.

Parte per l'Asia il console
Lucio Cornelio Silla
ma Caio Mario il popolo
contro di lui sobilla,

ché, vecchio, ancor farnetica
sogni di gloria e male
sopporta adesso il sorgere
d, un simile rivale.

Publio Sulpicio. fervido
sostenitor di Mario,
tribuno demagogico,
violento e temerario,

fa richiamar il console
ch'è a Nola, indi la guida
della campagna d'Asia
a Caio Mario affida.

Ma Silla con l'esercito
ritorna all'improvviso,
e Publio, il democratico
tribuno, in fuga, è ucciso.

Ad Ostia, travestitosi,
Mario coi suoi ripara,
mentre un decreto, pubblico
nemico lo dichiara.

Silla le leggi revoca
sulpicie, il decadente
Senato riconsolida
e parte per l'Oriente.

Devasta Atene, resasi
di tradimento rea;
le forze mitridatiche
sconfigge a Cheronea;

da qui nella Beozia
s'addentra in un baleno
distrugge un altro esercito
nei pressi d'Orcomèno

e impone patti ferrei
al vinto Mitridate,
il quale deve cedere
le terre conquistate,

senza riscatto rendere
gl'innumeri prigioni
e, d'indennizzo a titolo,
pagar cento milioni.

" E che mi lasci? " supplice
domanda il re. "La man
che decretò d'uccidere
in Asia ogni Romano! "

Silla alla Grecia e all'Asia
gravi tributi impone,
ché amaramente scontino
la loro defezione.

Dispoglia i templi ellenici
dei lor tesori rari,
Delfo, Olimpia, Epidauro:
gli occorrono danari

per rendersi l'esercito
ancora più devoto:
deve tornar in patria,
deve affrontar l'ignoto.

Ché a Roma succedevano
cose tremende! Mario,
abbandonato in Ostia,
randagio e solitario,

per mar giunge in Campania,
dove - le membra nude -
affranto lo ritrovano
in mezzo a una palude.

Legato, innanzi ai giudici
adducono il proscritto;
quelli, esitanti, vedonsi
costretti dall'editto

a far giustizia e impongono
che il disgraziato muoia,
ma non c'è in tutto il popolo
chi voglia esserne il boia.

E solamente, in ultimo,
un servitor barbarico,
un cimbro, o forse un teutone,
s'assume il tristo incarico;

ma quando, a lui volgendosi,
quell'uomo leggendario:
"O sciagurato, uccidere
potrai tu Caio Mario?"

con quella sua terribile
voce gli grida, " No "
il servo dice " ucciderlo,
io pure non potrò ".

I magistrati restano
perplessi; non han cuore
di trattenere in carcere
l'antico salvatore:

ma ch'egli vada a compiere
lontano la sua sorte!
E dicono, togliendogli
dai polsi le ritorte:

- Gl'iddii non ci castighino
però che abbandoniamo
il vincitor dei barbari
al suo destino gramo! -

Mario ove fu Cartagine
approda, ma un littore
subito arriva e gli ordina,
in nome del pretore,

di cambiar aria. Il profugo
alza gli asciutti cigli
su quel soldato e replica:
- Va dal pretore e digli

come hai veduto Mario,
ramingo ed in meschine
vesti, che di Cartagine
se dea sulle rovine! -

Voleva con l'esempio
della città abbattuta,
già di ricchezza splendida,
fortissima e temuta,

e di sé stesso, lacero,
bandito e senza pane,
mostrare il mutar rapido
delle fortune umane!

Mario, in un'isola
coi fuorusciti,
s'accinge a muovere
pei patrii liti.

Ché la repubblica
non è tranquilla;
la guerra, turbina:
partito Silla,

che fu l'esplodere
d'una tempesta,
i democratici
levan la testa.

Ed i due consoli
Cinna ed Ottavio,
allontanandosi
da un patto savio,

in lotta scendono:
Cinna ha la peggio.
Deposto subito
dall'alto seggio,

fugge e a sommuovere
va gl'Italiani,
che sono, in genere,
tutti mariani.

Richiama Mario,
che in fretta e furia,
lasciata l'isola,
sbarca in Etruria

e circondandosi
d'armate turbe
con Cinna e i profughi
marcia sull'Urbe.

V'entra: nell'anima
- quant'è che aspetta! -
gli rugge il dèmone
della vendetta.

Feroce dèmone:
strade, palagi,
templi s'arrossano
d'inique stragi;

d'Ottavio console
la mozza testa
data è allo scempio
d'un'orda in festa.

Ridotte in cenere
sono la villa
e le magnifiche
case di Silla.

Con Cinna il settimo
suo consolato
adisce Mario,
mentre il Senato,

quello medesimo
il quale un dì
fra il plauso Pubblico
Mario bandì,

fra il plauso identico
(la pelle è cara!)
nemico pubblico
Silla dichiara.

Ma il nevrastenico
vecchio, ammalato,
da sogni orribili
perseguitato,

solo pochissimi
giorni trascorsi,
muore nell'incubo
dei suoi rimorsi.

Tenace, intrepido,
intelligente,
a fama altissima
salì dal niente,

ma non vastissime
ricchezze attinte,
superbe cariche,
battaglie vinte

placaron l'animo
di quel leone,
morso dall'aspide
dell’ambizione.

Il suo partito domina,
quando si sparge intorno
l'annunzio spaventevole
che Silla è di ritorno

anzi, è sbarcato a Brindisi
con molti legionari
a lui devoti, carichi
di gloria e di danari,

che, vincitori in Asia,
la guerra han per trastullo.
Accanto a Silla marciano
Pompeo, Crasso e Lucullo.

Muovon contr'essi i consoli,
ma sono sgominati
nel Lazio e in Alta Italia
da Silla e suoi legati.

Allora Mario, il giovane,
mozzate alcune teste,
fugge da Roma rapido
chiudendosi a Preneste.

Dapprima, per soccorrerlo
va Ponzio Telesìno,
poi contro Roma volgesi
in modo repentino.

I suoi sanniti marciano
esacerbati e cupi,
decisi di distruggere
quella " tana di lupi ".

Arriva Silla, celere,
a contrastargli il passo,
e, sopratutto ad opera
del suo legato Crasso,

vince il nemico esercito
presso porta Collina,
salvando l'inviolabile
città dalla rovina.

Preneste cade e Mario,
perduto ormai, s'uccide.
Ma non per questo cessano
le stragi fratricide.

Giorni su giorni seguono
di crudeltà mai viste;
il vincitor fa appendere
nel Foro certe liste

su cui segnati vengono
i condannati a morte:
famiglie intere seguono
una tremenda sorte.

I discendenti perdono
ogni civil diritto;
i beni si confiscano;
chi aiuto dà a un proscritto,

sia figlio anche, o sapendolo
nascosto non lo addita,
è posto egli medesimo
al bando della vita.

Chi uccide invece il reprobo,
ha in premio due talenti:
dilagan per l'Italia
delitti e tradimenti.

Regna il terror sugli animi
prostrati; non c'è tetto
su cui non gravi l'incubo
sinistro del sospetto.

Creato, senza limite
di tempo, dittatore,
Silla è assoluto autocrate,
non mai concesso onore.

Lo Stato, assai caotico,
riordina il tiranno;
depone, indi, la porpora,
tenuta appena un anno,

e vive in modo semplice,
non vuoI nessuna scorta,
né sentinelle vigili
dinanzi alla sua porta.

Malgrado ciò, non vittima
d'un colpo di pugnale,
ma muore nel suo talamo
di morte naturale.

Ebbe stupende esequie:
intorno a corpo d'uomo
non mai tanto bruciarono
incenso e cinnamomo.

Sepolto in Campo Marzio,
come gli antichi re,
la favolosa epigrafe,
ch'egli dettò per sé,

sulla sua tomba incisero:
" Non si lasciò emulare
da nemici nel nuocere,
né mai da amici nel beneficare ".

 

SPARTACO E I SERVI

Due volte la repubblica
aveva debellati
in Asia ed in Italia
i servi sollevati.

Mentre il Senato in ansia
deve mandar Pompeo
ad affrontar l'esercito
d'un profugo plebeo

che nella Spagna accampasi
Sertorio, invitto e prode,
un'altra formidabile
rivolta a un tratto esplode.

Né questa volta trattasi
di servi o agricoltori:
è gente usa ad uccidere
son fieri gladiatori,

prigioni galli, teutoni,
numidi, il cui dovere
è quello di combattere
tra loro o con le fiere,

per divertire il pubblico
tifoso, e il cui destino
d'essere tratti esanimi
dal circo con l'uncino,

quando l'urlante popolo,
dopo un duello perso,
li dannerà, schernendoli,
col pollice riverso.

Fra i gladiatori, a Capua,
era famoso un trace,
denominato Spartaco,
forte, superbo, audace.

Sdraiato sotto i portici,
o al sole di Campania,
nelle brevi ore libere,
coi suoi compagni smania;

ricorda lor la patria
lontana ed infelice,
che più non rivedrebbero,
le mogli, i figli e dice:

-Poiché siam servi e miseri
e un fato disumano
c'impone di soccombere
con una spada in mano,

è meglio assai combattere
su un campo di battaglia
che per l'iniquo gaudio
di questa vil plebaglia! -

E così fanno: armatisi
di spiedi e di coltelli,
un dì da Capua fuggono
settanta e più ribelli.

Alla lor testa è Spartaco:
la nuova si diffonde
ed è un continuo accorrere
di torbe furibonde.

Un'orda innumerevole
di servi e gladiatori
sconfigge molti eserciti
di consoli e pretori;

onde il Senato vedesi
costretto a un grave passo:
tolto il comando ai consoli,
lo affida a Marco Crasso.

Giunto in Calabria, Spartaco
vuole passar lo Stretto
per sollevare l'isola:
fantastico progetto,

per cui paga in anticipo
l'aiuto dei corsari,
ma questi lo tradiscono,
tenendosi i danari.

Là, in fondo alla penisola,
Crasso gl'insorti blocca,
ma un suo tenente incauto
una sconfitta tocca.

I servi, imbaldanzitisi
pel colpo ad esso inferto,
affrontano l'esercito
romano in campo aperto,

per quanto il saggio Spartaco,
che vuol seguir la strada
verso la patria, i torbidi
compagni dissuada.

Viene a battaglia e indomito
il trace gladiatore,
mentre i compagni fuggono,
solo combatte e muore.

I prigionieri vengono
trattati in modo atroce:
fa il vincitor configgere
seimila servi in croce.

Pompeo, di Spagna reduce,
è in Alta Italia e quivi
incontra e in breve sgomina
i servi fuggitivi.

Crasso, a cui spetta il merito,
(quel povero figliolo
ha fatto dei miracoli
per vincere da solo)

raccoglie in parte il premio
che tutto a lui compete,
ed è Pompeo che i lauri
della vittoria miete.

 

POMPEO - I PIRATI -
LA GUERRA MITRIDATICA

Con flotte e con milizie
potenti organizzati,
i mari intanto infestano
terribili pirati.

Essi in Cilicia ammucchiano
ricchezze colossali,
han cittadelle solide
e porti ed arsenali.

Non solo in mare predano
le merci ed i velieri,
ma sono pure l'incubo
dei popoli costieri.

Ormai non ha più limiti
l'audacia lor mal doma:
sono arrivati a spingersi
fin sotto ad Ostia, a Roma!

È quindi indispensabile
eliminar la piaga,
che paralizza i traffici,
che sempre più dilaga.

Ottien Pompeo l'incarico,
con dittatura piena
dalle colonne d'Ercole
fino alla costa armena.

Egli si mette all'opera
ed in tre soli mesi
il mar del tutto libera
da quei cattivi arnesi.

Dopo la gesta eroica,
il popolo romano
l'impresa d'Asia aggiudica
al grande capitano.

Pompeo, con forze minime,
sconfigge Mitridate
dove fu poi Nicopoli,
non lungi dall'Eufrate.

Soggioga Armenia e Caucaso,
la Colchide fiorente,
debella sul mar Caspio
un popolo potente;

strappa la Siria a torbidi
ed avidi dinasti
e, tutti a Roma incorpora
quei territori vasti.

