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Teofrasto nacque attorno al 371 a. C. in Ereso, sull'isola di
Lesbo, e fu il principale allievo e collaboratore di Aristotele,
di cui ne continuò la scuola dopo la morte, nel 322 a.
C. Morì a 85 anni, circa nel 287 a. C.
Le parole tra parentesi quadre, sono (salvo diversa indicazione),
mie aggiunte rivolte a facilitare la comprensione del testo, nel senso che
mi è parso più probabile.
La falsità (1) è dunque, secondo la definizione,
la simulazione in peggio di fatti e di parole. La persona falsa
è quindi uno che quando incontra i suoi nemici si mette
a parlare con loro e non mostra il suo odio. Egli loda in faccia
chi di dietro ha fatto a pezzi ed esprime la sua partecipazione
a chi ha avuto la peggio [in un processo]. Mostra indulgenza con
chi sparla di lui e per le brutte cose dettegli contro. Con le
persone che hanno subito un torto e sono arrabbiate, parla in
modo mite. Se uno ha premura di parlargli, gli fa dire di passare
in un altro momento (2). Nulla fa sapere di ciò che sta
facendo, ma dice che ci sta ancora pensando; fa sempre finta di
essere appena arrivato, di aver fatto tardi, di non sentirsi bene.
A coloro che lo pregano di un prestito o fanno una colletta, dice
di non essere ricco (3), se vende (4) dice che non vende, se non
vende dice di vendere. Qualunque cosa abbia sentito, nega; qualunque
cosa abbia visto, dice che non lo ha visto, se ha fatto un'affermazione,
dice di non ricordarsene. Di certe cose ora dice che ci sta pensando,
di altre che non sa bene, di altre che è proprio una sorpresa.
di altre che quella era proprio la sua idea. Soprattutto egli
è specialista nell'usar frasi del genere «non ci credo»,
«non capisco proprio», «sono stupefatto»,
«sei tu a dire che la cosa è andata diversamente»,
«questo a me non lo ha proprio detto», «la cosa
mi sembra paradossale», «vallo a raccontare ad un altro»,
«proprio non mi è chiaro se non devo credere a te
o se devo far torto all'altro», «stai attento a non
dar fiducia troppo rapidamente!».
L'adulazione potrebbe definirsi un comportamento riprovevole che
giova all'adulatore. L'adulatore è una persona che trovandosi
in compagnia di un altro dice: «Hai notato come la gente
ti guarda? Questo nella nostra città non capita a nessuno
salvo te; ieri sotto i portici (1) ti hanno lodato». E continua
dicendo che più di trenta persone erano là sedute
ed era caduto il discorso su chi fosse il cittadino migliore;
e dal primo all'ultimo tutti avevano concordato su lui ed il suo
nome. Così dicendo gli toglie un filo dal mantello e se
per il vento gli finisce una pagliuzza fra i capelli, la toglie
via e dice sorridendo: «guarda, in due giorni che non ti
ho incontrato, hai la barba piena di peli bianchi, eppure per
la tua età hai ancora capelli neri come nessun altro»
. E quando Lui (2) inizia a parlare, l'adulatore subito impone
agli altri di tacere, poi lo loda quando sa di essere udito ed
esclama «giusto, verissimo», quando Lui finisce di parlare;
egli ride di una sua freddura e si preme il mantello sulla bocca
come se non riuscisse a frenare il riso. Quando incontrano dei
passanti li fa fermare finché Lui sia passato. Ai bambini
di Lui compra mele e pere, le porta con sé e le regala
loro quando Lui può vederlo, li bacia e poi esclama «Frugoletti,
che padre d'oro avete!» . Va con Lui a comperar le scarpe
e dice che egli ha un piede più elegante dei sandali. Se
Lui va in visita, l'adulatore corre avanti (3) e dice: «Ecco,
Lui viene da te» e poi torna indietro per dire «Ti ho
annunziato». Naturalmente si affanna anche per fare per lui
compere al mercato delle donne (4) [e gli fa la spesa e noleggia
flautiste (5)]. Quando sono a tavola è il primo a lodare
il vino e continua a ripetere «quanto è squisito da
te il vino» e prendendo qualche cibo dalla tavola esclama
«ma quant'è buono!». E poi gli domanda se sente
freddo, se non vuol coprirsi un po' di più e se per caso
non gli deve mettere indosso qualcosa. Così dicendo si
china verso di lui e gli mormora nell'orecchio e guarda verso
di Lui rapito, anche se sta parlando con altri. In teatro toglie
i cuscini di mano allo schiavo e li accomoda lui stesso sotto
al compagno. E poi dice che la Sua casa è una bellissima
costruzione, che i Suoi poderi sono come un giardino, che il Suo
ritratto è parlante.
1) Lo stoà di Atene, detto loggiato o portico del Pecile,
era famoso.
Il parlare a vanvera è l'espressione di discorsi lunghi
e sconclusionati e il chiacchierone è uno capace di andarsi
a sedere accanto ad uno sconosciuto e di cominciare a sciorinargli
il panegirico della propria moglie. Poi gli racconta ciò
che ha visto in sogno quella notte, poi passa in rassegna particolareggiata
ciò che ha mangiato a pranzo. E poi, avviandosi, comincia
a dire quanto siano peggiorati gli uomini moderni rispetto a quelli
di prima, quanto sia calato di prezzo l'orzo sul mercato, quanti
stranieri ci siano in città, e che il mare comincia ad
essere navigabile dopo le feste Dionisie (1). E che se Giove facesse
piovere un po' di più, sarebbe un gran bene per il raccolto.
E che l'anno dopo si prenderà un campicello, che la vita
è dura, che Damippo aveva portato la fiaccola più
grossa alla feste dei Misteri, e quante colonne ci sono all'Odeon
(2). E ancora «Ieri ho dovuto prendere l'emetico», «ma
oggi che giorno è?», e che la festa dei Misteri è
nel mese di Boedromione (settembre-ottobre), le Apaturie
nel mese di Pianepsione (ottobre-novembre), le Dionisie
campestri nel mese di Poseidone (dicembre- gennaio) (3).
E se uno gli rimane vicino, non lo molla più.
1) Le Dionisie urbane cadevano tra marzo ed aprile e riprendeva
la navigazione, molto ridotta d'inverno.
Il comportamento contadino è un'ignoranza incivile e il
contadinaccio è uno che prima si beve una dose di Kukeon
(1) e poi se ne va all'assemblea popolare. Egli sostiene che l'unguento
di mirra non odora meglio del timo. Porta scarpacce molto più
grandi del suo piede; quando parla, sbraita. Non si fida né
degli amici né dei familiari, ma poi confida ai servi le
cose più importanti; ai salariati che lavorano nei suoi
campi racconta tutti gli affari dell'assemblea popolare. Si mette
a sedere con il mantello rialzato fin sopra al ginocchio e mostra
le sue parti nude. Per strada non si ferma a guardare nulla e
non si stupisce di nulla, ma se vede un asino o un bue o un becco,
si ferma incantato a guardarli. Quando va in dispensa a prendere
qualcosa, la trangugia subito e ci beve sopra un bel po' di vino
puro. Con la macinatrice di cereali se la intende (2) e poi va
con lei a pestare il grano per sé e per tutta la famiglia.
