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Eroda .- I Mimiambi

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teatro


I MIMIAMBI

I Mimiambi di Eroda (od Eronda), vissuto a Coo nella seconda metà del terzo secolo a. C. , erano noti solo attraverso pochi versi citati da altri autori, finché nel 1890 ne vennnero ritrovati sette in un papiro egiziano. Quella che proponiamo è la prima traduzione italiana eseguita già nel 1892 da Giovanni Setti e pubblicata poi nei "Classici del Ridere" dell' Editore Formiggini. Dopo di allora vi sono state, in Italia, ripetute pubblicazioni del testo greco con commento (N. Terzaghi, 1948, G. Puccioni, 1950), ma, a quanto mi consta, nessuna nuova traduzione. Esistono una traduzione in inglese di A.D. Knox e Loeb del 1958, una traduzione francese di L. Laloy del 1960, una traduzione tedesca di R. Herzog del 1926.

Ho seguito fedelmente il testo originario, salvo l'eliminazione di qualche troncamento troppo toscaneggiante (ad es. "la mi' madre"). Il Setti, ovviamente, non ha potuto tener conto degli studi linguistici e delle correzioni ed integrazioni apportate al testo greco nel corso del XIX secolo (per una bibliografia più recente si vedano A. Lesky, Storia della letteratura greca, Milano, Il Saggiatore, e S. Luria in Miscell. di studi alessandrini, Torino 1963), ma la sua traduzione, piena di vèrve, è più che sufficiente per gustare l'arte di Eroda.
Pure del Setti è l'ampia e colta introduzione che propongo in altra pagina.
Proemio di G. Setti ai Mimiambi


La Mezzana

Personaggi:
METRICA, padrona
TRACIA, schiava
GILLIDE, vecchia balia

METRICA
Tracia, picchiano all'uscio. Non vai a vedere, se è qualcuno che ci venga di campagna?
TRACIA
(movendo verso la porta per aprire)
Chi picchia?
GILLIDE
Sono io!
TRACIA
Chi io? Hai paura d'accostarti?
GILLIDE
Eccomi: m'accosto.
TRACIA
Ma chi sei?
GILLIDE
Gillide, la mamma di Filenio. Va' e di' a Metríca che ci sono io... Chiamala!
METRICA
(sopraggiungendo)
Chi è?
GILLIDE
Gillide!
METRICA
Mammina Gillide! (Alla schiava) Lèvati di lì un po' tu. (A Gillide) Che buon vento, Gillide, t'ha portata qui da noi? Beati gli occhi che ti vedono! Ché sono già quasi cinque mesi, mi pare, che, o Gillide, non ti si è vista neppur in sogno al nostro uscio, per le Parche!
GILLIDE
Sto tanto lontana, la mi' figliola; e nelle viottole uno s'inzacchera sino ai ginocchi. Io poi ho la forza di una mosca... Ah! la vecchiaia ci butta in terra e noi abbiamo già un piede nella fossa!
METRICA
Taci, e non calunniare gli anni: ché sei robusta tu, e strozzeresti anche qualcuno.
GILLIDE
Canzona pure! Giovani siete voialtre...
METRICA
(interrompendo)
Ma via, non ti scaldare!...
GILLIDE
Ma dimmi, o figliola: quanto tempo è ormai che tu sei vedova, e che da sola consumi le lenzuola? Dacché Mandri se n'andò in Egitto, sono ormai dieci mesi, e non ti scrive neppur un rigo, ma si vede che s'è scordato e che beve ad un'altra coppa. Laggiù c'è la casa dell'abbondanza. Tutto quello che mai di buono v'ha e si può trovare sulla terra, in Egitto c'è: ricchezze, palestre, fasto, ciel sereno, gloria, spettacoli, filosofi, oro, garzoncelli, il tempio dei fratelli numi, il buon re, il Museo, vino, ogni ben di dio quanti ne vuoi: donne poi quante, per Proserpina, non può vantarsi il cielo d'aver stelle: belle, come le dee che un dì si recarono da Paride pel giudizio della bellezza... (Ad un tratto interrompendosi, esclama con atto superstizioso a bassa voce) Ahimè, che quelle non m'avessero a sentire! (Poi continuando) E così, con che cuore tu, poverina, scaldi la seggiola? E così ti lascerai struggere nell'abbandono, e la cenere s'ingollerà la tua giovinezza? Vòltati da un'altra parte, e per un due o tre giorni cambia idea, e da brava méttiti a far l'occhiolino ad un altro. Neppure una nave sta ferma e sicura sopra una sola àncora! [...] (Con atto di riserbo, guardandosi attorno) Ma non c'è mica nessuno che ci senta?
METRICA
Nessuno!
GILLIDE
(accostandosi)
Allora sta a sentire dunque, che cosa ti son venuta a dire. C'è Grillo, il figliolo di Matacena di Patecio, uno che ha riportato nei giuochi ben cinque vittorie: prima da ragazzo nei giuochi Pizi; due volte nei Corinzi su competitori giovani di primo pelo; e due volte a Pisa atterrò degli uomini fatti, gareggiando al pugilato. È ricco, e li ha fatti bene; cheto, che non moverebbe di terra un fil di paglia; un vero sigillo intatto, per Citerèa! Come ti vide nella processione di Misa, si sentì subito trafitto nel cuore dalla passione, e il cuore gli incominciò a ballare; e notte e giorno non si spiccica dal mio uscio, figliola mia: ma coi lucciconi agli occhi e' mi scongiura e mi liscia e basisce dal desiderio. Ma tu, bimba mia, consentimi, Metríca, questo solo peccatuccio: vòtati alla dea, prima che la vecchiezza non ti arrivi addosso senza accorgertene. Farai due belle cose, [...] e ne avrai più di quel che credi. Pensaci: e da' retta a me, che ti voglio un bene dell'anima, per le Parche!
METRÍCA
Gillide, i capelli bianchi fanno rimbarbogire! Così Mandri possa tornar sano e salvo, e la benigna Cerere mi assista, come è vero, che da un'altra non sarei mica stata a sentire di codesti discorsi; e le avrei insegnato io ad andar cantando a pie' zoppi di coteste storie che zoppicano e ad avere in uggia per sempre la soglia di casa mia. Ma tu, mia cara, non venire più un'altra volta da me con queste proposizioni: questi discorsi da donne poco di buono vàlli a fare alle ragazze... E lascia che Metríca, la figliuola di Pitea, scaldi la sua seggiola: ché alle spalle di Mandri non si ride! Ma Gillide non ha bisogno, come si dice, di cotesti discorsi... (rivolgendosi alla schiava) Tracia, pulisci la nera ciotola e méscine un po' di quello puro e vèrsavi dell'acqua e dàlle da bere a piacer suo. (La schiava mesce; dopo un poco di pausa) A te, Gillide: bevi!
GILLIDE
Qua [...] Un vinello così dolce, per Cerere, come questo di Metríca, Gillide non l'ha bevuto mai ai suoi giorni! Ma tu stammi bene, figliuola mia, [...] quanto a me, son contenta, se mi restino giovani Mirtale e Sima, finché Gillide abbia fiato.
Il Padron di Bordello