Va ancora avanti, penetra
nel regno di Giudea,
che il principe Aristobulo
a Ircano contendea,

e rende tributarie
quelle città remote,
lasciando a Ircano il titolo
di sommo sacerdote.

E poi che a beneplacito
dispone d'ogni cosa,
s'accinge anche ad invadere
l'Arabia favolosa;

ma deve retrocedere,
ché il vecchio re del Ponto,
formato un altro esercito,
a guerreggiar è pronto.

Tradito in modo subdolo
dal figlio suo Farnace,
che in premio ha il solo Bosforo
ma si contenta e tace,

re Mitridate a un tossico
ricorre disperato,
ma invano, ché da giovane
vi s'era abituato;

e, non volendo rendersi
prigione, dà di piglio
alla sua spada e uccidesi,
maledicendo il figlio.

Pompeo va prima in Ellade,
si mette poi in cammino
verso l'Italia, carico
di gloria e di bottino;

ed ha trionfi splendidi
e il titolo di Magno.
Mai guerra alla repubblica
portò maggior guadagno.

 

LA CONGIURA DI CATILINA

Intanto la repubblica
è in piena decadenza:
non più la legge domina,
ma i brogli e la violenza.

Durante i lunghi torbidi,
se molti cittadini
con la confisca persero
le terre ed i quattrini,

altrettanti salirono
in rapida fortuna,
non solo senza meriti,
senza fatica alcuna,

ma di delitti ignobili
macchiandosi:costoro
han fatto un folle sperpero
delle ricchezze loro

ed or se la passeggiano
senza un sesterzio in tasca,
fiutando il vento, a cogliervi
odore di burrasca.

La gente immiseritasi
per opera di Silla
contro il Senato autocrate
il popolo sobilla,

ché tutta ormai rigurgita
l'Italia di proscritti,
i quali in patria tornano
randagi e derelitti.

Aggiungi molti giovani
patrizi dissoluti,
che, per pagare i debiti
da cui sono premuti,

non c'è malvagio crimine
che lascino intentato,
pur di potersi rendere
padroni dello Stato.

Fa parte di questi ultimi
un Lucio Catilina,
nato di stirpe nobile,
già ricco, ora in rovina.

Terribile carnefice
di Silla, di sua mano
ha fatto a pezzi - dicono -
suo figlio e un suo germano:

per tanti insigni meriti,
quel nobile signore
aspira ad esser console,
forse anche imperatore;

e poi ch'eletti vengono
Antonio e Cicerone,
! a capo d'un tristissimo
complotto egli si pone.

Fa un piano demoniaco:
a lui si sono uniti
quanti in città si trovano
sillani impoveriti,

servi ribelli e profughi,
plebei stanchi, patrizi
senza risorse, carichi
di debiti e di vizi,

e la canaglia anonima
che brulica intristita
e turbolenta ai margini
melmosi della vita.

Con essi vuole insorgere,
dar fuoco a ogni quartiere
terrificando il popolo,
e assumere il potere.

Della congiura subdola
venuto a cognizione,
con dire eloquentissimo
lo investe Cicerone:

- E fino a quando, perfido,
della pazienza nostra
abuserai?...- Quel cinico
la sua freddezza mostra,

all'indignato console
con molto vilipendio
dicendo:- E in questo stupido
favoleggiato incendio,

che avresti mai da perdere,
i beni ed il villino,
tu, nato in una misera
casupola d'Arpino?-

Ma balza su la curia
e quell'iniquo grida
nemico della patria,
nefando e parricida.

Coi suoi compagni, cauto,
s'invola Catilina,
tentando di raggiungere
la Gallia Cisalpina.

A Roma tratti in carcere,
parecchi congiurati
per ordine del console
son subito strozzati;

ma il capo, per miracolo
scampato a tempo al boia,
con un minuto esercito
rifugiasi a Pistoia.

Antonio e Quinto Celere
raggiungono l'audace,
lo vincono e l'ammazzano
con ogni suo seguace;

però - riconosciamolo -
come un romano vero,
come un eroe magnifico
morì quel masnadiero.

A Roma Marco Tullio,
il re degli oratori,
di padre della patria
ha il titolo e gli onori,

da quello stesso popolo
che un giorno farà festa
dinanzi allo spettacolo
della sua mozza testa!

 

GIULIO CESARE - LA GUERRA GALLICA –
LA GUERRA CIVILE - LA DITTATURA

Fra gli altri nobili,
da Silla venne
proscritto un giovane
circa ventenne,

un consanguineo
della consorte
di Caio Mario:
per lui la sorte

volle che in lacrime,
dolci e fatali,
intercedessero
le pie Vestali.

E perdonandogli,
ma a malincuore,
disse il terribile
massacratore:

" Questo bel giovane,
secondo me,
Marii moltissimi
racchiude in sé ".

È Gaio Giulio Cesare:
d'ingegno poderoso,
colto, elegante, affabile,
audace e generoso,

ricopre alcune cariche,
per cui si mette in vista
ed il favor del popolo
in breve si conquista.

Si mostra, dopo, un emulo
dei grandi capitani,
riuscendo a sottomettere
i fieri Lusitani.

A Roma riconcilia
Crasso e Pompeo, rivali,
entrambi potentissimi
e ricchi generali.

Cesare, eletto console
con il favor plebeo,
promulga leggi comode
per Crasso e per Pompeo

e, con l'appoggio valido
di questi, a sé destina
come provincia illirico
e Gallia Cisalpina.

Ma molti stigmatizzano
in pubblico e in privato
gli effetti catastrofici
di quel triumvirato.

Fra i più temibili
son cicerone
e quella pittima
del buon Catone.

Questi, più rigido
del suo bisnonno,
a quei triumviri
disturba il sonno

(quei Porcî, è inutile
tutti una razza!);
ma Giulio Cesare
se ne sbarazza,

da diplomatico
molto sapiente,
con un incarico
per l'Oriente.

Indi fa eleggere
tribuno un Clodio,
arruffapopolo,
ch'ha Tullio in odio

e che, accusandolo
come assassino,
l'antico console
manda al confino.

Dall'Alpi sulla Gallia,
come un torrente in piena,
un imponente esercito
d'Elvezi si scatena:

da Roma in Val di Rodano
in otto giorni arriva,
vince ed insegue Cesare
quell'orda fuggitiva.

Gli Svevi ed i Germanici
caccia al di là del Reno
e poi la Gallia Belgica
invade in un baleno.

Passa foreste vergini,
luoghi melmosi, impervii,
vincendo i ferocissimi
Suessioni, Ambiani e Nervii.

Poi batte gli Aremòrici,
i Venedi, i Britanni:
la Gallia è resa suddita
in meno di due anni.

Colmo di gloria, Cesare
torna in Italia; quivi,
Pompeo contr'esso ha in animo
propositi cattivi

e già contro il suo emulo
ha fatto qualche passo;
ma a Lucca si riaccostano
Pompeo, Cesare e Crasso.

Riconfermato è Cesare
in Gallia ed in Illiria;
ha le province iberiche
Pompeo, Crasso la Siria.

Ma questi, giunto in Asia,
si fa dai Parti attrarre
e in modo deplorevole
è vinto e ucciso a Carre.

Cesare invece in Gallia,
di nuovo vincitore,
fra quelle genti semina
la strage ed il terrore.

Poi contro la Britannia,
favoleggiata terra,
là fra le brume nordiche,
le invitte aquile sferra.

Ma fra le tribù galliche
è nata una sommossa:
l'eroe Vercingetorige
le guida alla riscossa.

Da immense moltitudini
di barbari premuto,
non ha più scampo Cesare:
l'esercito è perduto!

Ma dopo inenarrabili,
drammatiche vicende,
trionfa ancora il genio
e il gallo eroe s'arrende.

Però la lotta séguita
e solo nel cinquanta
la resistenza gallica
è interamente infranta.

Se il mondo segue attonito
le imprese memorande,
a Roma molti invidiano
la fama di quel grande.

E contro Giulio Cesare
coi nobili congiura
Pompeo, vedendo sorgere
quell'astro che l'oscura,

nel mentre che la torbida
repubblica s'avvia
verso un fatal disordine,
vicino all'anarchia.

Vuol Cesare una proroga,
scaduto il suo comando.
- Deponga l'armi subito
o sarà messo al bando -

tal del Senato è l'ordine,
e il sette di gennaio
han dittatura i consoli
contro il ribelle Caio.

Questi, per tutta replica,
con una sua legione
(il dado è tratto!), rapido,
traversa il Rubicone:

è questo un fiumiciattolo
col quale a sud confina
col resto dell'Italia
la Gallia Cisalpina.

L'Urbe è sconvolta e spasima
nell'ansia dell'attesa,
mentre il Senato incarica
Pompeo della difesa;

ma questi, con l'esercito,
fa vela per l'Epiro,
colto anche lui dal panico
che si diffonde in giro.

Cesare, giunto, è l'arbitro
di Roma, ma, al contrario
di quanto fatto avevano,
vincendo, Silla e Mario,

porta la pace e l'ordine
con modi così miti
che si cattiva gli animi
commossi dei Quiriti.

Poi, senza tanto strepito,
si reca nella Spagna
e il pompeiano esercito
sconfigge e si guadagna.

Torna in Italia e a Brindisi
per l'Epiro s'imbarca:
audace e celerissimo,
il mar, non visto, varca,

benché dall'Adriatico
fino al lontano Egeo
perlustri l'acque, vigile,
la flotta di Pompeo.

Con poche forze a Farsalo,
città della Tessaglia,
il poderoso esercito
del gran Pompeo sbaraglia.

I vincitori trovano
le tende dei nemici
cinte di fiori e d'edera:
sì certi eran gli auspici

d'una vittoria facile,
che, fra banchetti e canti,
dai pompeiani incauti
fu celebrata avanti!

Perdona Giulio Cesare
ai vinti e coi prigioni,
anzi, vieppiù fortifica
le stesse sue legioni.

Regna in Egitto un giovane
sovrano, Tolomeo,
il quale dà ricovero
al profugo Pompeo;

fa uccider, dopo, l'ospite
e, chiusala in un plico,
offre in omaggio a Cesare
la testa del nemico;

ma dell'eroe magnifico
singhiozza alla memoria
Cesare, maturatosi
al sol di quella gloria.

Però l'inesorabile
vendicator destino
agita già la folgore
sul capo all'assassino.

Questo signore litiga
con una sua sorella,
Cleopatra, avvenentissima,
divinamente bella.

Sedotto dalla grazia
di questa principessa,
il dittator magnanimo
del caso s'interessa

e in modo perentorio
impone il suo giudizio:
sul trono entrambi siedano,
regnando all'uso egizio.

Visto ch'ha Giulio Cesare
pochissime legioni,
quel re, ch'è molto ingenuo,
si fa delle illusioni:

poiché lui solo cingere
vuol la corona avita,
insorge col suo popolo,
perdendo regno e vita.

Il vasto regno egizio,
pacificato ormai,
rimane a quella femmina,
causa di tanti guai!

Farnace, intanto, il perfido
figliuol di Mitridate,
le antiche terre toltegli
ha già ricuperate.

Cesare, andato in Asia,
a Zela i suoi nemici
in sol quattr'ore sgomina
e " veni, vidi, vici ",

dopo la memorabile
vittoria, com'è fama,
scrive al Senato attonito,
che dittator l'acclama.

Lungi però dal cedere,
i capi pompeiani
con Giuba s'alleavano,
il re dei Mauritani.

Cesare approda in Africa,
alla novella sfida,
e vince a Tapso: in Utica
Catone si suicida.

Giuochi, banchetti pubblici,
elargizioni ingenti,
quattro trionfi chiudono
quei leggendari eventi.

Perdona a tutti Cesare
e a molti suoi nemici,
fra i quali Bruto e Cassio,
concede onori e uffici.

La Spagna ora sollevano
i figli di Pompeo,
due valorosi giovani
chiamati Sesto e Cneo:

a Munda, accorso subito,
quel fulmine di guerra
con mosse accorte e rapide
i due fratelli atterra.

Ma dalla strage orribile
Sesto poté scampare:
intrepido, a combattere
continuerà sul mare.