Mentre fa colazione va a buttare il foraggio al bestiame (3).
Egli va da sé ad aprire la porta, chiama il cane, lo afferra
per il muso e dice «ecco chi fa la guardia al podere ed alla
casa» . Quando gli vengono restituite delle monete, le rifiuta,
dicendo che sono tosate (4), e se le fa cambiare subito con altre.
Se poi ha dato in prestito o l'aratro o un cesto o un sacco, va
a richiederli anche di notte, se, svegliatosi, gli sono tornati
in mente. Quando scende in città domanda al primo che incontra
quanto costano le pelli o il pesce salato, se oggi si festeggia
la luna nuova, e racconta subito che giù vuol farsi tagliare
i capelli e poi cantare nel bagno pubblico, e far rinchiodare
i sandali e, già che è per strada, comperar pesce
salato da Archia.
1) Era un beverone di vino, farina, miele, formaggio forte,
menta e cipolla usato come purgante e che appesantiva notevolmente
l'alito!
La smania di rendersi utili è, per definizione, una forma
di condotta rivolta a compiacere, ma non nell'interesse di chi
agisce. Il compiacente infatti è uno che saluta l'amico
da lontano, lo chiama «illustrissimo» e lo tratta con
ammirazione. Lo prende con entrambe le mani e non lo molla più,
lo accompagna per un tratto, gli chiede quando potrà andarlo
a trovare e si congeda con molti complimenti. Convocato a far
da arbitro, vuol essere gradito non solo a quello che lo ha nominato,
ma anche alla controparte, per apparire imparziale. Sostiene che
i forestieri giudicano in modo più giusto dei cittadini
(1). Quando è invitato ad un pranzo, vuole che l'ospite
chiami i suoi bambini e quando entrano dichiara che assomigliano
al padre come una goccia d'acqua (2), e alcuni li chiama a sé
e li copre di baci e gioca con loro a «otre e scure»
(3) e lascia che gli altri si addormentino sulla sua pancia, anche
se ciò, naturalmente, lo schiaccia. Va dal parrucchiere
in modo esagerato, ha sempre i denti bianchi, cambia spesso di
mantello, così da apparire sempre pulito, e si cosparge
di profumi. Al mercato si mette vicino ai banchi dei cambiavalute
[molto frequentati], nel ginnasio si mette dove si allenano i
ragazzi, in teatro, se vi è spettacolo, siede vicino agli
strateghi (4). Per sé non compera nulla, ma per i suoi
amici non risparmia: per quelli a Bisanzio olive, per quelli a
Cizico cani spartani, per quelli a Rodi miele dell'Imetto, e poi
lo racconta a tutta la città. Naturalmente è capace
di tenere in casa una scimmia o di comperarsi un uccello raro,
colombe siciliane, dadi di osso di gazzella, fiale ben tornite
per creme da Turio, bastoni ritorti da Sparta, un tappeto con
intessute figure persiane o di avere una piccola palestra con
la sabbia o uno sferisterio. Queste le lascia poi a disposizione
dei filosofi, dei sofisti, degli schermidori e dei musicanti per
le loro rappresentazioni e lui stesso arriva tardi, così
che uno spettatore possa dire a quello sedutogli vicino: «è
lui il proprietario della palestra».(5)
1) Testo poco chiaro; forse intendeva dire che dice ciò
ai forestieri.
La spudoratezza (1) è l'insistere in azioni e parole vergognose;
lo spudorato è quindi uno che giura come niente fosse,
è malfamato, tira accidenti ai potenti; per carattere è
un uomo da piazza, un esibizionista (2), uno capace di tutto.
Per lui è del tutto naturale ballare il cordace anche se
non ha bevuto e danzare senza maschera nei cori comici (3). Negli
spettacoli dei saltimbanchi va in giro a chiedere la moneta di
rame ad uno ad uno e poi litiga con quelli che [non] hanno il
biglietto (4) e vogliono guardare gratis. Fa il taverniere, il
ruffiano, il gabelliere e non rifiuta alcun traffico per quanto
riprovevole, ma anzi per lui è cosa naturale fare il banditore,
il cuciniere, il giocatore d'azzardo, lasciar morire di stenti
la madre, farsi acchiappare sul fatto come ladro, passar più
tempo in galera che a casa.
Fa parte della categoria di quelli che raccolgono attorno a sé
persone e le sobillano, sbraitando, lanciando improperi, discutendo,
e la gente un po' si accosta per sentirlo, un po' se ne va senza
dargli retta. Ma lui ad uno dice l'inizio del discorso, ad un
altro una mezza parola, ad un altro ancora un'altra parte della
questione e crede che tutta la sua arroganza spicchi solo se lo
circonda l'intero popolo della festa. È uno di quelli che
ora intenta un processo come attore, ora è citato come
convenuto, ora se la cava con una dichiarazione giurata, ora compare
con la capsula dei documenti in seno e un fascio di scritti in
mano. Non ha ritegno a dare incarichi a più gente da piazza
(5) e subito dopo di far loro prestiti, pretendendo per una dracma
tre oboli e mezzo al giorno (6); e dopo batte le osterie, i banchetti
del pesce fresco e del pesce salato e infila nelle guance le monete
raccolte come interessi.
1) Letteralmente "la mancanza di senno".
La loquacità, per chi volesse definirla, sarebbe una intemperanza
nel parlare; e il loquace è uno che attacca discorso con
tutti quelli che incontra (1) e se l'altro gli risponde qualche
cosa, gli dice che: «no, no, non è proprio così»,
e che lui invece sa bene come è andata e che se lo sta
a sentire, lo saprà anche lui. E mentre l'altro gli fa
un'obiezione, egli lo interrompe: «Che stavi dicendo? Non
ti dimenticare di ciò che volevi dire! - Bravo che me lo
fai ricordare! - Certe volte fa proprio bene a parlare assieme.
- Questo è proprio quello che volevo dire io. - Hai capito
subito qual è la questione. - È tanto che aspetto
per vedere se tu arrivi alle mie stesse conclusioni» e spara
altre simili frasi, senza lasciar tempo alla sua vittima di riprender
fiato. E dopo aver esaurito la gente alla spicciolata, è
capace anche di affrontare la gente che si trova in gruppi e li
mette in fuga nel bel mezzo dei loro affari. Egli va nelle scuole
e nelle palestre e impedisce ai ragazzi di imparare, tanto parla
con gli allenatori ed i maestri. Se uno dice che deve andar via,
egli lo accompagna e non lo molla fino a casa. Quando egli ha
udito qualcosa di ciò che è accaduto all'assemblea
popolare, la racconta a tutti e, per giunta, ci aggiunge anche
il racconto della battaglia oratoria al tempo dell'arconte Aristofonte
[o di quella degli spartani sotto Lisistrato (2)], e con quali
discorsi egli stesso ottenne un applauso dal popolo. E nel dire
ciò c'infila anche invettive contro la plebe così
che gli ascoltatori perdono il filo o si addormentano o se la
svignano. Quando siede tra i giudici ostacola la pronunzia della
decisione, agli spettacoli impedisce di vedere e sentire, quale
commensale non lascia mangiare; perché, egli dice, che
è duro per uno loquace di tacere, che la lingua si muove
da sola, che egli non riuscirebbe a tacere neppure se la gente
lo considerasse più garrulo di una rondine. Egli si fa
prendere in giro persino da suoi figli che quando non riescono
a prender sonno gli dicono «papà, chiacchiera ancora
un po', così che ci addormentiamo» .