PERSONAGGI
BATTARO, padron di bordello
Giudici di tribunale
Il Cancelliere
TALETE, ricco forestiero
MIRTALE, etèra

BATTARO
Giudici! A voi non tocca giudicare della nostra razza; voglio dire, né della nostra reputazione, e neppure se questo Talete qui possiede una nave del valore di cinque talenti, mentre io non ho neppure il pan da vivere [.. lacuna di 16 versi ..] '. Ché se per la ragione, che egli scorrazza il mare e si drappeggia in un manto di tre mine attiche, mentre a me tocca vivere per terra strascicando un mantellaccio logoro e delle ciabatte sdrucite, gli è lecito di portarsi via di riffa una delle mie donne (e questo di notte), se n'è bell'e ita la sicurezza della città, o giudici; e la vostra bella libertà, di cui andate tronfi, ve la manderà in malora il nuovo Talete: lui, che avrebbe dovuto sapere di che genia è, e di che fango è sudicio al pari di me, e quindi vivere, dico io, con un sacro timore dei popolani, e fossero pur l'ultima feccia! Ora quelli che sono, per dir così, i caporioni della città, e gonfiano per la nobiltà del casato (non però quanto costui), le leggi essi le osservano; e nessun cittadino si sognò mai di darmi lo sfratto perché forestiero, né prese d'assalto il mio uscio di notte, né con fiaccole venne ad appiccarmi il fuoco alla casa, né di riffe o di raffe si puntò di trascinarsi via una delle mie ragazze. Ma questo villanaccio rifatto d'un Frigio, che ora si spaccia per Talete (mentre per lo avanti, o giudici, era semplicemente Artimma) compì tutte queste prodezze senza un riguardo né a legge, né a pritane, né ad arconte. Eppure (rivolgendosi al Cancelliere) pigliami, o cancelliere, il testo della legge che riguarda le offese personali; e tu costà tappa il buco della clessidra, amico, mentre tu reciti: perché non ci abbia a rimettere, come dice il proverbio, il deretano e le robe.
IL CANCELLIERE
(legge)
«Se un libero bistratti una schiava o la seduce facendole violenza, pagherà doppia la multa della querela».
BATTARO
Coteste leggi, o giudici, le dettò Caronda, e non Battaro per rifarsi di Talete. «Se poi abbia picchiato alla porta, paghi una mina, dice; se l'abbia sfondata a pugni, un'altra mina ancora. Se poi abbia attaccato il fuoco alla casa, o trapassato i termini di confine, prescrive che la multa sia di mille; e se vi sia danno od offesa, paghi il doppio». Egli, il legislatore, viveva in città; ma tu, o Talete, non sai né che sia una città, né (tanto meno) come una città si governi. Oggi sei qui a Bricinderi; ieri ti trovavi ad Abdera; domani, se ti capiti il carico, navighi alla volta di Faselide. Insomma: per non tediarvi, o giudici, con le lungagnate e infradiciarvi con i discorsi, io da Talete ne ho sofferte d'ogni sorta: proprio come il topo nella pece. Mi ammaccò coi pugni, mi buttò giù l'uscio della casetta mia (per cui pago a contanti il terzo delle entrate), mi incendiò l'architrave. (Volgendosi ad una delle sue inquiline) Qua, Mirtale, anche tu fàtti vedere in pubblico; non c'è da fare il viso rosso: questi signori, che tu vedi in atto di giudicare, fa' conto che sieno tuoi genitori, tuoi fratelli. Osservate, o giudici, le spelacchiature di costei, e di sopra e di sotto come l'ha spelacchiata tutta quel valentuomo, mentre la trascinava e la violentava. O santa Vecchiaia: bisogna farti un sacrifizio coi fiocchi; ché se non eri tu, il sangue schizzava fuori dalle vene [...]
Ridi? Sono un bagascione, è vero: non dico di no; e mi chiamo Battaro, e mio nonno si chiamava Sisimbra, e il babbo mio Sisimbrisco, e tutti tenevan bordello. Ma in quanto a forza, io mi sentirei di strozzare un leone, se Talete lo fosse. Capisco: tu forse vuoi Mirtale. Non c'è nulla di strano. Ma io ho bisogno di frumento: dà di questo e avrai quella. Oppure, per Giove, se ti senti caldo dentro, risputa qui in mano a Battaro il prezzo; oppure prendendoli in mano, scòcciateli, se ti fa gusto. È tutt'uno, o giudici. Questo, si capisce, lo dico per lui: voi, giacché testimoni non vi sono, definite la questione con una sentenza imparziale. Ché se lui vuol procedere senza altro, come se si trattasse di ciccia di schiavi, e pretende la prova, eccomi qui, o Talete: prendimi e torturami; soltanto, il prezzo della multa sia messo fuori. Minosse in persona con la sua bilancia non potrebbe far meglio le parti!
Del resto, o giudici, nel dare il vostro voto non fate conto di giudicare il ruffiano Battaro, ma i forestieri tutti che dimorano in questa città. Ora voi mostrerete quanto valga Coo e Merope, e qual fama avessero Tessalo ed Ercole, e la ragione per cui Esculapio venne qua da Tricca, e per favore di chi Febe dètte qui in luce Latona. Avendo ben presente tutte queste cose, decidete la causa con una giusta sentenza: di guisa, che questo Frigio, ora conciato per le feste, si faccia migliore: almeno, se non mentisce il proverbio tramandatoci dai nostri vecchi. (Nota: Il proverbio era: "schiavo battuto diventa migliore").
Il maestro di scuola