Roma, in un'orgia splendida
di gloria, il vincitore
accoglie salutandolo
perpetuo dittatore.

Son sue tutte le cariche;
gli, vengon decretati
divini onori, statue,
poteri illimitati.

È sacro ed inviolabile,
signore onnipotente:
la prona terra in estasi
adora un dio vivente.

Già condottier d'eserciti,
ora governa il mondo
con la sua mano ferrea,
col suo pensier profondo.

Con cura infaticabile
riordina lo Stato;
apre a liberti e a barbari
le soglie del Senato;

diffonde con colonie
la civiltà romana
oltre i confini italici;
pròvvide leggi emana;

riforma il calendario,
dà impulso alle belle arti.
S'appresta infine a muovere
in guerra contro i Parti

ed altri innumerevoli
progetti ancor matura,
allorché cade vittima
d'una fatal congiura.

Un giorno Marc'Antonio,
con leggerezza estrema,
durante i giuochi, a Cesare
offre il regal diadema;

restando freddo il pubblico,
il dittator rifiuta:
allor con lunghi applausi
la folla lo saluta.

Il fatto sintomatico
valeva ad un richiamo:
- Bada, sei grande, Cesare,
ma re non ne vogliamo! -

E pur sentendo il fascino
del gran conquistatore,
molti in quell'uomo piangono
la libertà che muore,

ed un complotto tramano,
mettendo a capo Bruto,
dai nobili e dal popolo
stimato e benvoluto.

Già suo nemico, Cesare
l'amò come un suo figlio,
dandogli onori e cariche
invece dell'esiglio.

Funesti, irreparabili,
fatali idi di marzo!
Senza sospetti, Cesare
col consueto sfarzo

scende alla Curia. In séguito
a un sogno scombinato,
la moglie sua Calpurnia
lo aveva scongiurato

che non volesse in pubblico
uscir quella mattina;
gli aveva detto: - Guàrdati! -
l'arùspice Spurìna.

I congiurati, strettisi
intorno al dittatore
per appoggiar la supplica
che porge un senatore,

i pugnali brandiscono
al cenno convenuto;
reagisce prima Cesare,
ma quando vede Bruto,

ch'egli adottò, facendone
un altro semidio:
" Tu pure " si disanima
" o Bruto, figlio mio! "

e allora cade, avvoltosi
dell'ampia toga il viso,
ai piedi della statua
di Pompeo Magno, ucciso.

 

FINE DELLA REPUBBLICA – MARC' ANTONIO E OTTAVIO

La morte tragica
del dittatore
dapprima suscita
sdegno e stupore.

Ma, perché l'ordine
non sia turbato,
scende a pacifici
patti il Senato:

abbian carattere
di legge gli atti
di Giulio Cesare,
siano a lui fatti

onori funebri
spettacolosi
e se ne celebri
l'apoteosi

con pompa splendida;
ma i congiurati,
lungi dall'essere
perseguitati,

lodati vengano,
serbando pure
le loro altissime
magistrature.

Questa politica
di compromesso,
tradotta in pratica,
non ha successo.

Ché, se già notasi
grande fermento
allorché, in lacrime,
del testamento

lettura pubblica
dà Marc'Antonio
(lasciando Cesare
del patrimonio.

gran parte al popolo),
quando nel Foro
s'espone il feretro
con coltri d'oro

e Antonio console
con molta foga
perora ed agita
la rossa toga

del nume e i perfidi
cospiratori
bolla col titolo
di traditori,

irrefrenabili
scoppiano l'ire:
Bruto e i suoi complici
devon fuggire.

Antonio domina
la situazione:
di Roma resosi
solo padrone,

poi che quei torbidi
fomentò ad arte,
prende di Cesare
tesori e carte.

Il sopraggiunto Ottavio,
erede e pronipote
di Cesare, è da Antonio
lasciato a mani vuote.

Ma Ottavio, anzi, ora Cesare
Ottaviano (come,
appena a Roma, affrettasi
a trasformare il nome)

per quanto giovanissimo
- non ha che diciott'anni -
è astuto e inarrivabile
nell'arte degli inganni.

E pretendendo Antonio
la Gallia Cisalpina,
essendo la più comoda
perché la più vicina,

nasce una guerra: Ottavio
intriga ed ha l'incarico
di debellar coi consoli
l'esercito di Marco.

I consoli soccombono,
ma Ottavio al loro fianco
sconfigge Antonio a Modena
e, dopo, a Castelfranco.

Però si salva e, rapido
varcate l'Alpi, Antonio,
congiuntosi con Lepido,
minaccia un pandemonio.

Ottavio, eletto console
per la fatal concione
che in suo favor pronunzia
il vecchio Cicerone,

di muover con l'esercito
contro i ribelli finge,
ma, con astuta tattica,
con essi un patto stringe.

E questo potentissimo
secondo triumvirato
divien l'incontrastabile
padrone dello Stato.

Sfogando vecchie ruggini,
rancori personali,
i tre distribuiscono
condanne capitali.

Poi contro Bruto e Cassio,
recatisi in Oriente,
Ottavio e Antonio muovono
irresistibilmente.

Nel campo, fra le tenebre,
il gran repubblicano
- Bruto -una notte sorgere
vede un fantasma strano:

" Fantasma - egli l'interroga -
che vuoi? chi sei tu mai? "
" Il tuo cattivo genio
e tu mi rivedrai

a Filippi! "; Accampatasi
in questo luogo, infatti,
di Bruto e Cassio furono
gli eserciti disfatti.

I due, per non arrendersi,
s'uccidon sull'istante,
piangendo la repubblica
con loro agonizzante.

Andato in Asia, Antonio,
in cerca di danari,
per dar gl'indispensabili
compensi ai legionari,

cita Cleopatra a rendere
ragione dell'aiuto,
a danno dei triumviri,
prestato a Cassio e a Bruto.

Ma fa l'astuta femmina
dei vezzi suoi tesoro:
sul fiume Cidno naviga
sopra una barca d'oro,

dai lunghi remi argentei,
dalle purpuree vele,
mentre su un letto gemmeo
si culla la fedele

di Venere, bellissima,
fra ninfe ed amorini,
fra deliziose musiche
e balsami divini.

Dalle due rive il popolo
meravigliato ammira:
nelle sue reti perfide
Cleopatra Antonio attira

e questi in Alessandria,
folle e felice schiavo,
ebbro d'amore e d'estasi,
passa il suo tempo ignavo.

Intanto a Roma Ottavio
ha una fortuna immensa;
terre private e pubbliche,
in dono ai suoi dispensa

e, soffocati i torbidi,
va contro Antonio, il quale
si sveglia e più non tollera
le mire del rivale.

Intervenuti i consoli,
si firma ancor la pace;
però, fra i due triumviri
l'accordo è assai fugace,

per quanto Ottavio, a renderlo
solenne, abbia ad Antonio
la pia sorella Ottavia
concessa in matrimonio.

Ottavio insieme a Lepido,
si volge contro Sesto
e dopo lunghi triboli
si libera di questo.

Poi, mentre Marc'Antonio
è in guerra contro i Parti,
toglie i soldati a Lepido
per mezzo di male arti,

gli fa deporre il titolo
e inerme e spodestato
manda il collega a vivere
da semplice privato.

Or, le faccende pubbliche
lasciate in abbandono,
Antonio in Alessandria
siede su un aureo trono

con la regina egizia,
che sempre più lo avvince,
e i di lei figli nomina
re delle sue province.

Dinanzi a tanto scandalo,
tutto il Senato, unito,
depone da triumviro
quel satrapo impazzito.

Antonio affronta ad Azio
la flotta ottaviana:
a quel duello tragico
assiste la sovrana;

ma questa, mentre l'esito
è tuttavia indeciso,
colta da folle panico,
fa vela all'improvviso.

Antonio, ormai dimentico
d'ogni dovere, lascia
quelli che per lui muoiono
nel dubbio e nell'ambascia,

per inseguir frenetico
verso il lontano, Egitto
quella leggiadra femmina...
che aveva il naso dritto:

gli eventi si sarebbero
mutati, in conseguenza,
(in meglio, in peggio? Ai posteri
la solita sentenza...)

se il naso - così dicono -
lo avesse avuto storto.
Da cosa può dipendere
la Storia! È uno sconforto!...

Cleopatra, rifugiatasi
in un sepolcro, accorta,
fa dai suoi fidi spargere
la voce ch'ella è morta.

Alla notizia, credulo,
Antonio delirando,
pieno d'angoscia e d'impeto,
si getta sul suo brando:

portato nel ricovero
dove Cleopatra attende,
fra le sue braccia, agl'inferi
la folle anima rende.

Cerca la donna perfida
di lusingare Ottavio
con i suoi vezzi lùbrici,
ma quel ragazzo è savio!

Perduta allor vedendosi,
la femmina fatale,
per non seguir di Cesare
il carro trionfale,

stesa su un letto eburneo,
il seno ancor fiorente
porge ad un bacio, l'ultimo:
il bacio d'un serpente!

 

L'IMPERO

CESARE AUGUSTO

Col trionfo d'Ottavio,
un'altra età comincia.
Dal vinto Egitto reduce,
ridottolo a provincia,

egli non trova ostacoli
al piano che matura:
autorità monarchica,
perpetua dittatura.

Però, di Giulio Cesare
men grande ma più accorto,
per gradi egli sa giungere
all'agognato porto,

facendo sì, che il popolo
non se n'avveda o quasi,
e ad ogni nuova carica
rinsalda le sue basi.

È console, proconsole
a vita, imperatore
(o capo dell'esercito),
tribuno e poi censore;

infine, morto Lepido
nel tredici, otterrà
di massimo pontefice
la somma potestà.

Ha dal Senato un titolo
non mai concesso: Augusto;
ma si dimostra semplice,
buono, discreto e giusto.

Con un decreto revoca
le antiche proscrizioni,
largheggia con il popolo
in grano, in feste, in doni.

Adorna Roma d'opere
grandiose e di buon gusto:
è tutta templi e portici
l'alma città d'Augusto.

Sotto il suo regno prospero,
durato nove lustri,
fiorisce la penisola
di letterati illustri,

fra cui Livio, lo storico
vibrante di passione,
e, fra i poeti, Orazio,
Virgilio e il buon Nasone.

Uomo assai ricco ed intimo
d'Augusto, Mecenate
versa sesterzi ai poveri
poeti: oh, età beate!

S'apre con questo principe
prudente e perspicace
un periodo benefico
di sospirata pace.

Ma occorre sottomettere
dei popoli irrequieti,
sull'Alpi, ancora liberi:
Covi, Salassi, Reti.

Ancora più temibili
dei bellicosi alpini,
i barbari germanici
minacciano i confini:

Druso e Tiberio muovono
contr'essi una campagna
spietata, impadronendosi
della Germania magna.

Ma dopo, sollevatisi
agli ordini d'Arminio,
i barbari sconfiggono,
facendone sterminio,

il poderoso esercito
del generale Varo,
che si suicida; Cesare,
a quell'annunzio amaro,

sembra impazzire e, pallido,
in preda a convulsioni,
va ripetendo: "Rendimi,
Varo, le mie legioni! ".

Ma contro i Parti, in cambio,
le sue forze rivolte,
li vince e si fa rendere
le insegne a Crasso tolte.

Angusto, autor magnifico
della commedia umana,
morì l'anno quattordici
dell'era cristiana.

Sotto il suo regno fervido
di gloria e d'epopea,
nasceva in una povera
città di Galilea

Quei che in un mondo saturo
di sangue e d'empietà,
pregando " pace agli uomini
di buona volontà ",

sognò, sublime martire
dall'alto d'una croce,
di dissipar le tenebre
del secolo feroce.

 

IMPERATORI DI CASA GIULIA - TIBERIO E CALIGOLA

Succede al morto Cesare
Tiberio, suo figliastro.
Questi, finché fu vivida
la luce di quell'astro,

seppe mostrarsi un principe
magnanimo e benigno,
soldato valentissimo
e degno del patrigno.