1) Alcuni intendono "che interrompe chi apre la bocca
per parlare".
Il contar balle è il mettere assieme storie e fatti inventati
che il narratore vorrebbe far credere (1); il contaballe è
uno che imbattendosi in un amico subito dà la stura e con
aria compiaciuta chiede (2): «Da dove vieni? Che c'è di nuovo?
Che cosa ne dici? Sai qualche cosa di nuovo su quella questione?».
E poi scivola su altre domande: «Si racconta qualche novità?
Davvero che queste sono delle belle novità» e poi,
senza neppure attendere la risposta, dice: « Che cosa ne
dici? Ma non ha proprio sentito dir nulla? Credo che sono io a
poterti dire un bel po' di novità» . E ci ha subito
pronto un soldato o uno schiavo del flautista Asteo o l'appaltatore
militare Licone (3), giunti or ora con novità dal teatro
di guerra. E racconta ciò che egli avrebbe saputo da costoro.
I suoi discorsi sono tali [basati su simili testimonianze] che
nessuno potrebbe trovarvi qualcosa a ridire. Egli racconta che
Poliperconte e il re avrebbero vinto la battaglia e che Cassandro
sarebbe stato fatto prigioniero (4). Se però uno gli chiede:
«Ma tu ci credi proprio?», egli risponderà che
il fatto viene già strombazzato in tutta la città,
che ha già fatto il giro della città, che tutti
sono d'accordo nel raccontare la stessa cosa, e che ci si è
cacciati in un bel guaio. Lui se ne è accorto dalla faccia
dei responsabili, che si vede come sono tutti cambiati. Egli dice
anche di aver saputo in confidenza che qualcuno di loro nasconde
un uomo in casa, venuto dalla Macedonia già cinque giorni
fa e che sa tutto a puntino. Egli racconta tutti i particolari
e fa mostra di soffrire, così che gli si crede: «Povero
Cassandro, come sei perseguitato dalla sorte. Ti accorgi ora com'è
la ruota della fortuna? Invano sei stato potente!» Ed ancora:
«Mi raccomando, sei solo tu a saperlo!» e intanto lo
ha già raccontato a tutta la città.
1) Alcuni integrano il testo in altro modo e traducono "fatti
con cui il narratore vuole sminuire il buon nome di cui gode il
suo avversario."
Questa passione consiste, per definirla, nello spregio della propria
reputazione per desiderio di un vile guadagno. E l'arraffone è
così spudorato da andare a richiedere un prestito prima
di tutto a chi ha già fregato una volta [....]. Quando
sacrifica agli dei, va poi a mangiare in casa d'altri e la sua
carne la mette sotto sale. E porta con sé anche il suo
schiavo, gli serve la carne e il pane che prende dalla tavola
altrui e gli dice anche «Dai, Tibìo, [mangia] e che
buon pro ti faccia!» Quando va a comperare la carne ricorda
al macellaio di quella volta che gli fece un piacere. Si mette
vicino alla bilancia e dopo la pesata ci butta sopra ancora una
giunta di carne o almeno un osso per il brodo e se gli va bene,
meglio, altrimenti agguanta ancora un pezzo di trippa dal banco
e scappa sghignazzando. Per conto dei suoi ospiti (1) compra un
posto a teatro e poi va con loro a guardare, senza pagare la sua
parte e il giorno dopo ci porta anche i figli e il pedagogo. Se
qualcuno ha comprato a buon prezzo, pretende di entrare a far
parte dell'affare. Va poi in casa d'altri a prendere in prestito
ora orzo, ora paglia, e costringe costoro, se la rivogliono, ad
andarsela a riprendere a casa sua (2). È persino capace
nei bagni pubblici di andare alle tinozze di rame, di riempirsi
da solo una brocca, tra le grida di protesta del bagnaiolo, e
di rovesciarsela da solo addosso, dicendo che ormai ha fatto il
bagno. E quando se ne va gli dice ancora: «Che fai, offendi
anche? allora la mancia te la sogni! ».
1) Ovviamente con i loro soldi
La tirchieria è il risparmiare esageratamente in tutto
ciò che ha a che fare con gli averi . E il tirchio è
quegli che già a metà del mese si presenta già
alla casa del debitore per incassare un mezzo obolo [d'interessi].
In una tavolata [alla romana] conta quanti bicchieri ciascuno
ha bevuto e fra tutti gli ospiti è quello che fa l'offerta
più piccola a Diana. Se alcuno ha comperato per lui qualche
cosa a buon prezzo e gli dà il conto, egli sostiene che
è ancora troppo caro. Se uno schiavo gli rompe una vecchia
pentola o una scodella, gli riduce il vitto per rifarsi. Se sua
moglie dovesse perdere una monetina, è capace di mettere
sottosopra tutto l'arredo e di perquisire letti, casse e veli
(1). Se vende qualche cosa, mette un prezzo così alto che
l'acquirente ci ricava ben poco. È chiaro che non permetto
a nessuno di raccogliere fichi dal suo orto, di passare per i
suoi campi o di raccogliere una sola oliva o un solo dattero caduti
dai suo alberi. Ogni giorno va a controllare se le pietre di confine
sono ancora al loro posto. Dai debitori pretende gli interessi
per ogni ritardo e gli interessi sugli interessi. Quando gli tocca
di offrire il banchetto [del proprio demo], taglia la carne a
pezzettini già prima di servirla. Se va a comperare la
carne, torna a mani vuote. Alla moglie vieta di imprestare sale,
lucignolo, cumino, origano e neppure orzo né bende né
pasta per i sacrifici e le dice: «Anche queste piccolezze,
alla fine dell'anno fanno un bel po'» . [In somma, le casse
dei tirchi sono ammuffite, le chiavi arrugginite, essi portano
vestiti più corti delle gambe, si ungono con ampolline
piccolissime, si tagliano i capelli a raso, a mezzogiorno vanno
ancora scalzi e litigano con i lavandai perché usino molta
argilla e le macchie non tornino fuori] (2)
1) Alcuni correggono veli in fessure del pavimento.