PERSONAGGI
LAMPRISCO, maestro
METROTIMA, madre di Cottalo
COTTALO, scolaro
EUTIA, COCCALO, FILLO, scolari compagni di Cottalo

METROTIMA
Che le dolci Muse ti dieno, o Lamprisco, di gustar un po' di bene nella vita! Ma a costui (indicando il figliolo) gli hai a scorticare il groppone, fin che l'animaccia sua non gli venga proprio sulle labbra. Tutta la casa m'ha messo sossopra giocando a pari e caffo; ché i dadi non gli bastano più, o Lamprisco: e la faccenda ormai si va a far grossa. Dove stia di casa il maestro di scuola, che il trenta d'ogni mese (e son dolori!) vuol la mesata, non gli caveresti di bocca, anche se versassi tutte le lagrime di Nannaco. Ma il ridotto dello sciopero, ove si dan convegno i facchini ed i monelli, quello, si, lo sa insegnare anche agli altri. E quella povera tavoletta, ch'io m'arrabatto ad incerare tutti i mesi, se ne giace là abbandonata davanti allo stramazzo, alla colonnina della parete. E se pure, sbirciandola di traverso come se fosse l'Orco, la piglia in mano, non la piglia per scrivervi su qualche bella cosa, ma per raschiarla tutta quanta. Le gazzelline intanto se ne stanno nei mantici e nelle reticole unte e bisunte più dell' ampolla che ci serve a tutto. Una "a" dal "b" non lo sa distinguere, se non gli voci cinque volte la stessa cosa. L'altro giorno, mentre suo babbo si sfiatava a farlo leggere, di un Marone fece un Simone questo bel tomo: tanto che io mi dètti della citrulla, io che, invece di mandarlo a pascere i somari, lo tiro su nell'abbicci con l'idea di farmene il bastone della vecchiaia! Se io o suo padre (povero vecchio, mezzo sordo e mezzo cieco) gli diciamo di recitare qualche pezzo, come si fa coi ragazzi, allora bisogna vederlo...: par che sgoccioli da un colino. «O Apollo dei campi! questo» gli dico io «anche la nonna, poveretta, ti saprà recitare, essa che non sa di lettere, od un Frigio qualunque». Se poi ci piace di borbottare anche un po' più forte, ecco per tre giorni non rivede la soglia di casa, ma scappa da sua nonna, e tormenta quella vecchia e povera donna...; oppure monta sul tetto, e se ne sta lassù, dinoccolato, con le gambe penzoloni, come uno scimmiotto. Ci pensi tu, come si debbano rimescolare le viscere in corpo a me, disgraziata, quando lo veggo? E non discorro tanto di questo: ma mi fracassa tutte le tegole, come se fossero stiacciate; e come si avvicina l'inverno, tocca a me a disperarmi ed a pagare ogni rottura un obolo e mezzo. Ad una voce tutto il casamento grida: «Queste sono le prodezze di Cottalo, il figliuolo di Metrotima»; ed è la verità, che non fa una grinza. Mira, in che modo s'è fatta tutta lividi la groppa scorrazzando pel bosco: pare un di que' pescatori di Delo, che sul mare trascinano la vita melensa! Però il sette ed il venti (Nota: giorni di vacanza) li sa meglio degli strolaghi; e non piglia neppur sonno al pensiero di quando voi fate vacanza. Ma se coteste dèe costì, o Lamprisco (accennando alle immagini delle Muse, che decoravano la scuola), ti dien del bene e ti consentono una opera buona...
LAMPRISCO
Non stare, o Metrotima, a scongiurare per lui: ché non avrà meno di quel che deve avere. (Chiamando ad alta voce) Dov'è Eutia? Dove Coccalo? Dove Fillo? Non vi spicciate a pigliare costui in groppa, poltroni, che tirereste in lungo la cosa sino alle calende greche? Faccio onore ai bei fatti, Cottalo, che tu fai. A te non basta più giocare alla buona con le tessere, come fanno questi qui (accennando ai compagni); ma ti ci vuole il ridotto e il gioco del soldo tra i facchini. Ora io ti vo' rendere più ammodo d'una fanciulla: tale, che non moveresti una foglia, anche se te ne spirassi! Qua il nerbo sodo, la coda di bue, con cui concio di santa ragione i riottosi ed i perversi... Presto, qua: prima che io abbia vomitato la mia bile!
COTTALO
No, ti supplico, Lamprisco: per coteste Muse, e per la tua barba, e per l'anima di Cottide; non mi conciare con quella soda, ma con l'altra... LAMPRISCO Ma tu se' un briccone, o Cottalo: tanto, che non ti decanterebbe pur un rivendugliolo; neanche nel paese ove i topi rosicchiano persino il ferro.
COTTALO
Quante, quante... Lamprisco... ti supplico... me ne fai dare?
LAMPRISCO
Non lo domandare a me, ma a costei (accennando la madre). Piff, paff! (picchia).
COTTALO
Quante, dico, se t'ho a campare?
LAMPRISCO
Quante ne reggerà la tua pellaccia.
COTTALO
Smetti... bastano, Lamprisco!
LAMPRISCO
E tu smetti le tue birbanterie... COTTALO Non lo farò più, più... te lo giuro, o Lamprisco, per le care Muse!
LAMPRISCO
Ohè tu, che parlantina che tu hai... Ti appiccicherò subito il bavaglio, se più oltre borbotti...
COTTALO
Ecco, sto zitto... Ma ti prego, non mi ammazzare!
LAMPRISCO
Lasciàtelo, Coccalo.
METROTIMA
Non hai a smettere, Lamprisco. Ma rèbbialo ben bene, fin che il sole vada sotto...
LAMPRISCO
Peraltro la cotenna l'ha più screziata d'una tarantola...
METROTIMA
E deve buscarne, proprio mentre è chinato sul libro... il disutilaccio... altre venti, per lo meno: anche se leggerà più spedito della stessa Clio.
COTTALO
(a quella fiera minaccia, riuscito a svignarsela, con la lingua fuori della bocca ghigna)
Issssch!
METROTIMA
(in atto ancor più minaccioso)
Che senza accorgertene tu non abbia tuffato la lingua... nel miele! (Dopo una breve pausa) Corro subito a casa a dirlo di proposito' o Lamprisco, al mio vecchio; e ritornerò con dei ceppi, perché lo mirino qui a saltellare con quelle collane ai piedi le dee venerande, che egli ha in uggia.
Il sacrificio ad Esculapio