Dapprima, ammutinatesi
sul Reno le legioni,
prudente, egli dissimula
le sue vere intenzioni,

per cui ricusa il titolo
d'imperator: lo Stato,
come in antico, reggono
i consoli e il Senato.

Ma un generale, il giovane
nipote del sovrano
ristabilito l'ordine,
penetra in suo germano

e in tre campagne vendica
Varo, vincendo Arminio
e immense terre barbare
tenendo in suo dominio.

Lo spirito di Cesare
quel condottiero guida :
il nome di Germanico
tutta l'Italia grida.

Tiberio, mal fidandosi
di quel sole nascente,
richiama allora il giovane,
mandandolo in Oriente;

mentre qui ancora battesi
con rinnovata lena.
per ordine del principe,
Pisone l'avvelena.

Accompagnato in patria,
verso l'eterna requie,
dal riverente popolo
ha favolose esequie:

il pubblico, che a Brindisi
gremisce la marina
parata a lutto, applaude
la vedova Agrippina;

i capitani e i consoli,
dai lacrimanti volti,
a Roma l'urna portano
coi fasci capovolti

e dove passa il feretro,
come dinanzi ai numi,
immensi roghi bruciano
di vesti e di profumi.

La morte di Germanico
rassicurò Tiberio,
che dové dirsi in animo:
Facciamo un po' sul serio!

Lasciandosi dirigere
dal furbo e disumano
prefetto del pretorio,
chiamato Elio Seiano,

e dalla madre Livia,
crudele ed ambiziosa,
rende alla corte e al popolo
la vita spaventosa.

Elio Seiano, cupido,
perverso adulatore,
diventa presto l'anima
del vecchio imperatore

e ormai non ha più limiti
la sua potenza, tanto
che dell'augusto Cesare
sogna il purpureo manto.

Elimina gli ostacoli:
fa uccidere l'intruso
figliuolo di Tiberio,
erede al trono, Druso,

e i figli di Germanico;
scampa soltanto un Caio
che sarà poi Caligola,
altro tremendo guaio!

Per aver campo libero
ai suoi delitti, fa
punir di morte il crimine
di lesa maestà:

un gesto, un motto equivoco
è come un attentato
e al carcere o al patibolo
conduce difilato.

E nei ritrovi pubblici,
nel Foro, nelle vie,
nelle case medesime
è un pullular di spie.

Chi piange sulle vittime
segue la loro sorte;
e, i beni confiscandosi,
son condannate a morte

persone ragguardevoli
per nascita e per censo:
così Seiano accumula
un patrimonio, immenso.

Poiché Seiano giudica
che l'ora sia matura,
contro lo stesso Cesare
ordisce una congiura,

mentre costui, nell'isola
di Capri ove dimora,
le gioie della crapula
con gl'intimi assapora.

Ma, sospettoso e vigile,
saputo di quel piano,
manda al Senato l'ordine
d'incarcerar Seiano.

Contro il prefetto ignobile
l'ira repressa esplode:
il furibondo popolo
contro il suo reo custode

si leva, trucidandolo,
e tira dopo il collo
a tutti i suoi, dal genero
all'ultimo rampollo.

Prefetto del pretorio
Macrone or è, peggiore
- se questo è mai possibile -
del suo predecessore.

Il principe, ammalatosi
al Capo di Miseno,
non vuol vedere i medici,
temendo del veleno;

un dì sviene e Caligola,
credendolo già morto,
veste la sacra porpora:
Tiberio era risorto!

Caio e Macrone restano
terrificati e muti;
poi dicon:- Sistemiamolo,
se no, siamo perduti! -

E ad evitar la furia
del proprio principale,
Macrone allor lo soffoca
per mezzo d'un guanciale.

Tra feste indescrivibili,
con rinnovato ardore
saluta in Caio il popolo
il nuovo imperatore.

Nato in campo e Caligola
chiamato pei calzari
che usò portar da piccolo
in mezzo ai militari,

è figlio di Germanico
e come tale sacro
al popolo e all'esercito
sfuggì solo al massacro

della sua casa. Ha un'anima
d'oro, modesta e mite...
fin quando a scombinargliela
verrà la meningite!

Ed il dolor del popolo
rasenta la follia
quand'è colpito il principe
da quella malattia:

brucian nei templi vittime
preziose; si raccoglie
tutta una folla trepida
presso le auguste soglie.

Guarisce, sì, Caligola,
ma, uscito di cervello,
trasforma l'Urbe Massima
in pubblico macello.

Ammazza chi gli càpita;
frenetico, protesta:
" Ma perché dunque il popolo
non ha una sola testa? "

Durante gli spettacoli,
innocui spettatori
sono costretti a battersi
coi fieri gladiatori,

o in pasto alle fameliche
belve son dati a un tratto,
per soddisfare un subito
capriccio di quel matto.

Fattosi dio, vuol vittime
e templi e sacerdoti,
e guai se non accorrono
legioni di devoti!

Perle orientali stempera
nei prelibati vini;
navi di cedro fabbrica,
con splendidi giardini,

con ampie vele seriche,
con poppe eburnee e d'oro.
In breve, di Tiberio
dilapida il tesoro

e firma innumerevoli
sentenze di supplizi,
o per rifornirsi - è comodo! -
o coi beni dei patrizi.

Dà a un suo cavallo il titolo
di sommo sacerdote,
vuol che su argentea polvere
poggi le auguste piote.

Ossessionato in seguito
da una tremenda smania
di gloria, con esercito
potente va in Germania,

portando seco musici
e ballerine a frotte,
e pugna contro gli alberi,
romano don Chisciotte.

Passa in Britannia e semplici
conchiglie vi raccoglie,
del soggiogato oceano
come superbe spoglie;

dopo, il trionfo celebra
fra mai vedute feste,
condite, com'è logico,
da un ruzzolar di teste.

Poiché per tutti è un incubo
quel mostro coronato,
fra l'altro giovanissimo,
la corte ed il Senato

molte congiure tramano,
ma senza frutto alcuno.
Riesce infine a ucciderlo
Cassio Cherea, tribuno.

Mentre il Senato disputa,
seduto in Campidoglio,
e gli ambiziosi brigano
per esser messi in soglio,

le guardie del pretorio,
che rubano a man bassa
là nel palazzo, trovano
nascosto in una cassa

lo zio del morto, Claudio,
tremante di spavento:
lo prendono, lo portano
nel loro accampamento

e, fattisi promettere
un patrimonio intero
in ricompensa, unanimi,
lo innalzano all'impero.

 

ULTIMI IMPERATORI DI CASA GIULIA
CLAUDIO - NERONE

Fratello di Germanico,
malato, un po' cretino,
nessuno ancora avevagli
badato mai; perfino

Caligola e Tiberio,
ucciso ogni parente,
hanno lasciato vivere
l'innocuo deficiente.

Già la sua madre Giulia
soleva dire: "Bestia,
come mio figlio Claudio! "
gli davano molestia

un po' tutti: schernendolo,
sorelle e zie, cattive,
li tiravano nòccioli
di datteri e d'ulive.

Or, divenuto Cesare
in modo così strano,
dapprima anch'esso mostrasi
modesto, attivo, umano,

chiamando in patria gli esuli,
punendo i delatori
e conducendo a termine
magnifici lavori.

Ma quel discreto principe
sposa per sua rovina
una donnetta frivola,
chiamata Messalina,

che con liberti ignobili,
amanti suoi, pian piano
sovverte e in tutto domina
il debole sovrano.

Ben presto si rinnovano
le antiche crudeltà;
la legge si ripristina
di lesa maestà:

e piene son le carceri
di poveri innocenti,
le strade di cadaveri.
le case di lamenti.

Magistrature, cariche
sacerdotali, intanto,
comandi di milizie
si mettono all'incanto.

Ma Messalina esagera
e... sposa un Caio Silio,
simpatico e bel giovane
per cui va in visibilio.

Allora il mite Claudio,
sdegnato, si rassegna
a far uccider Silio
e quella donna indegna.

In una gara nobile,
le donne da marito
a adesso si contendono
quel comodo partito;

l'imperatore, amandola,
in moglie a sé destina
la figlia di Germanico,
la perfida Agrippina.

È sua nipote, vedova
di Domizio Enobarbo,
madre d'un figlio: un ottimo
ragazzo, tutto garbo

e cortesia, simpatico,
bellissimo: è Nerone.
Per lui la madre subito
sognò la successione:

poiché non trova ostacoli
al suo voler tirannico,
da parte ella fa mettere
il giovane Britannico,

figlio di Claudio; e il Cesare,
che tutto a lei concede,
Nerone fa suo genero
dapprima e dopo erede.

Ma Claudio è un po' volubile
e ha troppi consiglieri:
oggi disfà di solito,
quello che ha fatto ieri.

E a scanso di pericoli,
la moglie l'avvelena:
Nerone è il nuovo Cesare,
diciassettenne appena.

Gli atti suoi primi furono
tutt'altro che sinistri;
con Seneca, filosofo,
e Burro, suoi ministri,

(i quali temperavano
gli ardori di Agrippina,
che aveva un po' le fisime
d'un'oriental regina)

governa con magnanima
saggezza e sommo zelo;
il popolo lo venera,
sicuro che nel cielo

dell'Urbe con quel principe
ritornerà l'azzurro:
è saggio come Seneca,
è buono come... il Burro.

Un dì che gli presentano
una condanna a morte
perché la firmi, il giovane,
con le pupille smorte:

Deh, non sapessi scrivere!"
sospira sconsolato.
Che sentimenti teneri!
Che cuore delicato!...

Poiché sua madre mostrasi
d'un'ambizione insana,
per opera di Seneca,
Nerone l'allontana;

ed Agrippina, in furia,
e con deciso tono,
minaccia allor di mettere
Britannico sul trono.

Qui si rivela l'indole
dell'uomo: un giorno a cena,
Nerone l'incolpevole
Britannico avvelena.

Ripudia quindi subito
la prima moglie Ottavia,
figlia di Claudio, giovane
dolce, prudente, savia,

e dopo che in un'isola
sperduta la confina,
la fa svenare e in seguito
sposa Poppea Sabina.

Costei, che scaltra e perfida
trova il marito degno,
muore d'un calcio datole
da lui nel ventre pregno.

Nerone a Burro e Seneca
fa poi segar le vene;
uccisa per suo ordine
la madre stessa viene.

A Burro nel pretorio
succede Tigellino,
adulatore subdolo,
ingordo ed assassino.

Le tragiche Gemonie
sangue su sangue bagna:
per gl'impresari funebri,
insomma, è una cuccagna!

E il sire, imperturbabile,
gode tra feste e canti,
in orge dionisiache,
fra torme di baccanti.

In più, convinto d'essere
poeta sovrumano,
condanna a morte gli emuli,
fra i quali Anneo Lucano.

Nei circhi, poi, fa il musico
e il guidator di cocchi,
mentre la folla applaude,
prostrata ai suoi ginocchi

(benché per abitudine
la morte egli dispensi,
è pure molto prodigo
di pane e di circensi).

Per le città dell'Ellade
recita e canta, e impone
che tutti a lui destinino
i premî e le corone.

Che scriva, canti, reciti,
che ammazzi per sistema,
passi! Ma avendo in animo
di scrivere un poema

su Troia, egli medesimo
- a quanto si sussurra -
a fuoco ha fatto mettere
il Celio e la Suburra,

scagliando la sua folgore
come un novello dio...
Questa è un'antica frottola,
ve lo dichiaro anch'io;

ma mentre il fiammeo baratro,
fra il panico e il trambusto,
inghiotte i marmi e i porfidi
della città d'Augusto,

al suono della cetera,
quel mimo in visibilio,
guardando lo spettacolo
canta l'incendio d'Ilio.

E poiché adesso il popolo,
contro di lui furente,
autor della catastrofe
lo accusa apertamente,

con un editto pubblico
ne incolpa i cristiani
e contro loro escogita
supplizi disumani.

Eppure, tra il succedersi
di simili abominii,
l'impero potentissimo
estende i suoi dominii:

piombano invitte l'aquile
sui Parti e sui Britanni,
sebbene a morte, l'invido,
i vincitor condanni.