Non è difficile definire la maleducazione che è
un modo di scherzare grossolano ed urtante. Il maleducato è
uno che per la strada incontrando una signora, alza il mantello
e lascia vedere le vergogne. In teatro applaude quando gli altri
ascoltano e fischia gli attori che gli altri gradiscono. E quando
in teatro vi è silenzio, si stira e rutta per far voltare
gli spettatori. Quando il mercato è pieno, si piazza vicino
ai banchetti delle noci, delle coccole di mirto o delle altre
frutta e spilucca, mentre ciarla con i venditori. E i presenti
li chiama per nome anche se non li conosce. Se vede qualcuno andare
di gran fretta, lo ferma. Se uno ha appena perduto un processo
importante ed esce dal tribunale, va da lui e si congratula. Compra
da mangiare solo per sé, noleggia una flautista e poi mostra
a chi incontra i suoi acquisti e li invita (1). Se va dal barbiere
o dal profumiere, racconta che si vuol ubriacare. [Se la madre
va da un indovino, le rivolge parole di malaugurio. Nelle preghiere
getta via il bicchiere per le libagioni e ride come se avesse
fatto una prodezza. Quando gli suonano il flauto è il solo
a battere le mani e accompagna canterellando e se la prende con
la flautista perché ha smesso presto. Vuol sputare oltre
la tavola e colpisce il coppiere.] (2)
1) Forse solo per scherno.
L'essere inopportuni consiste nel fare cose nel momento sbagliato,
così da risultare molesti per la gente e l'inopportuno
è uno che va a raccontare le cose sue a chi ha da fare.
Alla sua amata va a far la serenata quando essa ha la febbre.
Ad uno che è stato condannato a pagare la garanzia [fatta
per un altro], gli si rivolge e gli chiede di fare da garante
per lui. Dovendo fare da testimonio, compare quando la causa è
già decisa. Invitato a nozze, parla male del sesso femminile
(1). Uno che è appena arrivato da un lungo viaggio, lo
invita a fare una passeggiata. Arriva con un compratore disposto
a pagar di più, quanto la vendita è già conclusa.
Quando la gente [nell'assemblea] ha sentito e capito tutto, egli
si alza e comincia a spiegare tutto da capo. Volentieri si immischia
in faccende di altri che non vorrebbero, ma che per pudore non
possono zittirlo (2). A coloro che stanno sacrificando e quindi
hanno affrontato spese, va a chiedere gli interessi. Quando uno
schiavo viene frustato, interviene e racconta che un suo schiavo
una volta si era impiccato dopo essere stato picchiato in tal
modo. Quando partecipa a un collegio arbitrale attizza la lite
fra le due parti che già intendevano accordarsi. E quando
decide di ballare va ad acchiappare uno che non è ancora
brillo.
1) Al banchetto di nozze erano presenti, eccezionalmente e
ad un tavolo separato, le donne.
Certamente l'impicciarsi appare come una certa esagerazione nelle
parole e nelle azioni a fin di bene; l'impiccione è quindi
uno che si alza e promette ciò che non può mantenere.
Se tutti sono d'accordo che una cosa è giusta, solleva
obiezioni e viene contraddetto. Ordina allo schiavo di preparare
[nel cratere] più vino di quanto i suoi ospiti possano
bere. Va a dividere i litiganti che neppure conosce. Si offre
volontario per indicare una scorciatoia e poi non è capace
di trovar la strada. Si presenta al comandante e gli chiede quando
intende schierar le truppe per la battaglia e gli chiede quale
sarà la parola d'ordine per doman l'altro. Va dal padre
e gli dice che la madre già riposa in camera da letto.
Quando il medico ha vietato di dare vino all'ammalato, lui dice
che vuol provare a curarlo proprio con esso. Se muore una donna
[nella sua famiglia] egli scrive sulla lapide, oltre al suo nome,
il nome di suo marito, di suo padre, di sua madre, e di che paese
essa era e vi aggiunge anche che erano tutte persone rette (1).
E quando deve prestar giuramento egli dice ai presenti: «ho
già giurato tante volte in passato, io!»
1) Di solito si metteva solo il nome del marito e, ovviamente,
non si parlava dei vivi come se fossero già morti.
La sventatezza (1) è, secondo la definizione, una torpidezza
dell'animo nelle parole e nelle azioni e l'insensato è
quindi uno che fa i conti con le pietruzze, tira le somme e poi
chiede al vicino «Qual è il risultato?» . Sebbene
sia citato in un processo e intenda comparire, se ne dimentica
e va nei campi. Se va a teatro, rimane lì da solo addormentato.
Quando ha mangiato troppo e si alza di notte per andare al cesso,
si sbaglia e viene morsicato dal cane del vicino (2). Se ha ricevuto
un oggetto e lo ha riposto egli stesso, poi lo cerca e non riesce
a trovarlo. Quando gli si annunzia che un suo amico è morto
e che deve andare da lui, si commuove, piange e dice «tanti
auguri!». È capace di chiamare testimoni anche quando
è lui a ricevere denaro di cui è creditore. In inverno
brontola con lo schiavo perché non ha comperato i cetrioli.
I suoi figli li costringe a lottare fra di loro ed a correre e
li incita fino all'esaurimento. Quando in campagna cucina lui
stesso le lenticchie, mette due volte il sale nella pentola e
rende il piatto immangiabile. [Se Giove fa piovere, lui dice «Ma
che bello lo splendore delle stelle» . E se queste splendono
egli sostiene che la notte è più buia della pece,
anche se gli altri dicono il contrario (3)]. E quando uno dice
«Secondo te quanti cadaveri sono stati portati attraverso
la porta Erìa?», egli risponde «Tanti quanti
io e te mai potremmo desiderare» (4).
1) Il termine "anaistesias" usato da Teofrasto potrebbe
anche essere tradotto con insensatezza, stolidità, ecc.
La zoticheria è un comportamento sgarbato con le parole
e lo zotico è, per l'appunto, chi alla domanda «Dove
è questo o quello?», risponde «Non mi rompere
le scatole» . Interrogato (1) non risponde. Vendendo qualche
cosa egli non dice a che prezzo la offre, ma chiede «Che
cosa ricevo?». Ed a coloro che nei giorni di festa, per fargli
onore, gli mandano qualcosa in dono, dice: «Eh, non sarà
proprio un regalo!» (2). Se qualcuno per sbaglio lo imbratta
o lo urta o gli pesta un piede, non accetta scuse. Se una amico
gli chiede di contribuire ad una colletta, dice che non darà
nulla; poi va egli stesso a portare i soldi e dice: «Ecco
degli altri soldi perduti» . Se per la strada inciampa in
un sasso, lo maledice. Non è capace di attendere [gli altri]
un po' di tempo. Non ha mai voglia né di cantare né
di fare un discorso, né di ballare. E non ha l'abitudine
di pregare gli dei.
1) Si potrebbe intenderere anche "salutato".