PERSONAGGI
Una donna
CINNO, altra donna
CIDILLA e COCCALA , ancelle
Il custode del tempio

LA DONNA
Salve, o re Peane l' che imperi su Tricca e un dì abitasti la deliziosa Coo ed Epidauro! E voi pure salvéte, o Coronide ed Apollo progenitori, con l'Igèa che tu, o dio' tocchi con la mano destra: e di cui sorgono questi venerati altari. Salute infine a Panacea, ad Epione ed a Iaso; e salute ai medici dei fieri morbi Podalirio e Macaone, che un dì rovinaste dalle fondamenta la casa e la città di Laomedonte. Quanti dèi insomma e quante dèe dimorano intorno al tuo focolare, o padre Peane, siateci propizi; ed accogliete di buon grado questo gallo, che, araldo delle domestiche pareti, a voi sacrifico, e queste focacce. Le nostre acque son basse e non vi è molto da pescare a fondo: altrimenti, non avremmo esitato ad offrirvi in cambio d'un gallo, un bel giovenco od una pingue scrofa; in compenso dei mali, onde tu, o nume, ci purgasti, stendendo sopra di noi le benigne tue mani... (Rivolgendosi all'ancella) Costì, a man ritta, o Coccala, deponi dinanzi ad Igea il vassoio... (Dopo un po, di pausa) rivolgendosi all'amica) Uh! che belle imagini, cara Cinno! Chi mai sia stato l'artefice che lavorava questo marmo, e chi lo dedicò?
CINNO
I figliuoli di Prassitele. Non vedi nella base quella iscrizione? Le dedicò poi Eutía, il figlio di Prassone.
LA DONNA
Che a quelli e ad Eutía sia propizio il dio in grazia delle belle sculture! Guarda, cara, quella bimba lassù, che contempla quella mela: non diresti, che se non coglie la mela, si morrà dal desiderio? E quel vecchio, Cinno...
CINNO
Per le Parche, ma quel papero come lo strozza quel putto! Costí, davanti a noi, se il lavoro non fosse di pietra, diresti: «Fra poco parlerà!». Perbacco: col tempo gli uomini riusciranno ad infondere la vita persin nelle pietre.
LA DONNA
Per esempio: non vedi, o Cinno, come è mossa quella figura di Batale, la figliuola di Mitti? Chi non avesse visto Batale coi propri occhi, fissando questa immagine, non avrebbe bisogno di veder l'originale.
CINNO
Vieni, cara, con me: ché ti faccio vedere un lavoro, di cui non hai visto l'eguale in vita tua! (All'ancella) Cidilla, va, e chiama il custode. Con chi parlo? E stai lì a bocca aperta? Uffa! Non ti spicci a fare quel che ti dico? Ha messo radice in terra, e mi tien gli occhi addosso imbambolati... peggio d'un granchio! Va', ti ripeto, e chiama il custode. Ingordona! Di te non può dir bene né il giorno di festa né il giorno da lavoro; in casa e fuori poltrona sempre! Per questo dio, Cidilla, t'assicuro, che mi fai imbizzire e mi gonfi l'anima in un momentaccio, mentre non ne ho voglia. T'assicuro, dico,... e te ne accorgerai il dì, che il rasoio ti pelerà cotesta zucca!
LA DONNA
Non ti guastare il fegato così ad un tratto, Cinno: è una serva, e le orecchie delle serve sono turate dalla infingardaggine.
CINNO
È trasandata, e la cosa si fa seria ogni dì di più... (Pausa) Ohè tu, aspetta: la porta s'apre e si può entrare nel vestibolo. (Si chiudono i battenti del santuario. Le donne entrano, guardano attorno: poi ripigliano il dialogo).
LA DONNA
...Non vedi, Cinno mia, che lavori? Diresti che una nuova Minerva li ha scolpiti, tanto son belli! Salve, o dea! Quel bimbo nudo, se io lo pungo, non gli verrà una piaga, Cinno? Lì vicino quelle carni tremolano calde calde nel vassoio; e quelle mòlle d'argento, se le vedessero Miello o Patecisco, il figlio di Lamprione, schizzerebbero le pupille fuor dalle occhiaie, credendole proprio d'argento. E quel toro, e l'uomo che lo conduce, e la donna che è della comitiva, e quel coso dal naso rincagnato e dai capelli tutto un arruffio, chi, mirando, non li scambierebbe per vivi? Se non temessi di far cosa sconveniente ad una donna, mi metterei a berciare, perché quel toro non mi facesse del male: guarda così in tralice, o Cinno, con quell'occhio!
CINNO
Cara mia. Egli è che le mani dell'efesio Apelle erano la verità stessa in ogni lor tratto. Di lui non puoi dire: «Una cosa egli vide ed una la fantasticò». Ma qualunque idea gli balenasse, umana o divina, egli la incalzava: e chi lui o le opere di lui mirò e non si sentì a ragione preso da entusiasmo, quegli penzoli per un piede nella gualca d'un lavandaio!
IL CUSTODE
(sopraggiungendo)
Donne, il sacrifizio è riuscito felice e promettente. Nessun mai si propiziò il dio Peane così com'ora voi... (intonando la preghiera). Iò, iò, Peane: benigno sii per il bel sacrifizio a costoro ed ai loro mariti e parenti. Iò, iò, Peane; e così sia!
LA DONNA
Che sia cosí, o buon omo! E che vive e verdi possiamo ritornarci coi nostri uomini e coi figlioli, cariche di maggiori offerte...
CINNO
(a Coccala)
Coccala, ricòrdati di tagliar a modo il galletto, e di darne la coscina al custode, e di porre divotamente nella buca del serpente il libame, e di aspergere le offe; col resto banchetteremo nella magione del sacro recinto... E non ti scordare di portarlo tu! E voglio che tu prenda teco anche della salute; ché la salute è alle feste compagna migliore della porzione!
La Gelosa