Ma già da tempo brontola
l'esercito indignato;
ormai c'è chi non tollera
che a capo dello Stato

vi sia quel megalomane
e che alla terra e all'etra
comandi un mediocrissimo
strimpellator di cetra.

Da quella notte
livida balzerà forse l'alba
novella? Il vecchio nobile
Sergio Sulpicio Galba,

dalle legioni iberiche
e galliche acclamato,
marcia su Roma; il popolo
insorge. Disperato,

con quella viltà d'animo
di tutti i malfattori,
Nerone vuole chiedere
perdono ai senatori.

Tradito anche dagl'intimi,
fuggito dal deserto
palazzo, si ricovera
in casa d'un liberto.

Prende un pugnale e, pavido
tentatane la punta,
lo lancia a terra e mormora:
"L'ora non è ancor giunta!"

Gli astanti invita a piangere
sulla sua dura sorte
e con l'esempio a spingerlo
perché si dia la morte.

Poi, come sente giungere
i messi del Senato,
da cui, nemico pubblico,
a morte è condannato,

cacciandosi nell'ugola
il ferro, tremebondo,
esclama: " Quale artefice
divino perde il mondo! "

Così finì di Cesare
- portato il vasto imperio
dal sommo della gloria
al sommo vituperio -

la casa, donde uscirono
campioni così brutti:
tranne l'augusto Ottavio,
morti ammazzati tutti!

 

I FLAVI - VESPASIANO

Nacque nel 9 - dicono -
sulla sabina zolla
da un tal Sabino Flavio
e da Vespasia Polla,

ond'ebbe il nome duplice
di Flavio Vespasiano
(dal Pollo matronimico
fu salvo il gran Romano).

Ebbe modeste origini:
suo nonno era esattore;
ma il padre poté giungere
al grado di questore

ed uomo di carattere
e d'una certa audacia,
coprì diverse cariche
a Creta e nella Tracia.

Nella carriera pubblica
Flavio sa farsi onore:
è già, sotto Caligola,
edile e poi pretore.

A capo d'un esercito
sul contrastato Reno,
dopo, sa far rifulgere
il suo valore in pieno;

ed è mandato in Africa,
proconsole: il Senato
lo sa pignolo, energico
e disinteressato.

Infatti, in quella carica,
il nobile sabino
spende del suo, fa debiti,
ridotto al lumicino,

non sa come difendersi
dai creditori ignavi
e deve darsi al lecito
commercio degli schiavi

(altrove, invece, cupidi,
spogliando i possidenti,
i suoi colleghi ingrassano
mangiando a due palmenti).

Ma un dì, seguendo in Ellade
la corte di Nerone,
durante uno spettacolo,
non regge a una canzone

del fiero rompiscatole,
che l'uditorio strazia,
e s'addormenta placido,
per cui cade in disgrazia.

Ma dopo, sotto l'incubo
della minaccia ebrea,
Nerone, perdonatolo,
lo manda in Galilea.

Invita egli a desistere
dalla fatal rivolta
lo sconsigliato popolo
giudeo, che non l'ascolta;

allora manda sùbito
suo figlio Tito avanti,
con sessanta mila uomini
tra cavalieri e fanti.

Però, da Roma giungono
notizie così orrende,
che per prudenza Flavio
le ostilità sospende.

Nerone, uccisosi
nel sessantottto,
di tanti crimini
paga lo scotto.

Galba, avarissimo,
negando i doni,
s'aliena l'animo
delle legioni;

poi ch'anche il popolo
freme e borbotta,
egli il saggissimo
Pisone adotta.

Allora un nobile,
tal Salvio Ottone,
che a sé rivendica
la successione,

solleva i torbidi
pretoriani,
che al nuovo Cesare
batton le mani

e che, sempre avidi
di nuove prede,
senz'altro ammazzano
Galba e l'erede.

Malgrado i pessimi
suoi precedenti,
Ottone è un principe
fra i più clementi,

sereno e prodigo
di benefici;
ma grande è il numero
dei suoi nemici,

e c'è l'esercito
del medio Reno
che riconoscerlo
non vuol nemmeno,

anzi, gli suscita
contro un rivale:
Aulo Vitellio,
suo generale.

Sconfitto, Salvio
muore suicida;
Augusto, il popolo,
Vitellio grida.

Giunge l'esercito
del vincitore,
che ovunque semina
strage e terrore.

Il nuovo Cesare
par che in quel mentre
abbia un sol compito:
riempirsi il ventre.

Prelibatissimi
pranzi divora,
poi li rivomita,
mangiando ancora.

Quello spettacolo,
che a sdegno muove,
nell'anno Domini
sessantanove

fa in massa insorgere
l'insofferente
e forte esercito
dell'Oriente,

che acclama Cesare
quel Vespasiano,
il cui proconsole
Caio Muciano

va a Roma e l'occupa,
poi gli guadagna
Pannonia, Illirico,
Britannia e Spagna.

Alcuni scovano
Vitellio, il vile,
nascosto in lacrime
dentro un canile:

il miserabile
portato è al laccio
fra l'ira e il giubilo
del popolaccio,

che, il capo livido
ai rostri appeso,
getta nel Tevere
quel corpo obeso.

Han luogo sotto Flavio
due guerre molto gravi:
nella Germania torbida
insorgono i Batàvi;

va contro questi barbari
Petilio Ceriale,
che la rivolta soffoca
in modo radicale,

vincendo, a Castrovetere,
Civile, un esaltato
che già l'impero gallico
aveva proclamato.

Al tempo stesso, Flavio
di proseguir la guerra
il figlio Tito incarica
nella giudaica terra,

e Tito in breve termine
Gerusalemme doma
e la riduce in cenere
per ordine di Roma.

Le spoglie del gran tempio
distrutto, e sterminate
turbe di schiavi vengono
a Roma trasportate.

(È con gli schiavi e i piccioli
del popolo giudeo
che il sommo Flavio fabbrica
l'immenso Colosseo).

Il figlio Tito elettosi
collega, Vespasiano
s'affretta adesso a chiudere
il tempio del dio Giano

e un gran tempio marmoreo
edifica alla Pace.
Indi, con pugno ferreo
e spirito sagace

alacremente s'applica
a restaurar lo Stato
che tanti allegri Cesari
avevan rovinato.

Ripara alle ingiustizie,
fa castigar le spie,
risana anche l'erario
con sagge economie

(fin le latrine pubbliche
tassò, perché, - credete -
se certi luoghi puzzano,
non puzzan le monete).

Però, gli si rimprovera
un gesto illiberale:
bandì tutti i filosofi
(ma fece proprio male?).

Presso a morire, celia:
" Mi sento quasi un nume ",
con ciò volendo alludere
al pessimo costume

o di far d'un morto Cesare
un dio. Così vien meno,
senza che a ciò concorrano
il ferro od il veleno.

Suo figlio Tito, giovane
colto, cortese e bello,
soldato valentissimo,
è un principe modello:

è generoso, equanime,
aborre la pigrizia,
per cui dell'uman genere
chiamato è la delizia.

Però, se la tirannide
non funestò l'impero,
a travagliarlo, gl'inferi
si diedero pensiero.

La furia del Vesuvio,
dapprima, in suol campano
riduce in polve e in cenere
Pompei, Stabia, Ercolano:

vi muore il celeberrimo
scienziato Caio Plinio;
e dopo, peste e incendii
a Roma fan sterminio.

L'imperator magnanimo,
con vigilanti cure
e sacrifici assidui,
sovviene alle sciagure.

Purtroppo, il mite principe
regnò solo due anni:
col successor accrescesi
la lista dei tiranni.

Dapprima par che il giovane
fratello Domiziano
si sforzi quasi d'essere
di Tito ancor più umano.

Ma intanto ha un vizio, gravido
di conseguenze fosche:
un’ora al giorno dedica
ad ammazzar le mosche.

E passa presto agli uomini:
carnefice e sciupone,
rinnova i fasti tragici
di Caio e di Nerone.

Si muove per combattere
i Daci ed i Germani
e chiede, senza vincere,
onori sovrumani,

mentre, d'invidia livido,
richiama, quel tiranno,
ed avvelena Agricola,
il vincitor britanno.

Fa contro il cristianesimo
una campagna trista,
di cui, fra gli altri, è vittima
Giovanni Evangelista.

Un giorno, un certo Stefano
- liberto di Domizia,
moglie del fosco Cesare -
avuta la notizia

ch'è inscritto in certe tavole,
fra i condannati a morte,
con Domizia medesima
ed altri della corte

congiura e, nella camera
del sire penetrato,
dopo una lotta tragica
lo uccide. Indi il Senato

comanda che s'abbattano
le statue ed i trofei
del mostro e grazie pubbliche
si rendano agli dei.

 

GLI ANTONINI - COCCENIO NERVA - TRAIANO -
ADRIANO - ANTONINO PIO E MARC'AURELIO - COMMODO

Seguono cinque cesari,
virtuosi cittadini,
che dal migliore prendono
il nome d'Antonini.

Domando del pretorio
l'arroganza proterva,
i senatori mettono
sul trono il vecchio Nerva,

onesto, severissimo,
d'origine patrizia,
ch'esalta e che ripristina
la legge e la giustizia.

Saggio e clemente, tollera
la fede cristiana;
si mostra verso i poveri
d'una bontà sovrana.

Ma, certo ottimo console
in tempi più normali,
non sa frenare i torbidi
pretoriani, i quali

a tanta audacia giungono
che, invasa un dì la corte,
persone ragguardevoli
puniscono di morte,

per vendicare il comodo
rimpianto Domiziano,
con cui spadroneggiavano
sul popolo romano.

li vecchio, sbigottitosi,
con ottimo consiglio,
Traiano, insigne giovane,
fa suo collega e figlio.

Ulpio Traiano, iberico
d'origine, lo Stato
governa, dividendone
le cure col Senato.

Guerriero formidabile,
sconfisse o tenne a freno
torme d'arditi barbari
oltre il Danubio e il Reno.

Domato il re Decebalo
ed i suoi fieri Daci,
colonizzò quel popolo
di barbari predaci;

e, vincitor magnifico
su quel lontano fronte,
gittò sul gran Danubio
un poderoso ponte.

Arabia, Armenia, Colchide
in Asia conquistate,
poi, le correnti supera
del Tigri e dell'Eufrate

e, vinti i Parti indomiti
dopo vicende varie,
guarda dal Golfo Persico
all'Indie leggendarie.

Ma i vinti si sollevano
mentr'egli è in via per Roma:
Traiano, come un fulmine,
torna e i ribelli doma;

già sull'Eufrate l'aquile
eran di nuovo giunte,
quando egli muore, vittima
d'un morbo, a Selinunte.

Il successore, iberico
lui pure, Elio Adriano,
lasciò le imprese belliche
del grande capitano.

Cedette ai loro prìncipi
le terre conquistate,
non scevre di pericoli,
oltre il lontano Eufrate:

e parve malaugurio,
se non disastro immane,
quel primo retrocedere
delle aquile romane,

per quanto il nuovo Cesare
agisse con criterio,
rendendo assai più solide
le porte dell'imperio.

Infatti, egli fortifica
con valli e con castelli
tutte le linee al limite
coi barbari ribelli.

Dopo, le leggi unifica,
provvede alla finanza
con attenzione vigile
e somma temperanza.

Viaggia pei dominii
per ben quattordici anni,
mostrandosi sollecito
a riparare ai danni

di tante guerre, a togliere
i magistrati indegni
da delicate cariche,
lasciando ovunque i segni

del suo passaggio: sorgono
in tutte le contrade
musei, terme, basiliche,
ponti, acquedotti, strade.

Solo gli Ebrei turbarono
quella pace beata,
ché in armi sollevaronsi,
vedendo, ov'era stata

Gerusalemme, sorgere
Elia Capitolina,
a Giove sacra: e corsero
all'ultima rovina.

Mezzo milione d'uomini
perì di ferro e tutta,
fino agli estremi limiti,
fu la Giudea distrutta.

Fece Adriano erigere
un mausoleo turrito,
oggi Castel Sant'Angelo,
dov'egli è seppellito.

A lui succede il genero,
Tito Aurelio Antonino,
che vive come un semplice
privato cittadino.