La superstizione è chiaramente una paura di fronte alla divinità e il superstizioso è uno che, quando incontra un funerale, si lava le mani, si spruzza con l'acqua lustrale, infila una foglia di alloro in bocca e gira con quella per tutto il giorno. Se una donnola gli attraversa la strada, non va più avanti finché qualcun altro non gli si sia passato avanti oppure fino a che egli non ha gettato tre sassi lungo la traccia, oltre la strada. Quando vede in casa una serpe e si tratta di un serpente-guancia (1) invoca [Dioniso] Sabazio; se è una serpe sacra, allora innalza subito sul posto un piccolo altare. Quando passa vicino alle pietre unte che sono nei crocicchi, ci versa sopra un po' d'olio da una fiaschetta, cade in ginocchio, bacia la pietra e solo dopo di ciò passa oltre. Se un topo ha rosicchiato il sacco [di cuoio] della farina, va dall'indovino e gli chiede che cosa deve fare e se questo gli risponde di far rappezzare il sacco dal sellaio, non gli basta, ma torna a casa a fare un sacrificio [propiziatorio]. È solito purificare spesso la casa perché, dice, vi è stato un sortilegio di Ecate (2) . Se quando egli passa, le civette si agitano e schiamazzano, dice «Atena trionfi» e solo dopo va avanti. Non ha il coraggio di avvicinarsi né ad una tomba né ad un cadavere né ad una puerpera, ma sostiene che egli preferisce non contaminarsi. Il quarto e il settimo giorno del mese (3) ordina ai suoi di bollire vino e lui stesso esce a comperare coccole di mirto, incenso, focaccette sacre e poi entra in casa e inghirlanda le teste di Ermes; per tutto il resto del giorno è fuori di sé. Se per caso ha sognato, corre dall'interprete, l'indovino, l'aruspice, per chieder loro quale dio o quale dea debba pregare. Ogni mese va con sua moglie dagli Orfeotelesti (4) per farsi iniziare e se la moglie non ha tempo, porta la balia e i bambini. E si direbbe essere uno di quelli che si purificano diligentemente spruzzandosi con l'acqua del mare. Quando, come capita, ad un crocevia vede uno di quelli con le corone d'aglio (5), corre a casa, si lava da capo a piedi, chiama una sacerdotessa, e si fa purificare con la scilla o con un cagnolino (6). Quando vede un pazzo o un epilettico, rabbrividisce dalla paura e si sputa nelle pieghe della veste.
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L'incontentabilità è un trovar da ridire contro
convenienza e ragione sulle cose che ci vengono date e l'incontentabile
è uno che all'amico il quale gli manda una porzione del
suo pranzo, dice al portatore: « È per negarmi invidiosamente
un cucchiaio di zuppaccia e delle gocce di vinello che hai evitato
di invitarmi a pranzo?». Quando la sua amica lo bacia egli
dice: «Vorrei proprio sapere se tu mi ami anche con tutto
il cuore» . Se la piglia con Giove non perché piove,
ma perché ha fatto piovere troppo tardi. Se trova per la
strada una borsa con denaro dice: «A me non capita mai di
trovare un tesoro!» . Dopo aver contrattato a lungo con il
venditore riesce a comperare a buon prezzo uno schiavo, ma dice:
«Vorrei proprio sapere se c'è qualcosa di buono in
una cosa comperata così a buon prezzo!» . E a quello
che gli reca la notizia che gli è nato un figlio, egli
dice: «E aggiungi anche: la metà del tuo patrimonio
se ne va; ché questa è la verità» .
Se ha vinto un processo con i voti unanimi, rimprovera all'avvocato
di aver trascurato molti argomenti giusti. Quando gli amici gli
portano la somma raccolta per un prestito e gli dicono «Sta'
allegro» lui risponde «E come? Io che devo pur restituire
il denaro a tutti e per giunta ringraziare come se mi fosse stata
fatto un beneficio?».
La diffidenza è un sospetto di disonestà verso tutti
e il diffidente è uno che manda uno schiavo a comperar
provviste e un altro schiavo dietro, per scoprire quanto le ha
pagate. Egli porta da sé il danaro (1) e a ogni stadio
(2) si mette a sedere e conta per vedere quant'è. Alla
moglie, quando sono già a letto, chiede se ha chiuso lo
scrigno dei soldi, se la cassa del vasellame era stata chiusa
e se è stato messo il catenaccio alla porta del cortile;
ed anche se lei lo conferma, egli si alza tutto nudo dal letto
e scalzo, con una lanterna in mano, corre tutt'in giro e controlla
tutto, tanto che riesce appena a dormire. Dai suoi debitori va
ad incassare gli interessi con testimoni, così che essi
non possano negarglieli (3). Il suo mantello non lo dà al miglior
cardatore, ma a quello che ha un buon garante. Quando uno va a
chiedergli in prestito delle coppe, se può rifiuta, se
si tratta di un parente o di un amico, gliele presta solo dopo
aver fatto la prova del fuoco (4), averle pesate e quasi aver
ottenuto per esse un garante. Lo schiavo che lo accompagna non
lo fa camminare dietro, ma sempre davanti a lui per evitare che
se la svigni per strada. Se qualcuno ha comperato da lui una cosa
e chiede: «Quanto fa? Segnalo nel libro che ora non ho tempo»,
riceve come risposta: «Non prenderti la noia di mandarmi
il denaro; ti accompagno io finché tu abbia trovato il
tempo» .
1) Di solito esso veniva affidato allo schiavo.
La sozzeria è una trascuratezza del corpo che provoca
disgusto e il disgustoso è colui che va in giro con la
lebbra, con croste e con unghie deformi e sostiene che queste
malattie sono congenite, ché infatti le avevano sua padre
e suo nonno, e che non è facile sottrarsi alla propria
razza. Come prevedibile è solito avere piaghe agli stinchi
e bolle alle dita, che non cura, ma lascia prosperare. Sotto le
ascelle e fino alle anche è peloso come un animale e i
suoi denti sono neri e guasti, così da essere sgradevole
e insopportabile. Ed ancora: mentre mangia si smoccola con le
dita (1), mentre sacrifica si gratta (2), quando parla sputacchia
dalla bocca, dopo aver bevuto rutta. Con sua moglie va a letto
in lenzuola sporche (3). Nel bagno usa olio rancido [e poi gioca
con gli altri (4)]; al mercato va con una spessa tunica sotto
e con sopra un mantello trasparente pieno di macchie.
1) Tutti usavano le dita, ma non a tavola!
La mancanza di tatto è, per definizione, un comportamento
che provoca molestia ma senza danno; il molesto è quindi
quegli che va da uno che si è appena addormentato e lo
sveglia per fare quattro chiacchiere. Uno sta per partire [per
mare] e lui lo trattiene. Uno va a fargli visita e lui lo prega
di attendere finché ha finito di fare un giretto. Toglie
il bambino dal collo della balia, mastica del cibo e glielo mette
in bocca lui stesso (1), gli fa versi con la bocca, lo vezzeggia
con nomignoli e lo chiama «bricconcello del papà»
. Mentre si sta mangiando racconta di aver bevuto l'elleboro e
di essersi vuotato di sopra e di sotto e che la bile nelle sue
feci era più nera della broda che è sulla tavola
. Ed alla presenza dei servi chiede: «Di' mamma, che giorno
era quando ti presero le doglie e mi facesti?». Di se stesso
egli afferma di essere un uomo piacevole ed uomo spiacevole, e
che è difficile trovare un uomo che abbia entrambe queste
qualità (2). [Invitato] comincia a dire che a casa sua
ha una cisterna piena d'acqua freschissima e nel giardino molti
ortaggi tenerissimi e un cuoco senza pari nel cucinare; e che
la sua casa è come un albergo e cioè sempre piena
di gente e i suoi amici come la botte senza fondo [delle Danaidi]
perché per quanto egli si dia da fare, non riesce a riempirla.