PERSONAGGI
BITINNA, padrona
GASTRONE, schiavo
CIDILLA, ancella
PIRRIA e DREGONE, aguzzini


BITINNA
Dimmi, ohè, Gastrone: tu ne sei più che sazio; tanto che non ti basta più di dimenare le mie coscie, ma ti butti sopra Amfitèa, la schiava di Menone.
GASTRONE
Io... Amfitèa... ho veduto, che tu dici? Tutto il giorno vai cercando dei cavilli, o Bitinna!... Sono uno schiavo...: fa' pur di me quel che vuoi, ma non mi succhiare il sangue giorno e notte.
BITINNA
Ohè tu, che parlantina che tu hai...! (Volgendosi all'ancella) Cidilla, dov'è Pirria? Chiàmamelo!
PIRRIA
(sopraggiungendo)
Che c'è?
BITINNA
(a Pirria)
Lega questa carogna... E ancora non ti muovi? Subito, e con la fune della secchia. Se non darò di te un solenne esempio a tutto il paese, conciandoti per le feste, io non son chi sono! O che non sono io, bestia, piuttosto la cagione di tutto questo? Io sono, o Gastrone, che ti misi all'onor del mondo. Feci una corbelleria... Ma non ti credere, che io sia ancora una stupida... A chi dico, ohè, tu? Lèvagli la tunica e légalo...
GASTRONE
No, no, Bitinna...: per i tuoi ginocchi ti supplico...!
BTTTNNA
Spògliati, dico. T'accorgerai, che non per nulla se, schiavo, e che mi costasti tre mine! Accidenti a quel giorno, che ti condusse qui... (Volgendosi quindi all'aguzzino) Pirria, ne toccherai! Veggo, che tu, affedidio, pensi a tutt'altro, che a mettergli le cinghie addosso. Stringigli ben bene assieme i gomniti, e legali fin a segarli...
GASTRONE
Bitinna, per questa volta perdonami questo peccato. Sono uomo, ho fatto male...; ma se un'altra volta mi cogli a fare quello che non vuoi, bòllami.
BITINNA
Non intronare me di queste cose che hai a districare tu con Amfitèa. Con lei tu ti rivoltoli e me tieni sotto i piedi come un canovaccio!
PIRRIA
Te l'ho legato per bene.
BITINNA
Occhio, che non si sciolga! Ménalo all'ergastolo da Ermone, e digli che gliene zombi mille in sul groppone e mille in quel ventraccio!
GASTRONE
M'ucciderai, Bitinna: senza neppur prima esser venuta in chiaro, se sia vero o falso.
BITINNA
Come? Non l'hai confessato tu stesso un minuto fa con la tu, stessa lingua: «Bitinna, per questa volta perdonami questo peccato»?
GASTRONE
Sí, l'ho detto...; ma per calmare quella tua bile.
BITINNA
(all'aguzzino)
E stai lì tu, melenso, e non lo trascini subito dov'io ti dico? (All'ancella) Cidilla, lèvami di sotto il grugno di cotesto sciagurato... e tu Drecone, (volgendosi all'altro aguzzino o schiavo) vànne dietro a lui, appena si sia avviato. Tu, schiava (volgendosi all'ancella) dàgli un cencio a cotesto furfante, da coprirsi quella infame nerchia: perché non lo vedano nudo così attraversare il foro. (Dopo una breve pausa) Per la seconda volta, Pirria, ti ripeto' che dirai ad Ermone di sonargliene mille di qua e mille di là: (accennando con la mano) hai capito? Che se non starai appuntino a questi miei comandi, pagherai tu del tuo e capitale e frutto! Vàttene: e non prendere per quel di Miccale, ma diritto. (Gli aguzzini partono, trascinandosi il disgraziato. Bitinna li segue coll'occhio, agitata... Poi, dopo un breve momento, stringendo convulsa la testa fra le mani) Ma, che cosa mi sovviene? (All'ancella) Ah! corri, e chiama, tu, schiava,... prima che quei sieno lontani...
CIDILLA
(gridando dietro all'aguzzino)
Pirria, disgraziato, sordone... Ti vuole... Ahimè! Si direbbe che egli ha da cardare, non un compagno di servitù, ma un frugasepolcri! Mira, come ora strascica lui di riffa ai tormenti... (Chiamandolo di nuovo) Pirria, ma per questi due qui (si tocca gli occhi) preveggo che non passeran cinque giorni, che Cidilla ti vedrà da Antidoro a consumar co' garetti i ceppi che ti sei levato ieri...!
BITINNA
Olà tu, (a Pirria, che richiamato ritorna indietro) qua da me insieme con lui, legato così come lo tieni; e fammi venire Cosi, quei che bolla, con gli aghi e la morchia. (A Gastrone) Hai in una sol volta da diventar variegato, come una tarantola! Appiccalo costi alla sbarra; tanto vale una miocca.
CIDILLA
Non lo fare, cocca mia, ma ora lascialo. Così ti campi Batillide, tua figlia, e tu possa vederla recarsi alla casa dello sposo e palleggiare in sulle braccia i figlioletti, Ti chieggo grazia per questa sola mancanza...
BITINNA
(infuriata)
Cidilla, tu m'hai fradicio, non mi seccare! Se no, lèvati da questa casa...! Liberar lui, quel servucciaccio di tre cotte? Perché poi fuori, chi m'incontra, m'abbia (e n'avrebbe tutte le ragioni) a sputacchiarmi il viso! No, per la regina delle dee... Così, se egli non sa d'esser uomo, se ne avvedrà issofatto con quel marchio in fronte.
CIDILLA
Ma oggi n'abbiamo venti, e fra quattro giorni son le Gerenie...
BITINNA
Embè! Per oggi (parlando a Gastrone) ti lascio andare... Ma ringrazia costei (accennando a Cidilla), cui voglio bene quanto a Batillide, avendola allevata in casa con queste mie braccia. Ma quando avremo fatto le libazioni pei morti, allora non dubitare, che si festeggerà la tua festa...!