Per le virtù dell'animo
mitissimo, restio
agli onor della porpora,
ha il titolo di Pio.
I
Cultor di scienze e lettere,
filosofo profondo,
sotto il suo regno placido
vive felice il mondo.

I più focosi barbari
tiene quest'uomo a bada
con il suo stesso fascino
più ancor che con la spada.

Muore in terra d'Etruria,
compianto da ciascuno,
dopo un regno lunghissimo,
nel centosessantuno.

Succede Marc'Aurelio,
il grande imperatore,
che, ottemperando agli ordini
del suo predecessore,

adotta, a sé facendolo
compagno nell'impero
e dopo in moglie dandogli
sua figlia, Lucio Vero.

Ma quanto Marco è savio,
mite, modesto e dotto,
Lucio altrettanto è perfido,
bisbetico e corrotto.

Il primo, gran filosofo,
virtù sublimi spiega
e cela innanzi al popolo
i vizi del collega.

Le adulazioni subdole
che lo proclaman nume
sdegna, con leggi provvide
raffrena il malcostume,

sovviene oppressi e poveri,
mitiga ai rei le pene,
sempre sereno, equanime,
spargendo ovunque il bene.

Ma i confinanti popoli
scendono a un tratto in guerra:
dapprima Avidio Cassio
gli arditi Parti atterra;

poi dal Danubio i barbari
invadono l'impero
con masse enormi d'uomini:
Aurelio e Lucio Vero

indietro li ricacciano
col massimo vigore.
Lucio, in Italia reduce,
presso Venezia muore.

Scomparso quel pericolo,
tra una fatal penuria
di vettovaglie e d'uomini,
mentre la peste infuria,

i Marcomanni e popoli
di razza a loro affini,
di nuovo, irresistibili,
invadono i confini.

Stremati son gli eserciti,
non vi son più danari:
l'imperatore, energico,
assolda mercenari,

vende le suppellettili
del palazzo, le spoglie
dei più famosi Cesari,
le vesti di sua moglie,

e, stando contro i barbari
in campo per tre anni,
ricaccia oltre il Danubio
i Quadi e i Marcomanni.

Poi dal Danubio, rapido;
accorre nell'Oriente, ,
ché quivi Avidio Cassio,
il suo luogotenente,

Augusto proclamandosi,
è insorto all'improvviso;
ma dal suo stesso esercito,
dopo, il ribelle è ucciso.

Ritorna sul Danubio,
domata la rivolta,
e mette in fuga i barbari
per una terza volta.

Ma non del tutto infrangerne
poté la resistenza:
nel centottanta, in Austria
morì di pestilenza.

Oltre alla statua bronzea
che ancor dal Campidoglio,
dopo diciotto secoli,
lusinga il nostro orgoglio,

e alla colonna splendida,
intatta ancor, che mostra
le imprese del magnanimo,
è giunto all'età nostra

un libro del filosofo
con nobili precetti.
Ma, come tutti gli uomini,
anch'egli ebbe difetti:

così, si lasciò spingere
ad atti disumani
perseguitando i poveri
credenti cristiani.

E troppo fu filosofo
con la metà Faustina,
che fu piuttosto - dicono -
allegra e sbarazzina.

Suo figlio, il detestabile
e infausto successore,
mostrò purtroppo l'animo
d'un losco gladiatore;

la madre, si vocifera,
(ma ciò. non è chiarito)
lo chiamò forse Comodo
dal comodo marito!

Già questo Commodo
fin da ragazzo
dimostrò d'essere
feroce e pazzo.

Eletto Cesare
nel fior degli anni,
pacificatosi
coi Marcomanni,

attorniandosi
di delinquenti,
presto dilapida
tesori ingenti

e vende titoli,
magistrature
e ha pronti agli ordini
veleno e scure.

Grosso, fortissimo,
fa il gladiatore
col nome d'Ercole,
sparge il terrore:

gira nottambulo,
a piedi o in cocchio,
a chi gli càpita
cacciando un occhio,

od atterrandolo
con un randello.
Ed anni tredici
questo flagello

dura, implacabile:
la fa finita
Marcia, una femmina
sua favorita,

che con più complici
prima avvelena
e poi trafiggere
fa quel iena.

 

DECADENZA DELL'IMPERO

Dopo quel tristo incomodo,
il vecchio Pertinace
ristabilisce l'ordine,
ma in modo assai fugace:

le guardie del pretorio,
ch'han l'ordine a dispetto,
dopo tre mesi, ammazzano
quel povero vecchietto,

e vendicato Commodo,
da loro assai rimpianto,
offron l'impero al pubblico
mettendolo all'incanto.

Infine si delibera
e si proclama sire,
al prezzo (occasionissima!)
di settemila lire,

il senatore Didio.
Giuliano, imbelle e tristo,
che dové dirsi sùbito:
"Ho fatto un bell'acquisto!..."

Dopo due mesi e spiccioli
di malgoverno, Didio
dalle sue stesse guardie
fu ucciso in un eccidio.

Dopo cruenti torbidi,
è Settimio Severo
che resta incontrastabile
padrone dell'impero.

È nato a Leptis d'Africa.
Imita Silla e Mario,
dal primo disfacendosi
all'ultimo avversario:

stragi, confische, esilii,
giorni funesti e neri!
Ma dopo, circondatosi
di saggi consiglieri,

egli si mostra un principe
forse tra i più benigni:
adorna Roma d'opere
e monumenti insigni;

il dissestato erario
restaura, e le legioni
e il popolo benefica
con ricche elargizioni.

Il brigantaggio sradica,
che infesta le province;
con agguerrito esercito
va contro i Parti e vince;

dopo, l'Egitto visita,
sedando aspri tumulti.
Servendosi dell'opera
dei suoi giureconsulti,

fra i quali celeberrimi
Modestino ed Ulpiano,
accresce i già vastissimi
diritti del sovrano

e dà - ridotto al minimo
il poter senatorio -
lo Stato in mano al principe
e al capo del pretorio.

Sconfitti i Caledonii,
dopo una lunga guerra,
già vecchio, muore a Ebòraco,
città dell'Inghilterra.

È questo grande Cesare
che prima di morire
vuol veder l'urna funebre
dov'egli andrà a finire:

" E sarai tu che chiudere
dovrai, misero pondo,
- dice - colui cui piccolo
sembrò l'immenso mondo!

Lascia il trono Settimio
a Caracalla e Geta,
suoi figli, i quali vivono
in discordia completa;

già fin da bimbi un odio
tenace li avvelena,
che adesso irrefrenabile
fra loro si scatena.

Pessimi entrambi, spartono
in due metà la corte,
mettendo guardie al limite,
murandone le porte.

La madre, che non tollera
le pubbliche lagnanze,
ottien che i due s'abbocchino
nelle sue stesse stanze;

ma Caracalla, perfido,
la spada in petto caccia
a Geta, rifugiatosi
fra le materne braccia.

Ed or contro i medesimi
seguaci del fratello
spietatamente volgesi,
facendone macello:

venti migliaia d'anime,
d'ogni età, d'ogni sesso,
sacrificate vengono
a quel feroce ossesso.

Papiniano è vittima
dell'efferato eccidio
per non voler difendere
l'infame fratricidio.

Da Roma allontanatasi
quell'ira belluina,
non lascia immune un angolo
da strage e da rapina.

E con saccheggi orribili,
supplizi ed estorsioni
toglie il danaro al popolo
per darlo alle legioni. -

Il nome suo, sinonimo
d'orrore e di delitto,
quest'uomo funestissimo
lega a un famoso editto:

non già per bontà d'animo,
ma, in cerca di contanti,
per far pagar le decime
a tutti gli abitanti,

proclama tutti i sudditi
viventi entro i confini,
anche i remoti barbari,
romani cittadini.

È trucidato in Siria,
per ordine - si crede -
del capo del pretorio,
che dopo gli succede,

Macrino, ma che, debole,
né buono né tiranno,
volendo metter l'ordine,
è ucciso dopo un anno.

 

Allora, per disgrazia
di Roma, viene a galla
Bassiano, un figlio spurio
del truce Caracalla.

La zia di questo in Siria
da tempo già vivea
con le due figlie femmine,
Soemias e Mammea.

Il figlio di Soemia,
in seguito alle mene
della madre e dell'avola,
Cesare eletto viene.

Vestito da pontefice
del sole - onde si noma
come il suo dio, Elagabalo -
giunge acclamato a Roma,

dove senz'altro edifica
un tempio al nuovo nume.
Con lui non han più limiti
lo sfarzo e il malcostume.

Egli introduce d'Asia
vizi, mollezze, usanze:
più grandi turpitudini,
più folli stravaganze,

più scandalosi sperperi
Roma non vide mai.
L'acqua di rose pullula
nei bagni e nei vivai;

la reggia è tutta porpora,
oro ed argento; i vini
più prelibati innaffiano
le aiole dei giardini.

Orgie violente, scandali,
follie: piogge di rose
talor soffocan gli ospiti
di cene favolose.

Nel circo va, su polvere
d'ambra, con gemmeo scudo
tratto da ignude vergini,
l'imperatore ignudo.

Dirige l'ancor giovane
e depravata madre
un senato sui generis
di femmine leggiadre,

che sopratutto s'occupa
di leggi sulla moda
e gli atti del bel principe
pubblicamente loda.

Dopo quattro anni ignobili,
per quanto scellerate,
le guardie del pretorio
insorsero indignate

e, con la madre e gl'intimi,
assassinato venne
quel mostro di lussuria,
appena diciottenne

Già molto caro al popolo,
imperator si crea
un Alessandro, l'unico
figliolo di Mammea,

cugino d'Elagabalo,
adolescente austero,
onde al suo nome il titolo
fu aggiunto di Severo.

Virtuoso, maturatosi
alla divina fiamma
delle dottrine classiche,
guidato dalla mamma

intelligente, energica,
appena al trono alzato,
s'assume un arduo compito:
ricostruir lo Stato.

Vana fatica: corrono
tempi nefandi e bui!
Un giorno le sue guardie
osan dinanzi a lui

assassinare il celebre
giureconsulto Ulpiano,
prefetto del pretorio,
che troppo è saggio e umano.

Intanto regna in Partica
un nuovo re, Artaserse,
che tenta di riprendere
le antiche terre perse;

deve sul luogo accorrere
lo stesso imperatore,
che con potente esercito
ricaccia l'invasore.

Dopo un trionfo splendido,
va, di fiducia pieno,
a soggiogare i barbari
che affacciansi sul Reno.

Ma un generale erculeo,
chiamato Massimino,
ch'è giunto a quella carica
da trace contadino,

un poderoso barbaro
alto due metri e mezzo,
che ostenta per il principe
il massimo disprezzo,

temuto e ammiratissimo
per la sua rara possa,
nel turbolento esercito
capeggia una sommossa:

un giorno, ucciso il giovane
sovrano a tradimento,
è proclamato Cesare
quel trace truculento.

 

RESTAURAZIONE DELL'IMPERO
IMPERATORI ILLIRICI

Roma, che già fu agli ordini
d'un Siro e poi d'un Trace,
sotto Filippo l'Arabo.
ora languisce e tace;

ma, pure in grandi angustie
afflitta dai tiranni
con feste pomposissime
celebra i suoi mille anni.

Un minaccioso popolo,
giunto da lidi ignoti,
scende, diviso in Gepidi
e in Ostro e Visigoti.

Ad affrontar quei barbari
va Decio senatore,
ma, dalle sue milizie
gridato imperatore,

torna in Italia, l'Arabo
presso Verona vince,
poi contro il goto esercito,
che invade le province,

accorre e, combattendolo,
soccombe in terra trace:
il successor vilissimo,
Gallo, comprò la pace.

Fu Decio austero principe,
magnifico soldato,
però del cristianesimo
persecutor spietato.

Valeriano è un ottimo
monarca, ma, vegliardo,
fa suo collega il giovane
Gallieno, l'infingardo

e indegno figlio. Invadono
l'impero orde guerriere
di Franchi e d'altri popoli,
spezzando le frontiere.

In Siria, accorso subito,
lo stesso imperatore
è vinto e cade, il misero,
prigione di Sapore.