Quando ha degli invitati a casa sua, vanta quale bell'esemplare
sia il suo buffone (3). E invitando i suoi ospiti a bere dice
che ha preparato tutto per farli divertire e che, so lo desiderano,
lo schiavo andrà a prendere «una di quelle» dal
ruffiano «perché ci suoni qualcosa e ci faccia godere
tutti» .
1) Gesto usuale per la madre o la balia ma non per estranei.
La vanità è lo sforzarsi per ottenere un tipo di
onore indegno di un uomo libero e il vanitoso è colui che,
invitato al banchetto, fa di tutto per essere seduto di fianco
al padrone di casa. Manda il figlio fino a Delfi per il taglio
dei capelli (1) e ci tiene a che lo accompagni uno schiavo negro.
Se deve restituire una mina, si procura monete nuove di zecca.
È capace di comperare per la sua gazza addomesticata una
scaletta e di far fare uno scudetto di bronzo così che
la gazza possa salire la scaletta con quello nel becco. Quando
sacrifica un bue, appende la pelle della testa con le corna davanti
alla porta e la fascia con grandi bende, in modo che tutti vedano
che egli ha sacrificato un bue. Dopo la parata con i cavalieri,
manda il servo a casa con tutti gli arnesi (2), ma lui, messo
il mantello va a passeggiare su e giù per la piazza, con
ancora gli speroni ai piedi. Se gli è morto il cagnolino
maltese, gli fa costruire una tomba con una colonna e la scritta
«Klados (3) di Malta» . Se ha dedicato un dito di bronzo
nel tempio di Esculapio, va a lucidarlo ogni giorno e lo unge
e lo circonda di corone. Naturalmente briga ed intriga coi suoi
colleghi della pritanìa per essere quello che comunica
al popolo l'esito del sacrificio e poi, rivestito di uno splendido
mantello e con la corona in capo, si fa avanti e annunzia: «Cittadini
ateniesi, noi Pritani abbiano eseguito il sacrificio alla madre
degli dei; il sacrificio è stato degno e favorevole e voi
ne riceverete i benefici» . Così parla e poi va a
casa e racconta alla moglie che quello per lui è stato
un giorno estremamente propizio.
1) Con il taglio dei capelli, una cui ciocca veniva dedicata
a un dio, l'efebo diventava uomo; ma non c'era bisogno di andare
fino a Delfi.
La taccagneria è la mancanza di dignità pur di non
spendere e il taccagno è quello che dopo aver vinto il
premio come corégo, consacra a Dioniso solo una tavoletta
di legno con sopra scritto solo il nome del dio (1). Quando [nell'assemblea]
si propone che il popolo paghi soprattasse volontarie, egli si
alza e se ne va alla chetichella. Quando dà in matrimonio
la figlia, rivende tutta la carne de sacrificio, salvo quella
che deve dare ai sacerdoti, e i servi per il pranzo di nozze li
prende a nolo, vitto a loro carico. Come trierarca (2) stende
sulla tolda le coperte del pilota e le sue le tiene riposte. Per
la festa delle Muse non manda i figli a scuola, ma dice che sono
ammalati, così che non debbano pagare alcun contributo.
Quando ha dato il mantello a lavare, rimane a casa (3). Dal mercato
porta a casa la carne egli stesso e la verdura la infila in un
risvolto del mantello. Un amico sta facendo una colletta e gliene
ha parlato prima: quando lo vede arrivare, gira l'angolo e va
a casa facendo una lunga deviazione. Alla moglie, che pur gli
ha portato la dote, non compera una schiava, ma le noleggia al
mercato delle donne una schiava che l'accompagni solo nelle sue
uscite importanti. Lui porta scarpe rattoppate più volte
e dice che sono solide come il corno. Quando si alza da letto
scopa lui stesso la casa e toglie le cimici dai letti. Quando
si deve sedere, si toglie il mantello e lo rivolta e non ha nulla
salvo quello (4).
1) Il corego organizzava a sue spese il coro della tragedia;
quando era premiato per l'organizzazione, si usava che dedicasse
a Dioniso una lapide di marmo con i nomi del poeta, il titolo
della tragedia, il proprio nome.
La millanteria ci appare essere come l'attribuirsi qualità
che non esistono e il millantatore è colui che stando sul
molo [del Pireo] racconta ai forestieri quanto danaro ha per mare.
Ed egli descrive con precisione l'importanza dei prestiti marittimi
e di quanto ci ha guadagnato e perso. E mentre si riempie così
la bocca, manda lo schiavo alla banca dove non ha che una dracma.
Abbindola un compagno di viaggio raccontandogli di aver fatto
una campagna con Alessandro e in che relazione era con questi
e di quante coppe tempestate di pietre preziose ha riportato a
casa. E sostiene che gli artisti dell'Asia sono migliori di quelli
in Europa; eppure non si è mai mosso dalla città
[di Atene]. Racconta come egli abbia già ricevuto tre lettere
da Antipatro in cui vi è scritto che lo invitano ad andare
in Macedonia. E dice che sebbene gli abbiano offerto di esportare
senza dazi il legname, lui ha rifiutato per non essere denunziato
[con calunnie] da qualcuno: «I macedoni avrebbero dovuto
avere un'idea più intelligente! » (1). Racconta che
durante la carestia ha distribuito più di cinque talenti
(2) per i poveri tra i suoi concittadini «perché lui
non poteva dire di no» . Quando siede fra estranei, vuole
che uno di essi faccia i conti [con le pietruzze], fa le somme
accuratamente di unità e migliaia (3), indica ad ogni voce
dei nomi verosimili [di persone che hanno ricevuto danaro da lui],
ed è capace di arrivare fino a dieci talenti. E dice che
questa somma l'ha spesa per collette, senza tener conto delle
trierarchie e delle liturgie (4). Quando va al mercato tratta
per finta con i venditori, come se volesse comperare soli cavalli
migliori. Dai venditori di stoffe cerca vesti per due talenti
e strapazza il servo perché lo segue senza monete d'oro
(5). Sebbene egli abiti in affitto, a quelli che non lo sanno,
racconta di aver ereditato la casa dal padre e che la vuol vendere
perché è troppo piccola per ricevere tutti i suoi
ospiti.
1) Una lezione più coerente porta a tradurre :"così
che nessun delatore possa dire che lui simpatizza per i macedoni
più di quanto si convenga ad un ateniese". In quegli
anni il governo di Atene parteggiava per i Macedoni.
