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Mori's Humor Page
Umorismo, facezie, testi letterari curiosi


Publilius Syrus - Sententiae
Testo latino e traduzione di Edoardo Mori

L’autore di queste Sententiae nacque in Siria circa nel 93 avanti Cristo e nello 83 giunse a Roma come schiavo acquistato da un liberto. Aveva la lingua sciolta e venne preso a ben volere da un certo Publius, suocero di Cicerone, e assunse il nome di Publilius Syrus. Divenne noto come autore e recitatore di Mimi, i quali erano una specie di scenette comiche, molto amate dal popolo. Nel 46 avanti Cristo è a Roma, ai giochi trionfali organizzati da Giulio Cesare, e supera il più noto rivale Decimo Laberio.
I Mimi erano infarciti di battute,  giochi di parole ed aforismi formati da un solo verso e Publilius divenne famoso per la sua inventiva. Pare che nelle gare teatrali i due contendenti gareggiassero  l’uno proponendo un aforisma, l’altro rispondendo sullo stesso argomento, cambiando qualche parola o rovesciando i concetti. Un esempio di queste contese verbali si ritrova in opere medievali come il Dialogo di Marcolfo e Salomone.
Si narra che queste Sententiae venissero raccolte in un libretto dai suo ammiratori e che cominciassero a circolare con enorme successo popolare. In effetti vennero molto apprezzate da Seneca il Vecchio (circa 40 dopo Cr.) e vennero usate per l’insegnamento scolastico fino al tempo di Sant’Agostino; fino al Rinascimento continuarono ad essere lette ed apprezzate.
Ciò ha reso molto difficile ricostruire quanto è opera di Publilius e quanto nel tempo è stato aggiunto o corretto: alcuni vi hanno inserito aforismi di altri autori antichi, noti od ignoti, altri vi hanno inserito proprie invenzioni, altri hanno adattato alcuni aforismi ai propri tempi e ai propri gusti. Così dal migliaio circa originali, il numero ricavabile dai vari manoscritti era quasi raddoppiato! Gli studiosi tedeschi Eduard Wölfflin (1869) e Wilhelm Meyer (1880) hanno ritenuto di poter attribuire a Publilius solo circa 700 degli aforismi conservati. Per la maggior parte si tratta di giambi senari, salvo una cinquantina  di settenari trocaici.
Le traduzioni moderne esistenti non sono molte. In italiano vi è la traduzione di Carlo Ludovico Bertini pubblicata a Saluzzo nel 1884, alquanto buona. In tedesco vi è la traduzione di Hermann Beckby del 1962, buona, ma in cui lo sforzo di rendere il verso latino ha reso talvolta il testo tedesco più oscuro dell’originale. In Internet, nel sito www.locutio.net, vi è una buona traduzione in francese di cui non è indicato l’autore (forse P. Constant, 1937). In inglese vi è la traduzione di Duff A.D. del 1934.

La presente traduzione
Propongo al lettore  837 Sententiae e cioè tutte quelle del Meyer, più un certo numero di massime di dubbia attribuzione, ma meritevoli di essere ricordate. Ho eliminato tutte quelle chiaramente posteriori all’autore o manipolate, anche se, proprio molte di quelle ritenute false, avevano più arguzia popolaresca di quelle ritenute vere.
Ho eliminato dal testo latino tutte le virgole perché i latini non le usavano; quelle che noi troviamo ora nelle edizioni critiche sono state apposte dagli autori secondo le regole della lingua tedesca.
La traduzione delle Sententiae non è facile, come dimostra l’impossibilità di rendere la stessa parola Sententia. Seguendo la tradizione biblica si dovrebbero chiamare “proverbi” come quelli di Salomone, ma il termine ha assunto ormai un diverso significato; le “sentenze” sono oggi solo quelle dei giudici, le “massime” o gli “aforismi”  sono spesso prive della sinteticità delle sententiae. Inoltre la lingua latina si è troppo allontanata dai concetti moderni e quindi molti termini hanno un ambito concettuale diverso.
Si prenda ad esempio la parola “consilium”; in latino è concetto ampio che indica il fatto di pensare ad un problema, di consultarsi su di esso, di fare progetti, di decidere con ponderazione e intelligenza. Manca un termine italiano che esprima lo stesso concetto e ogni scelta diventa perciò una interpretazione limitativa della massima che, invece, voleva espressamente essere intesa estensivamente.
La stessa cosa per la parola “virtus” che sta ad indicare tutte le alte qualità dell’animo, prima fra tutte il valore, ma anche la costanza, il coraggio, la fermezza, la eccellenza in genere; ma se si sceglie una di queste traduzioni si rischia di alterare il senso originale della frase. Purtroppo quando si traduce un proverbio, mancano quei punti di riferimento  che si rinvengono in un testo ampio e che consentono di individuare il significato più appropriato al caso, anche se, come detto, sempre parziale.
Quindi ho cercato di fare del mio meglio, cercando suggerimenti nelle traduzioni del passato (spesso divergenti fra di loro), in modo da non perdere troppo lo spirito originario.
Dopo duemila anni è difficile comprendere il successo dell’opera di Publilius ed è persino difficile credere che il pubblico si divertisse con essa o che andasse a teatro per sentir parlare di virtù e onestà, di ira e di favori. Sorge persino il sospetto che ben poco vi sia di Publilius il quale, se voleva aver successo a teatro, doveva avere la battuta pesante e non da moralista.
Le Sententiae sono create con un metodo che ricorda un po’ i nostri oroscopi: termini molto generici che consentono un ampio margine interpretativo, così che ognuno possa applicare l’affermazione a ciò che gli preme. È vero che con le buone letture ci sembra spesso che l’Autore esprima proprio ciò che noi pensavamo e non sapevamo coagulare, ma Publilius, indubbiamente, su questo fenomeno ci gioca molto. Molte sentenze sono costruite in modo meccanico così che da una, ne derivano molte; ad esempio se si parte dal detto “chi trova un amico, trova un tesoro”, è sufficiente trovare cinque concetti da mettere al posto di “amico” (moglie, amica, libro, ecc,) e altrettanti da mettere al posto di “tesoro” e già ci si ritrova con dieci detti!
Publilius inoltre affronta i problemi in modo oltremodo superficiale e ristretto, come se i problemi della vita si riducessero solo all’avarizia, all’ira, alla buona condotta, all’amicizia e a poco altro. Manca quindi ogni profondità psicologica, ogni tratto umano, ogni rapporto con la società e le Sententiae appaiono solo come stucchevoli regole morali didattiche, gonfie di retorica moralistica, secondo i luoghi comuni dell’epoca come quelliu, ad esempio, che riempiono le opere di Seneca. Il quale, come è noto, questa bella retorica la insegnava agli altri, ma personalmente pensava ad arricchire con ogni mezzo! Eppure la società ne offriva di spunti concreti ed umani, come ci hanno insegnato Marziale o Giovenale.

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