A Roma il corrottissimo
e perfido Gallieno,
intanto, circondandosi
d'un lusso senza freno,

insulta senza scrupoli
il pubblico dolore
ed il destino tragico
del vecchio genitore,

nel mentre i Goti indomiti
dal Ponto e dalla Tracia
contro l'impero lanciansi
con rinnovata audacia.

Dopo Gallieno sorgono
alcuni imperatori
d'Illiria, che la storia
chiamò restauratori.

È il primo Aurelio Claudio,
che con mano gagliarda
ricaccia indietro i barbari,
discesi fino al Garda,

e accorre in Macedonia
per fronteggiare i Goti:
questi tremendi barbari
già tristamente noti,

con flotta potentissima
venuti dal Mar Nero,
sbarcano a Tessalonica,
nel cuore dell'impero.

Sulla Morava, in Serbia,
Claudio dà lor battaglia
e in modo spaventevole
li vince e li sbaraglia.

Ha il titolo di Gotico,
ma la porpora veste
solo due anni: a Sirmio
lo fulmina la peste.

Eletto dagli eserciti
Lucio Aureliano,
uomo d'oscura origine,
ma illustre capitano.

Con grandi prove d'animo,
di senno e di tenacia,
debella i Goti e i Vandali,
pur dando lor la Dacia;

e, del ritorno in patria
chiudendo lor la via,
poi gli Alemanni stermina
a Fano ed a Pavia.

Una stupenda amazzone,
regina di Palmira,
Zenobia, Egitto e Siria,
al cui dominio aspira,

a capo d'un esercito
frenetico e potente,
ha invaso, proclamandosi
regina d'Oriente.

Aureliano, vintala
nella città d'Emesa,
costringe la bellissima
amazzone alla resa.

Indi, ritorna rapido
nel torbido occidente
e vince in Gallia Tétrico,
al trono pretendente.

Ancora un memorabile
trionfo Roma ammira:
gli arredi che adornarono
la reggia di Palmira;

tesori incalcolabili,
insegne, armi, bandiere,
venti elefanti e d'India
non mai vedute fiere;

orde, di strani barbari
dei lidi più remoti,
Franchi, Alemanni, Vandali,
Sarmati, Siri, Goti;

la bella donna in lacrime
fra le sue schiave, carca
d'oro e di gemme; e in ultimo
il carro del monarca

trionfatore, splendido,
tratto da quattro renne:
dietro, il Senato e il popolo
vanno in corteo solenne.

Questo guerriero illirico,
energico e sagace,
meraviglioso principe,
ottimo in guerra e in pace,

abbellì Roma d'opere
superbe e più sicura
la rese, ricingendola
di poderose mura.

Accintosi ad invadere
e a battere il reame
dei Persi, cadde vittima
d'una congiura infame.

E i successori, Tacito,
Floriano, Probo, anch'essi,
per quanto ottimi prìncipi,
vengon così soppressi.

Il vincitor di Persia,
l'imperatore Caro,
altro valente illirico,
sfugge al destino amaro

dei precedenti Cesari,
ma fa una fine orrenda:
lo carbonizza un fulmine
nella sua stessa tenda.

Eliminati i Cesari
Carino e Numeriano,
sale sul trono un dalmata,
Aurelio Diocleziano.

Quest'uomo celeberrimo,
nativo di Dioclea,
soldato rude, energico,
d'origine plebea,

tutte le antiche cariche
e i titoli sopprime
che ancora ricordavano
il libero regime,

tribuno, edile, console,
censor: l'imperatore
assume il solo titolo
di dominus, signore.

L'antica foggia semplice
dei Cesari abbandona:
ha vesti gemmee e seriche,
ha in capo aurea corona.

Perde il Senato ogni ultimo
diritto, ogni attributo:
l'imperatore è il despota
nel modo più assoluto.

Nella suprema carica
s'associa Diocleziano
un altro fiero illirico,
di nome Massimiano.

Per stabilire l'ordine
ed evitar, gli Augusti,
che alla lor morte seguano
i soliti trambusti,

si scelgono due Cesari,
illirici anche loro:
un Galerio Armentario
ed un Costanzio Cloro,

che son gli Augusti prossimi;
così la successione
diventerà automatica:
dolcissima illusione!

L'impero suddividesi:
il primo imperatore
a sé destina Siria,
Egitto, Asia Minore,

lieto d'andare a vivere
in Asia, a Nicomedia,
ché l'albagìa del popolo
romano assai lo tedia.

Ha Illirico e Balcania
il Cesare Galerio,
il quale pone a Sirmio
la sede del suo imperio.

Ha Rezia, Italia ed Africa
l'Augusto Massimiano,
ma lascia Roma e scegliesi
per capital Milano,

e assegna a Cloro, Cesare,
Gallia, Britannia e Spagna.
Concordi, i quattro principi,
in più d'una campagna,

vincono i Parti, scacciano
i barbari predaci
e insieme sottomettono
usurpatori audaci.

Reso sicuro e prospero
l'impero, Diocleziano
intende che si sradichi
il culto cristiano.

Le guerre, le tirannidi,
le corruzioni oscene,
un infinito anelito
verso la pace e il bene,

avevan fatto mettere
già saldamente piede
nella coscienza pubblica
alla novella fede.

Parecchie volte i Cesari,
dai tempi di Nerone,
perseguitato avevano
la santa religione;

ma è certo che in tre secoli
non s'era ancora visto
accanimento simile
contro i credenti in Cristo:

torture spaventevoli,
stragi, violenze estreme.
Ma il sangue di quei martiri
fu un prodigioso seme:

coloro che sfuggirono
all'orrida ecatombe
moltiplicati uscirono
dall'erme catacombe.

 

COSTANTINO E TEODOSIO - GUERRE CIVILI –
GIULIANO L'APOSTATA

Or Diocleziano, assistere
volendo da privato
allo sviluppo pratico
del piano escogitato,

fra la sorpresa unanime,
depone la corona,
solingo ritirandosi
nei pressi di Salona.

Di far lo stesso s'obbliga
il socio imperatore,
che alla purpurea clamide
rinunzia a malincuore.

Se quella fu la causa
che indusse il gran tiranno
al passo inesplicabile,
fu grave il disinganno.

Pazienza! In quel suo eremo
la vita è più tranquilla:
" che deliziosi cavoli
produce la mia villa!

Cloro e Galerio gli ordini
eseguono a puntino:
Augusti, eleggon Cesari
Severo e Massimino.

Ma presto nuovi torbidi
dilaniano l'impero:
morto Cloro, succedere
dovrebbe a lui Severo,

ma le legioni acclamano
Augusto Costantino,
figlio di Cloro, giovane
segnato dal destino.

Intanto, sollevatosi,
il popolo romano
il trono offre a Massenzio,
figliuol di Massimiano.

Costui, vecchio, struggendosi
ancor dal desiderio,
che covò sempre in animo,
di ripigliar l'imperio,

s'associa al figlio. In Asia
Galerio dà il dominio
dell'Occidente e il titolo
d'Augusto ad un Licinio;

vi son così sei principi
e tutti quanti Augusti:
ecco evitati i soliti
temibili trambusti!

Dopo vicende tragiche,
ucciso Massimiano,
morto Galerio in Asia,
l'Oriente resta in mano

a due rivali acerrimi:
Licinio e Massimino;
in Occidente regnano
Massenzio e Costantino.

Massenzio, ferocissimo,
sventato ed immorale,
vuole lui sol la porpora
e va contro il rivale.

Costantino, che i barbari
impegnano sul Reno,
varca l'Alpi e in Italia
ritorna in un baleno;

marcia su Roma rapido:
Massenzio gli va incontro
e presso il ponte Milvio
segue il fatale scontro.

Mentre la pugna turbina
quanto altra mai feroce,
si vede in ciel rifulgere
la forma d'una croce,

con su scritto a caratteri
lucenti: " In questo segno
tu vincerai ". Massenzio,
l'imperator indegno,

fugge col rotto esercito,
e cade nel fiume e annega.
E Costantino il labaro
di Cristo allor dispiega

e da Milano pubblica
un memorando editto
con cui dà al cristianesimo
ogni civil diritto.

Poi va contro Licinio,
che, vinto il pretendente,
era rimasto l'unico
signore dell'Oriente:

per terra e mar disfattolo,
la grazia gli concede,
ma dopo a Tessalonica
lo uccide con l'erede.

Roma con i suoi idoli
infranti ormai tramonta;
e fra il dolor del popolo
subisce ancora l'onta

dell'abbandono: il principe
saggissimo e fatale
vuol trasferir sul Bosforo
la propria capitale,

per meglio imporre ai popoli
il culto del dio vero
e per meglio difendere
il minacciato impero.

Dov'era già Bisanzio
sorgono in qualche mese
circhi, palazzi, portici,
bagni, acquedotti, chiese;

e Roma vede, in lacrime,
migrare i suoi trofei,
le spoglie dei suoi consoli,
le statue dei suoi dei

verso Costantinopoli,
già vasta ed opulenta,
che Costantino inaugura,
poi, nel trecentotrenta.

L'imperator magnifico,
padrone incontrastato,
riordina l'esercito,
e il poderoso Stato

divide, restaurandolo
con diligenti cure,
in tredici diocesi
e quattro prefetture.

Questo superbo principe,
adorator di Cristo,
divenne nei suoi ultimi
anni geloso e tristo.

Ebbe una moglie pessima,
Fausta (di nome solo),
la qual lo indusse a uccidere
il giovane figliolo,

l'ottimo Crispo, natogli
dalla ripudiata
Minervina: la femmina
se n'era innamorata!

Ma Costantino, accortosi
del grande error commesso,
si vendicò, facendola
poi cucinare al lesso.

Sconfitti prima i Sàrmati
in fortunate guerre,
li accoglie indi e li stanzia
nelle romane terre.

Poi Goti ed altri eserciti
di barbari dispersi,
soccombe a Nicomedia,
muovendo contro i Persi;

e mentre lo santifica
la Chiesa cristiana,
fra i patrî iddii lo colloca
Roma, tuttor pagana.

I figli suoi, Costanzio,
Costante e Costantino,
dan prova d'un carattere
piuttosto sbarazzino:

senza nessuna causa,
sfogano il lor furore
contro i parenti e gl'intimi
del grande genitore,

e solamente scampano
al tragico uragano,
ancora giovanissimi,
un Gallo ed un Giuliano.

ciò fatto, accesi gli animi
d'invidia e di sospetto,
tra loro si combattono:
Costanzio, tristo e inetto,

rimasto solo ed arbitro
del mondo intier, decide
di nominar suo Cesare
Gallo, che dopo uccide,

e quindi il suo superstite
cugino, il buon Giuliano.
Questi, ch'è un gran filosofo,
ma un prode capitano,

sconfigge in Gallia i barbari,
cacciandoli oltre Reno,
mentre che i Quadi e i Sàrmati
Costanzio tiene a freno,

Giuliano, saggio e intrepido,
semplice insieme e giusto,
dal suo fedele esercito
è proclamato Augusto.

Giunge in Pannonia, a Sirmio,
quando Costanzio muore:
senza contrasti il cesare
è il solo imperatore.

Guardando al cristianesimo
come al fautore vero
del decader assiduo
del travagliato impero,

con un editto tollera
dapprima e dopo impone,
lui stesso professandola,
l'antica religione.

Amaramente cònstata
che la dottrina nuova
a risanar la pubblica
morale, ahimè!, non giova;

e ripensando ai crimini
di quei suoi tre parenti,
figli d'un Santo, è scettico,
diffida dei credenti.

Ma ormai son Giove e Venere
oggetti da museo,
e griderà l'Apòstata:
" Hai vinto, o Galileo! ",

quando, sereno e impavido,
cadrà gloriosamente
lottando contro i barbari
del contrastato Oriente.

Gioviano, che all'apòstata
imperator succede,
innalza ancora il labaro
della soppressa fede;

ha un regno poco florido,
di soli sette mesi:
egli è costretto a cedere
molti di quei paesi

che conquistò nell'Asia
il prode Diocleziano.
Assume, indi, la porpora
un Valentiniano,

tribuno della guardia,
che col fratel Valente
l'impero contro i barbari
difende strenuamente.