La conversazione intima

PERSONAGGI
CORITTO e METRO, amiche
Una schiava
La massaia


CORITTO
Mettiti a sedere, Metro. (Alla schiava) Tu àlzati di costì, e da' una seggiola alla signora. Ti si deve dir ogni cosa...; da te, poltrona, non se' buona a far nulla! Pfui! tu sei un masso, non una serva per casa. Però, quando ti misurano il farro, e tu conti i chicchi; e se un pocolino ti se ne versa, brontoli tutto il giorno e ti arrovelli, che neppur le pareti ti sopportano... (La schiava pulisce la seggiola) Adesso la spolveri e la fai bella, perché ci bisogna! Ladra! (Alza la mano minacciosa in atto di picchiare; poi se ne ristà, risovvenendosi della visitatrice) Ringrazia in ginocchio costei, se non ti faccio sentire il sapore delle mie mani!
METRO
Coritto mia, tu porti lo stesso mio giogo! Anch'io debbo digrignare i denti giorno e notte, e come una cagna abbaiare a cotesta roba senza nome. Ma la ragione per cui son venuta...
CORITTO
(alla schiava)
Levàtevi di torno e andate alla malora, guitte: che non siete altro che lingue ed orecchi, e poi festa.
METRO
Ti prego, non mi dir bugia, cara mia Coritto: chi mai è stato l'artefice che ti ha cucito quel ninnolo cremisino?
CORITTO
(con atto di grande meraviglia)
Dove l'hai visto, Metro, tu?
METRO
L'aveva Nosside, la figliuola di Erinna, l'altro giorno. Bel regalo, in verità!
CORITTO
Nosside? E dove può averlo preso?
METRO
Mi comprometterai, s'io te lo dico?
CORITTO
No, ti giuro per queste dolci pupille, (accennando gli occhi) cara Metro! Dalla bocca di Coritto non udrà nessuno quel che tu mi dirai...
METRO
Glielo diede Eubole, la figliuola di Bitati, raccomandandole che non trapellasse nulla della cosa.
CORITTO
Ah! Donne! Quella lì una volta o l'altra mi farà uscire dai gangheri... Ed io che mi feci tanto riguardo di darglielo, e non glielo diedi che dopo molti scongiuri, o Metro; e prima che io stessa me ne servissi! E quella dopo avermelo ghermito, come cosa raccattata, la va a donare a chi non deve... Alla larga da amiche di questa fatta! In cambio di noi, cércati pure un'altra amica. Del resto, a Nosside, con cui se mi basta l'animo, affé, voglio borbottare (cosi tu non mi senta, o Adrastea!) più di quel che possa una donna, avendone anche mille, non gliene darei un altro, neanche se fosse tutto rugoso!
METRO
No, no, Coritto: non ti far saltar subito la mosca al naso per una ragione avventata. È da donna dabbene il tollerare ogni cosa. Ma sono stata io con le mie chiacchiere la cagione di questo putiferio... Mi si dovrebbe tagliarla, questa linguaccia... Ma quel coso, di cui per l'appunto t'ho parlato, chi l'ha cucito? Se mi vuoi bene dimmelo. Perché mi guardi e sorridi? Vedi Metro ora per la prima volta? O come hai tu di siffatti gingilli? Ti scongiuro, Corituccia mia, non me lo nascondere. Ma di' su, chi lo ha cucito.
CORITTO
Uhum! Perché tanti scongiuri? (Dopo una breve pausa) Lo ha cucito Cerdone.
METRO
Qual Cerdone? Dimmelo. Ché ce n'è due dei Cerdoni. Uno è quello dagli occhi chiari, il vicino di Mirtalina, la figliuola di Ciletide: ma costui non saprebbe neppur adattare un plettro ad una lira! L'altro, che abita vicino al casamento di Ermodoro per chi sbocca in piazza, era bravo tempo addietro, era bravo...; ma ora è invecchiato. Da costui si serviva la povera Pimetide. Di lei si possano ricordare quanti la conobbero!
CORITTO
Non è né l'uno né l'altro di cotesti che tu dici, Metro. Ma è uno non so se di Chio o di Eritre, piovuto qui: uno calvo, mingherlino. Lo diresti Prassino stesso: due gocce d'acqua non si somiglian di più. Peraltro, se scioglie lo scilinguagnolo, conosci subito, che lui è Cerdone e non Prassino. Lavora in casa, e smercia di contrabbando: perché adesso ogni uscio ha paura dei gabellieri. Ma, ti garantisco, sembrano lavori di Minerva: ti par di vedere le mani di costei, non di Cerdone. Io (ché me ne portò già due) come li ebbi visti, Metro, mi schizzaron fuori gli occhi stravolti... I loro negozi agli uomini... (guardandosi attorno) ­ siam ben sole? ­ non s'incordano cosi... E non solo questo: ma son mollicini, come il sonno; e i coreggioli lanosi, non di cuoio... Puoi cercarlo, ma un cuoiaio più compiacente per le donne non lo trovi...: non c'è l'eguale!
METRO
O allora, come rimandasti quell'altro?
CORITTO
Che non feci, Metro! Qual argomento non tirai in campo per indurlo! Lo baciucciai, gli lisciai la zucca, gli mescei del vino dolce, gli feci ogni sorta di carezze... Solo non mi dètti...
METRO
Ma se anche ti avesse chiesto, bisognava che tu ti dèssi. CORITTO Bisognava.. Ma doveva anche almeno esser buono il momento: invece nel più bello capitò la schiava di Bitati, Costei giorno e notte macinando al nostro mulino lo ha ridotto un torso, e questo per non rimetterci quattro soldi del suo.
METRO
In che maniera lui trovò la via per arrivare sino a te, cara Coritto? Non mi nascondere neppur questo.
CORITTO
Me lo mandò Artemide, la figliuola di Candati, quello che vende il cuoio, dopo avergli insegnato la mia casa.
METRO
Quella Artemide trova sempre qualche cosa di nuovo per far vieppiù fiorire la sua azienda. Ma se tu allora non avevi da comperare quei due, bisognava rinvenire quanto all'altro la donna, che l'avrebbe dato in prestito.
CORITTO
Chiesi e richiesi: ma lui a giurare, che non me lo poteva dire. In questo, sappilo, egli era anche un po' maligno, o Metro.
METRO
Tu mi consigli ad andare ora da Artemide, per sentire quel Cerdone chi è. (Accommiatandosi) Stammi bene, Corittuccia mia: sento appetito, e poi è tempo d'andarcene.
CORITTO
(alla massaia)
Chiudimi la porta, ohè, tu, massaia; e conta le galline, se ci son tutte; e butta loro del becchime. Peraltro questi polli guastano tutto, fin la roba rinchiusa: ed anche se qualcuno li allevi in seno.
Il Calzolaio