La superbia è un disprezzo di tutti salvo che di se stessi;
e il superbo è quello che ad uno che ha una cosa urgente
[di cui parlargli]gli dice che potrà incontrarlo dopo pranzo,
quando passeggia. Se ha fatto un piacere a qualcuno, gli dice
che non se ne deve dimenticare (1). Le decisioni arbitrali che
gli sono state affidate egli le decide per strada. Se viene eletto
ad una carica, rifiuta e giura [solennemente] di non aver tempo
(2). Mai vuol essere il primo a far visita ad altri. Invece i
fornitori e noleggiatori li fa venire a sé all'alba. Per
strada non parla con nessuno di coloro che incontra, ma se ne
va con il capo chino o, al contrario, secondo l'umore, va a capo
alto. Quando invita gli amici non mangia con loro, ma incarica
uno dei suoi di occuparsi di ciò. Se parte per un viaggio,
manda avanti qualcuno ad annunziare che egli arriva. Né
quando si unge, né quando fa il bagno, né quando
mangia, lascia entrare visitatori da lui. Se deve fare dei conti
con qualcuno incarica lo schiavo di mettere i sassolini, di tirare
le somme e di scriverle nel libro dei conti. Quando scrive per
un incombenza non scrive mica «mi potresti fare il piacere»,
ma «voglio che sia fatto così» e «ho mandato
da te a prendere» e ancora « sia fatto così che
non può essere altrimenti», «con urgenza»
.
1) Frase molto incerta; alcuni leggono «dice che non se
ne ricorda», altri che «dimentica i benefici ricevuti»
.
La viltà è una debolezza dell'animo dovuta a paura
e il vile è quello che viaggiando per mare scambia gli
scogli per navi di pirati. Appena si alzano un po' le onde comincia
a chiedere se fra i passeggeri non ci sia qualcuno impuro (1).
Poi va dal pilota e vuol sapere se tiene la rotta bene in mezzo
(2) e come gli sembra che si metterà il tempo. Al suo vicino
dice di essere in ansia per via di un sogno che ha fatto; poi
si toglie la tunica (3) e la dà allo schiavo e poi supplica
di essere scaricato a terra. Sul campo di battaglia quando la
fanteria deve attaccare, chiama tutti vicino a sé e comanda
che tutti si schierino attorno a lui e dice che è così
difficile riconoscere quali siano i nemici. Se ode clamori e vede
qualcuno cadere, dice a chi gli è attorno che per la smania
[di combattere] ha dimenticato la spada, corre alla tenda, manda
fuori lo schiavo con l'ordine di vedere dove sia il nemico, nasconde
la spada sotto il capezzale e perde un sacco di tempo facendo
finta di cercarla. Se dalla sua tenda vede portare un compagno
ferito, corre da lui, gli fa coraggio e lo trasporta lui stesso.
Poi lo cura, gli lava le ferite, si siede accanto a lui, scaccia
le mosche e fa qualsiasi altra cosa piuttosto che combattere contro
i nemici. Quando la tromba dà il segnale d'attacco, egli
rimane seduto nella tenda e dice «alla malora (4), costui
non lascia dormire il poveretto con tutto il suo strombettare»
. Macchiato del sangue delle ferite altrui, va incontro a quelli
che tornano dalla battaglia e racconta come da un grande pericolo
«io ho salvato uno dei nostri amici!» e fa entrare nella
tenda dal ferito i compagni di paese e di tribù e ad ognuno
racconta come sia stato lui stesso a portarlo con le sua mani
nella tenda.
1) E quindi portatore di sventure o menagramo.
L'oligarchia appare essere una bramosia per il comando, fortemente
orientata verso il potere e il vantaggio personale e l'oligarchico
è quindi uno che quando il popolo [in assemblea] discute
quali persone nominare come assistenti all'arconte per organizzare
assieme a lui una delle feste solenni, interviene e dice che essi
dovrebbero avere pieni poteri e quando gli altri propongono di
nominarne dieci egli dice: «uno basta, ma deve essere un
uomo con le palle» . E di tutti i versi di Omero ne ha ritenuto
uno solo: «Pazzo è de' molti il regno, un solo comandi»
. Altri non ne sa. E inoltre ha sempre in bocca discorsi reazionari
del genere: « Noi dobbiamo trovarci assieme [riservatamente]
e deliberare su queste cose e tenerci lontani dalla folla e dalla
piazza e non dobbiamo più candidarci per incarichi pubblici
e consentire poi che costoro ci biasimino o ci lodino» e
«Nella città c'è posto solo per noi o per loro»
. Verso mezzogiorno [quando il mercato è finito] esce di
casa con il mantello ben accomodato, con i capelli tagliati di
mezza misura e le unghie ben rifilate, incede nella strada dell'Odeon
e dice: «A causa dei sicofanti (1) non si può più
vivere in questa città» e « Nei tribunali siamo
trattati male da una massa di corrotti» e «Io mi meraviglio
di cosa cerchino coloro che hanno ancora voglia di immischiarsi
nella politica (2)» e «Ingrata è l'opera di chi
cerca di distribuire elargizioni in modo giusto (3)» . E
si vergogna quando all'assemblea si va a sedere vicino a lui un
morto di fame, tutto sudicio. E dice: «Quand'è che
finiremo di rovinarci con liturgie e allestimenti di navi?»,
«Maledetta la genìa dei demagoghi» . Egli sostiene
che è stato Teseo a portare per primo la sventura sulla
città quando aveva riunito in una sola le masse di dodici
città e eliminato il potere regio. E che ben gli stette,
se per primo fu eliminato da costoro. E questo e di peggio dice
ai forestieri ed a quei cittadini che la pensano come lui.
1) Accusatori di professione, per passione politica o per ricatto.
Il voler far da vecchio ciò che non si è fatto da
giovani è una passione per affaticarsi in cose che non
si confanno più all'età, come ad esempio chi all'età
di sessant'anni impara brani [di tragedie] e poi quando vuol recitarle
nei simposi, si impapera. Da suo figlio impara a fare «a
destra, a sinistra, dietrofront!»(1). Per la festa degli
eroi paga la sua quota per poter partecipare con i giovani alla
gara di staffetta con le fiaccole. Se da qualche parte viene invitato
nel tempio di Eracle, subito butta via il mantello e solleva il
bue per poi rovesciargli indietro il collo [per il sacrificio].
Va nelle palestre di lotta e si esercita un po'. Va agli spettacoli
di varietà [al mercato] e ci resta per tre o quattro rappresentazioni
ad imparare a memorie le canzonette. Se viene iniziato al culto
Sabazio, fa di tutto per apparire come il più bello davanti
al sacerdote (2). Se è innamorato di una ragazza cerca
di sfondarle la porta di casa con l'ariete, viene preso a botte
da un rivale e finisce davanti al giudice. In campagna si mette
a cavalcare un cavallo altrui, cerca di fare delle evoluzioni,
cade a terra e si rompe la testa. Nel circolo dei decadisti (3)
organizza feste per far baldoria assieme. Con il suo servo gioca
a «grande statua» (4). Fa a gara con il pedagogo dei
suoi figli nel tirare con l'arco e nei lanci e contemporaneamente
gli dice che egli deve imparare da lui, come se l'altro non ne
capisse nulla. Quando ai bagni pubblici si mette a lottare, dimena
le natiche [come un professionista] per sembrare un esperto. E
quando vi sono delle donne (5) si esercita a ballare e si fischietta
la musica da solo.