Nell'Occidente torbido
e grave di perigli,
lui morto, gli succedono
i giovinetti figli:

Graziano, il primogenito,
di mente già matura,
ma l'altro, il figlio omonimo
bambino addirittura.

Intanto gli Unni, barbari
di mai veduta audacia,
brutti di volto e d'animo
invadono la Tracia:

è un'accozzaglia nomade
di barbari orientali,
d'origine mongolica,
discesa dagli Urali.

I Goti, che soccombono
all'unnica fiumana,
di stabilirsi chiedono
nella Mesia romana;

ma, oppressi, si sollevano:
Valente, imperatore,
sconfitto ad Adrianopoli,
nella Balcania, muore.

Inorgogliti i barbari,
riscosse le catene,
scorrazzan la penisola,
fin saccheggiando Atene.

Fa fronte alla catastrofe
il giovane Graziano,
con l'associarsi un inclito
spagnuolo capitano,

Teodosio, che s'incarica
di governar l'Oriente:
con l'armi e con l'astuzia,
intrepido e prudente,

in tutta la Balcania
i Goti sottomessi,
assume nell'esercito
quarantamila d'essi.

Dopo, sconfitto un Massimo,
(governator britanno,
il quale, fatto uccidere
Graziano con inganno,

assunto avea la porpora)
e un altro pretendente,
Teodosio ancor unnifica
l'Oriente e l'Occidente.

Ebbe, pur senza compiere
imprese memorande,
Teodosio, ottimo principe,
il titolo di grande,

segnatamente ad opera,
però, dei cristiani,
in quanto fece chiudere
i templi dei pagani.

Si lasciò anch'egli
spingere ad opere malvage
e fece a Tessalonica
una spietata strage;

per questo il santo vescovo
Ambrogio di Milano
ad un'ammenda pubblica
costrinse il gran sovrano.

Lasciò l'immenso imperio,
in fondo, tale e quale
com'era al primo secolo
dell'epoca imperiale,

ma minacciato e debole,
corroso e turbolento.
Ormai l'antico spirito
della nazione è spento,

fra così varii popoli,
che parlan l'idioma,
ma che non hanno l'animo
né le virtù di Roma.

Non più l'idea di patria
il popolo sorregge,
ma l'ingordigia è stimolo
la corruzione è legge.

Né giova il cristianesimo
a infonder nuova vita
ed ancor verde a rendere
la pianta isterilita:

la nuova fede predica
la fratellanza umana,
il trionfo degli umili,
non la virtù romana;

e poi, già in essa sorgono
dissidii, aspre contese,
che maggiormente turbano
la pace del paese.

S'aggiungan, dopo, i barbari
stanziati entro i confini,
soldati dell'esercito
e anch'essi cittadini,

ma minacciosi ed infidi,
ché l'odio ancor li accende
verso il Romano cupido,
superbo; e si comprende

che non potrà resistere,
se scoppi una tempesta
(che già da cupi brontoli
di tuono è manifesta),

quest'opera titanica,
in vista ancor solenne,
ma in fondo ormai decrepita.
E la tempesta venne.

 

LE GRANDI INVASIONIBARBARICHE–
CADUTA DELL'IMPERO

L'impero è da Teodosio
diviso fatalmente
tra un figlio giovanissimo
e un altro adolescente:

Arcadio, il primogenito,
regge l'Oriente; l'altro,
di nome Onorio, debole,
corrotto poco scaltro,

ha l'Occidente. Un vandalo,
chiamato Stilicone,
amico di Teodosio
e suo commilitone,

soldato di gran fegato,
tutela quell'inetto,
ma cadrà presto vittima
dell'odio e del sospetto.

Padroni dell'Illirico,
gl'infausti Visigoti
irrompono in Italia,
fortissimi, devoti

ad Alarico, un principe
che fu già federato
e di Teodosio agli ordini,
ma poi s'è ribellato.

Egli in Italia penetra,
mettendo a ferro e a sacco
tutto il paese: Onorio,
ch'è pure un bel vigliacco,

scampa in Ravenna rapido;
soltanto Stilicone,
il generale vandalo,
al goto re s'oppone,

ed, affrontati i barbari
sul Tanaro, li schiaccia,
fugando dall'Italia
l'orribile minaccia.

A un tratto; orde di Vandali,
Svevi, Burgundi, Alani,
varcate l'Alpi Retiche,
son sui lombardi piani

e verso Roma avanzano,
ma Roma dà battaglia,
e Stilicone a Fiesole
li vince e li sbaraglia.

Ma, poi che a tal proposito
dové sguarnire il Reno,
una fiumana barbara,
non più tenuta a freno,

invade ora le Gallie,
per cui grande è il fermento:
allora sorgon gl'invidi,
gridando al tradimento.

L'ingrato e vile Onorio,
ma più che ingrato, scemo,
il salvator d'Italia
manda al supplizio estremo.

Di nuovo irrompe e supera,
il gotico Alarico,
senza contrasto i valichi
dell’Appennino aprico,

con furia irresistibile,
dicendo: " Iddio mi spinge ",
e Roma il fiero barbaro
di duro assedio cinge.

Or dov'è Caio Mario?
dov'è Furio Camillo?
Chiuso in Ravenna, Onorio
vi vegeta tranquillo.

Seduti sotto i portici
di marmo, i Visigoti,
o nei palàgi memori
di fasti non remoti,

e all'ombra dei bei platani
sdraiati, in auree tazze
si fanno il vino mescere
da nobili ragazze.

Dopo sei giorni, carichi
di schiavi e di bottino,
verso Sicilia ed Africa
riprendono il cammino,

fermandosi in Calabria,
poi che il gran re s'è spento:
i suoi lo seppelliscono
nel letto del Busento.

Usciti poi d'Italia,
consente Onorio indegno
ch'essi in Ispagna e in Gallia
fondino un proprio regno;

con Genserico i Vandali,
da lì cacciati via,
conquistan dopo l'Africa:
l'impero è in agonia!

Guidato dalla perfida
mammà, Galla Placidia,
la quale personifica
la crudeltà, l'invidia,

- morto l'impelle Onorio -
un Valentiniano,
il terzo ed anche l'ultimo,
siede sul soglio vano.

Or sul tremendo popolo
degli Unni ha dittatura
un uomo spaventevole,
un mostro addirittura:

Attila. I vinti popoli,
nel lor folle terrore,
questo guerriero chiamano
flagello del Signore.

Egli, sconfitti i barbari,
civili al suo confronto,
sparge la morte e il panico
dal Reno all'Ellesponto.

La depravata Onoria,
sorella dell'Augusto,
vuole sposar quel barbaro
(pensate un po' che gusto!):

questi la fa richiedere,
con mezzo impero, in moglie;
ma la proposta ignobile
Placidia non accoglie.

È un buon pretesto ed Attila,
igneo torrente, invade,
spietato al suol radendole,
le galliche contrade.

Ezio, un valente gotico,
supremo comandante
delle milizie, in Gallia
accorso in un istante,

ai Campi Catalàuni
l'unno flagello doma:
è l'ultima vittoria
nel gran nome di Roma.

Ed ecco, come verzica
la nuova primavera,
con più violenza abbattersi
la tragica bufera:

sceso dall'Alpi Giulie
Attila, di lì a poco,
brucia Aquileia, il Veneto
mettendo a ferro e a fuoco.

Gli abitatori miseri,
dispersi fuggitivi,
sulle isolette scampano
della Laguna e quivi,

da quella fuga squallida,
da quel dolente sbarco,
sorgerà la repubblica
gloriosa di San Marco.

Muove su Roma or Attila
ma per intercessione
del sommo venerabile
pontefice Leone

e per timore d'Ezio,
che accampasi vicino,
ripassa l'Alpi, carico
di doni e di bottino.

Ma, reduce in Pannonia,
vi muore fra l'ambascia
dei suoi: l'impero unnico,
scomparso lui si sfascia.

La morte d'Ezio, ad opera
di Valentiniano,
affretta la catastrofe,
scatena l'uragano.

Una congiura elimina
lo stolto imperatore,
ordita da tal Massimo,
un ricco senatore,

che, assunta lui la porpora
spregiata e sanguinosa,
l'imperatrice vedova
con la violenza sposa.

La sciagurata Eudossia,
per vendicar l'oltraggio,
allor chiama dei Vandali
l'esercito selvaggio.

Invece di difendersi,
il popolo romano,
imbelle, insorge e lapida
l'inutile sovrano,

mentre nell'Urbe penetra
il barbaro nemico
e, completando l'opera
spietata d'Alarico,

brucia, distrugge, stermina,
simile a un'ignea lava.
Con le sue figlie in Africa
Eudossia è tratta schiava.

Un impudente barbaro,
chiamato Riciméro,
diventa adesso il despota
del boccheggiante impero

e a suo talento nomina
gli Augusti: Maiorano,
Severo, Antemio, Olibrio,
deposti a mano a mano.

Capo d'Alani, d'Eruli
e d'altre genti gote,
Oreste alfin la porpora
toglie a Giulio Nepote,

dandola al figlio, un essere
che un fato troppo ingiusto,
spietatamente ironico,
chiamò Romolo Augusto,

ma che Momillo Augustolo
è detto per disprezzo,
o, data la sua giovane
età, forse per vezzo.

Negando alle milizie
le terre a lui richieste,
quelle orde mercenarie
insorgon contro Oreste.

Un generale, il barbaro
germanico Odoacre,
a capo d'un esercito
scende in Italia alàcre,

affronta Oreste e, vintolo,
lo uccide, ma tranquillo
si mostra, anzi, magnanimo
col povero Momillo.

Infatti, senza nuocergli,
l'Augustolo depone,
in una villa a Napoli
mandandolo in pensione.

Né vuole quella porpora
macchiata d'ogni vizio,
ma chiede solo il titolo
modesto di patrizio;

ed a Costantinopoli
il barbaro guerriero
spedisce, vano simbolo,
le insegne dell'impero.

Così cadeva, vittima
delle sue colpe stesse,
quella città magnifica
che tutto il mondo resse;

ma sopravvisse, splendida
ed immortal sovrana,
luce di tutti i popoli,
la civiltà romana.

 

F I N E

 

INDICE

Prefazione
LA LEGGENDA
LA MONARCHIA:
Romolo, Re di Roma
Numa Pompilio - Tullo Ostilio - Gli Orazi e i Curiazi
Anco Marcio
Tarquinio Prisco - Servio Tullio.
Lucrezia
LA REPUBBLICA:
Giunio
Porsenna-Orazio Coclite
Muzio Scevola - Clelia
La plebe sull'Aventino-Menenio Agrippa
Coriolano
Cincinnato
I Decemviri - Lotte fra patrizi e plebei
L'invasione dei Galli - Furio Camillo
La guerra Sannitica
La guerra contro Taranto - Pirro
Prima guerra Punica
Seconda guerra Punica
La caduta di Siracusa e Scipione l'Africano
Conquista della Macedonia e della Grecia
Guerra Siriaca-Morte di Annibale
Catone il Censore - La terza guerra Punica
I Gracchi

PARTE II
Caio Mario - La guerra Giugurtina
I Cimbri e i Teutoni - La guerra sociale
Mario e Silla-La prima guerra Mitridatica
La guerra civile
Spartaco e i servi
Pompeo-I pirati - La guerra Mitridatica
La congiura di Catilina
Giulio Cesare-La guerra Gallica -La guerra civile
La Dittatura
Fine della Repubblica -Marc'Antonio e Ottavio
L'IMPERO:
Cesare Augusto
Imperatori di Casa Giulia - Tiberio e Caligola
Ultimi Imperatori di Casa Giulia-Claudio - Nerone
I Flavi - Vespasiano
Gli Antonini - Cocceio Nerva - Traiano -Adriano
Antonino Pio e Marc'Aurelio - Commodo
Decadenza dell'Impero
Restaurazione dell'Impero- mperatori illirici
Costantino e Teodosio - Guerre civili
Giuliano l'Apostata
Le grandi invasioni barbariche - Caduta dell'Impero