PERSONAGGI
METRO, donna accompagnata da due amiche
CERDONE, calzolaio
DRIMILO, garzone
PISTO, lavorante

METRO
Cerdone, ti conduco queste mie amiche, se ci hai un po' qualche lavoro delle tue mani, bello e degno, da fargli vedere.
CERDONE
Non per nulla, Metro, io ti voglio bene. (Al garzone) Che ci metti a tirar fuori a queste donne la mostra più grande? Ohè, con chi parlo? Ti richiappa il sonno? Dàgli sul muso, Pisto, fino a che non abbia cacciato via tutto il suo sonno. Anzi, fa' una cosa: con un bel nastro légagli la lesina al collo. Orsù, mariuolo, sgranchisciti le gambe; se non vuoi che ti tocchi logorare dei ceppi stridenti: ávvisi di gente siffatta. Ora, tignoso, senza tirar il fiato ti sei messo a pulirla ed anch'io sulle tue spalle pulirò la scranna... (Alle donne) Sedete, Metro! (Al lavorante) Pisto, apri l'armadio nuovo, non quello sgangherato; e porta subito giù i lavori fini del terzo palchetto. (Dopo una breve pausa) O cara Metro, vedrete che lavori: guardali pure con comodo ad uno ad uno! (Di nuovo al lavorante) Apri il cassetto dei sandali. (Alla donna) Guarda prima questo, Metro [...] Guardate anche voi, o donne: il calcagno mirate come è ben fermato con bullette di bronzo, ed è tutto attaccato: e non c'è una cosa lavorata bene, ed un'altra non bene, ma tutto sta bene... Quanto al colore poi non lo trovate un altro cuoio uguale a questo, pel colore: non è cosi bianco un giglio e neppur la cera. Di un paio simile tre mine mi diede la figlluola di Candati... Bello questo e quell'altro colore... Sono i guadagni che son magri: ti giuro, per quanto v'è di sacro; e come un cane mi tocca continuamente borbottare la verità, ed ora potrei dire, e la bugia non peserebbe quanto un tratto di bilancia, o a Cerdone non facesse pro la vita e l'utile [...] Senonché gli altri calzolai mirano a maggiori guadagni: e non ci corre nulla tra i lavori di quelli e i nostri dell'arte di noi!... Ciabattino, scaldo la seggiola notte e giorno sopportando la triste miseria: ché il lavoro s'ingolla tutto il tempo nostro dalla mattina sino a sera; e all'alba le bestiole di Micione non c'è bisogno, ti so dire, che cantino... E non ho detto ancora, che ho da mantenere tredici lavoranti (ed è per questo, o donne, che ho in uggia la pigrizia); i quali, anche quando piove, mi cantano agli orecchi: «Dà, se hai a dare!». Insomma, mi pigliano da ogni parte, e come pulcini mi scaldano i lombi. Ma le chiacchiere non fan farina: sul mercato quattrini hanno a essere! Se questo paio qui non vi piace, Metro, se ne tirerà fuori un altro, e poi un altro: sino a tanto, che non vi state proprio persuase, che Cerdone non spaccia bubbole. (Al lavorante) Tirami fuori, Pisto, tutte le qualità di sandali: ché, care mie donne, avete a tornarvene a casa con un mio pegno. Guardate, voialtre: vi son novità d'ogni genere: scarpe di Sicione, di Ambracia, pollastrine, scarpe liscie, pappagalline, canapine, babbucce, pantofole, stivaletti ionici, borzacchini, pipistrelline, scarponcelli, granchine, tartaglie, sandali argivi, scarlattine, efebi, stivali. Quelle che più vi garbano, ditelo: perché possiate accorgervi, che dal calzolaio donne e cani ci trovan sempre da rodere.
METRO
Quanto ne vuoi di quel paio di dianzi? Ma non sballarla grossa ohè tu: se non ci vuoi far scappar via al corsa.
CERDONE
L'hai a stimare da te, se ti pare; e fare tu il prezzo che costano: ché cosi non potrai dire, che ti metto di mezzo. Se desideri, cara la mia donna, proprio un lavoro fino di calzolaio, sputa fuori qualcosa, per questa zucca brizzolata, su cui la volpe ci ha fatto il nido [...] (Fra sé) O Mercurio, dio dei guadagni, e tu, o lucrosa Persuasione, assistimi: ché se non ci si chiappa questa nella rete, non so come si potrà far meglio il vantaggio della pentola.