1) In greco i comandi erano «lancia», «scudo»,
«coda»; per dire «avanti» si diceva «fronte»
La maldicenza è un'inclinazione dell'animo a parlar male
e il maldicente è uno che alla domanda «Il tale che
tipo è?» risponde come fanno gli scrittori di genealogie
con un lungo catalogo: «Prima di tutto voglio rifarmi alla
sua origine. Suo padre originariamente si chiamava Sosia; fra
i soldati divenne Sosistrato e dopo essere stato iscritto nelle
liste dei cittadini diventò Sosidemo (1); la madre però
è una nobile donna di Tracia o, almeno, la brava donna
si chiama Crinocoraca (2). E se uno si chiama così, nel
loro paese vuol dire che uno è nobile, almeno così
si dice. Il tale stesso, come ci si può aspettare da una
simile razza, è un fannullone farabutto». E nella
sua malignità dice ad un altro: «Io me ne intendo,
a me non la puoi dare a bere». E poi passa a far la rassegna:
«Donne di questi tipo strappano in casa i passanti dalla
strada» e «Questa casa è una di quella dove si
allargano le cosce; e questa non è una battuta, come suol
dirsi, ma quelle lo fanno come i cani per la strada» e «Insomma,
poche parole, sono trappole per uomini» e «Quelle fanno
entrare di persona stando sulla porta del cortile» . Se anche
altri già sparlano, egli interviene e rincara la dose e
dice: «Io odio quell'uomo più di ogni altro. Già
al solo vederlo è ripugnante. La sua cattiveria gli fa
ricercare i suoi simili. La prova: a sua moglie, che pur gli ha
portato alcuni talenti in dote, ha assegnato tre miseri soldi
di rame per la spesa solo dopo che gli ha partorito un figlio
(3) e nel giorno di Poseidone la costringe a fare il bagno con
l'acqua fredda (4)» . Quando siede in compagnia di altri,
se uno si alza e se ne va, comincia subito a parlare di lui e,
quando ha preso l'avvio, non si trattiene più e si mette
a diffamare anche i suoi parenti. E di solito parla male anche
dei propri parenti, degli amici, dei morti; il diffamare lo chiama
libertà di parola, democrazia, libertà e questo
è per lui una delle cose piacevoli della vita.
1) Sosia era tipico nome di schiavo e poteva essere arrivato
a fare il soldato e poi ad iscriversi tra i cittadini solo con
maneggi poco chiari.
La furfanteria è un desiderio di cose malvagie e il furfante
è uno che frequenta gente che è stata riconosciuta
colpevole e condannata in pubblici processi (1) ed egli crede
di diventare più esperto e più temuto se sta con
loro. Dei galantuomini dice che nessuno nasce per natura buono,
che tutti sono eguali, ma se uno è buono gliene fa una
colpa. Un farabutto lo definisce una persona libera e indipendente,
solo che lo si volesse mettere alla prova, e ammette che in generale
quello che si dice su quel tale è la verità, ma
che su certi punti egli deve contraddire (2); perché, dice
lui, quello ha delle buone doti, è un compagno fidato e
furbo. E garantisce per lui: non ha mai incontrato una persona
più in gamba. Egli prende le parti del colpevole (3) quando
parla nell'assemblea popolare o nel tribunale e agli altri che
siedono assieme a lui dice che non bisogna giudicare l'uomo ma
solo i fatti. E dice che quello è il fedele cane da guardia
del popolo perché tiene d'occhio gli ingiusti. E dice:
«Presto non avremo più persone disposte a prendersi
cura del bene pubblico, se eliminiamo questo qui» . Naturalmente
fa il protettore di mascalzoni e, nei tribunali, il difensore
(4) in processi indegni e, se gli capita di essere lui stesso
giudice, rivolta le parole dei contendenti verso il senso peggiore.
1) L'autore descrive il furfante politico. Da quanto detto
più avanti si comprende che i suoi amici sono i sicofanti
che non erano riusciti a provare le loro accuse ed erano stati
condannati.
L'avarizia [di cui parliamo] è il darsi da fare per ottenere
guadagni svergognati e questo tipo d'avaro è quello che
non mette abbastanza pane davanti ai suoi ospiti e che è
capace di prendere danaro in prestito dall'amico che ospita in
casa. Quando fa le porzioni [della carne del sacrificio] dice
che è giusto che chi fa le parti riceva una doppia porzione
e subito se la fa per sé. Se vende vino ad un amico lo
annacqua anche a lui. A teatro porta i propri figli solo quando
i custodi lasciano entrare gratis. Se viaggia per una ambasceria
pubblica, lascia a casa il danaro avuto dalla città (1)
e si fa prestar soldi dai compagni d'ambasceria. Al suo servo
poi carica sulle spalle un peso più grosso di quanto può
portare e, tra tutti , è quello che gli dà meno
da mangiare. Dei regali fatta all'ambasceria pretende la sua parte
e poi la rivende. Nei bagni si unge e dice allo schiavo «quest'olio
che hai comperato è rancido» e si unge con l'olio
degli altri. Delle monete di rame che il suo servo trova, ne pretende
la metà «perché Hermes è comune»
. Egli dà il mantello a lavare, ne prende in prestito uno
da un conoscente e lascia trascorrere più giorni del necessario
[senza restituirlo], finché non glielo richiedono. Ed ancora:
quando deve misurare le granaglie alla famiglia, egli usa ancora
uno staio fidonico (2), per di più con il fondo infossato,
e poi lo rasa ben bene. Egli vende sottoprezzo le cose di un amico
che invece pensa di vender bene (3). Se deve restituire un debito
di trenta mine, trattiene [come sconto] quattro dracme. Se i suoi
figli, per malattia, non hanno potuto andare a scuola per tutto
il mese, detrae l'importo corrispondente dalla mesata [del maestro].
Nel mese di Antisterione (febbraio) non li manda neppure
a scuola perché ci sono troppi giorni festivi e così
risparmia soldi. Quando lo schiavo gli porta i soldi per il suo
noleggio, egli pretende persino la percentuale per il cambio delle
monete di rame [in argento] e il contrario fa quando egli deve
pagare il conto all'amministratore. Quando offre un banchetto
alla sua fratrìa, pretende che i suoi schiavi vengano nutriti
dalla cassa comune. Poi prende nota dei mezzi ravanelli rimasti
sulla tavola così che non se li mangino i servitori. Quando
fa un viaggio con conoscenti, si serve dei loro schiavi e i propri
li noleggia fuori, ma non mette il danaro nella cassa comune.
Nelle cene in comune organizzate a casa sua, mette in conto agli
altri anche il legno, le lenticchie, l'aceto, il sale e l'olio
[delle lampade]. Quando uno dei suoi amici si sposa o dà
in nozze la figlia, parte in viaggio qualche tempo prima per non
dover mandare un regalo. Dai suoi conoscenti prende in prestito
cose che non si possono richiedere né riottenere.
1) Erano tre dracme e quindi circa diecimila lire al giorno.
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