METRO
Che mugoli costi, e non butti fuori alla bella libera il prezzo quel che è?
CERDONE
Cara la mia donna, per cotesto paio costì ci vuole una mina, né più né meno... (A quel prezzo, che le pare esorbitante, la donna leva gli occhi al cielo, quasi ad invocare testimoni gli dèi. E il nostr'omo, proseguendo) E non c'è tanto da guardar in alto ed in basso...; per un picciolo che è un picciolo di meno non lo otterrebbe Minerva, che è Minerva!
METRO
Non c'è che dire: il tuo sgabuzzino, Cerdone, è pieno zeppo di lavori svariati e belli. Tienne di conto: ché il venti del mese di Taureone (Nota: febbraio-marzo) sposerà Ecatea, la figliuola di Artacena: e ci sarà bisogno di stivalini. Allora può darsi, che ti portino desse, con la buona Fortuna, quel che domandi: anzi di certo... Peraltro cùciti il borsellino, perché le dònnole non t'abbiano a portar via le tue mine.
CERDONE
Venga pur Ecatea: per meno d'una mina non le porterà via. Venga pur Artacena. (Dopo una pausa) Guarda un po, questa... (mostrando un altro paio).
METRO
Neanche la tua buona Fortuna, o Cerdone, ti darà di toccare dei piedini, che solo Cupido e gli Amorini li toccano! Mentre le altre hanno soltanto rogna e sudiciume... E cosi, quel che non darai a noi per le tue chieste esagerate, lo darai a costei. (Dopo una pausa) E di quell'altro paio là quanto? Daccapo, gonfiala da par tuo!
CERDONE
Per cinque stateri, quanto è vero Dio, viene ogni giorno con la voglia di pigliarseli Evéteri, la suonatrice. Ma io non la posso patire; e neanche mi offrisse quattro darici, per questo, che con dei brutti scherzi si diverte alle spalle di mia moglie. Ma a te, se occorrono, prendili e pòrtateli via. Te li voglio dare per tre darici, e questi e questi, (accennando diverse paia) che è il loro prezzo di costo, per amor di questa Metro qui... Sei tanto graziosa, che anche essendo io pesante come una macina, tu basti a farmi volare in alto tra gli dèi dell'Olimpo. Cotesta tua non è una lingua, ma balsamo stillato. Ah! non è men beato degli dèi l'uomo, cui tu notte e giorno consenti l'ebbrezza dei tuoi baci... (pausa). Qua il piedino! È un miracolo, se fa una grinza. Pàffete! Non c'è da aggiungervi né da levarvi un étte. Già alle belle ogni cosa bella sta d'incanto. Diresti, che questa suola l'ha tagliata Minerva in persona. (Volgendosi ad un'altra) Da' qui anche te il piede... (e, osservato la vecchia scarpa levata dal piede, soggiunge) aveva l'ugna rognosa il bue che vi calzò... Se uno fosse andato con il trincetto torno torno al piede, per il Lare di Cerdone, il lavoro non ti starebbe dipinto, come dipinto ti sta. Ehi tu (volgendosi all'altra), di cotesti mi darai sette darici: tu, che nitrisci costì alla porta peggio d'una cavalla...! Donne, (parlando a tutte le sue avventore) se avete bisogno d'altro: o di sandaline o di quelle pianelle che strascicate per la casa, basta che mi mandiate qua la servetta. (Poi rivolgendosi a Metro) Quanto poi a te, Metro, vieni senz'altro il nove a pigliarti quelle granchine: ché, insomma, se si vuole che la ruota giri, bisogna pur ogni tanto ungerla ben bene.

Indice

I MIMIAMBI:
I. La mezzana .
II. I1 padron di bordello .
III. I1 maestro di scuola .
IV. Il sacrifizio ad Esculapio
V. La gelosa .
VI. La conversazione intima .
VII. Il calzolaio



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