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Robespierre
Discorso contro la pena di morte
Questo testo è un bellissimo
esempio di umorismo involontario che, di fronte al Terrore che
Robespierre scatenerà poco dopo, assurge ai vertici del tragicomico.
Credo che non ci sia migliore argomento di questo discorso per
dimostrare la stupidità di certe posizioni ideali, tutte fatte di
belle, ma vuote parole, di concetti astratti privi di ogni contenuto,
di fantasticherie filosofiche di buoni a nulla, convinti di poter
spiegare e dirigere il mondo solo perché parlano. Poi la realtà, molto
dura e molto cruda, prevale e ci costringe a constatare che i problemi
non si risolvono con le chiacchiere, che il male si vince solo col
male, che il buonismo serve solo a far prevalere i prepotenti e gli
sfruttatori.
Robespierre fa il paio con Cesare Beccaria, a cui di certo si è
ispirato, il quale (come racconta il Foscolo nella lettera 7-5-1887
alla Albrizzi, sulla base di quanto dettogli dalla sorella, dal
fratello e dalla figlia dello stesso Beccaria, e come riferisce anche
Byron) dopo aver scritto cose altamente ideali sulla pena di morte,
quando sospettò un servo di avergli rubato un orologio, pretendeva che
gli venissero dati "i tratti di corda" per farlo confessare.
Cose del tutto normali quando il filosofo ispiratore è quel gran
farabutto che fu Rousseau.
Che le grandi professioni di ideali di taluni siano solo un tentativo
di mascherare la propria ignominia interiore dietro belle parole e
buoni propositi, utili per adescare o confondere sciocchi?
Nella discussione sul Codice
penale, l'Assemblea Costituente si era fermata a una domanda della
filosofia e del diritto: la pena di morte doveva essere conservata o
abolita?
Lepelletier di Saint-Fargeau aveva presentato un rappor-to nel quale si
dichiarava partigiano dell'abolizione della pena di morte; nondimeno
però egli la manteneva in un solo caso: contro un capo di partito
dichiarato ribelle da un decreto del Corpo Legislativo.
Lepelletier di Saint-Fargeau aggiungeva: "Questo cittadino deve cessare
di vivere, non tanto per espiare il suo delitto, quanto per la
sicurezza dello Stato. "
Robespierre, il 30 maggio 1791 parlò su questo fatto nella seduta del
30 maggio 1791. E fu per chiedere la soppressione assoluta della pena
di morte.
Non fu che nella seduta di mercoledì 10 giugno che l'Assemblea si
pronunciò. Si decise, e quasi all'unanimità, di non abrogare la pena di
morte.
Nota: Questo testo è stato pubblicato nella "Raccolta di Breviari
Intellettuali
" dell'UTET, nella traduzione di Alberto Blanche.
Essendo stata portata ad Atene la
notizia che nella città di Argo erano stati condannati a morte alcuni
cittadini, il popolo si recò nei templi per scongiurare gli dei onde
distogliessero gli Ateniesi da pensieri così crudeli e così funesti.
Io vengo a pregare non gli dei, ma i legislatori, che debbono, essere
gli organi
e gli interpreti delle leggi eterne che la Divinità ha dettate agli
uomini, di cancellare dal Codice dei Francesi le leggi di sangue che
comandano i delitti giuridici, e che vanno contro le loro nuove
abitudini e la loro nuova costituzione. Io voglio provàr loro: 1° che
la pena di morte è essenzialmente ingiusta; 2° che essa non è la più
reprimente delle pene, e, più che impedire i delitti li moltiplica.
Fuori della società civile, se un nemico accanito viene ad attentare ai
miei giorni, e, respinto venti volte, ritorna a distruggere il campo
che le mie mani hanno coltivato, poiché io non posso che opporre le mie
forze individuali alle sue, bisogna che io perisca o che uccida, e la
legge della difesa naturale mi giustifica e mi approva. Ma nella
società, quando la forza generale è armata contro un solo individuo,
qual principio di giustizia può autorizzare a dar la morte? Quale
necessità può assolverla? Un vincitore che fa morire i suoi nemici,
presi prigionieri è chiamato barbaro! Un uomo che fa sgozzare un
bambino, ch'egli può disarmare e punire, parrebbe un mostro! Un
accusato che la società condanna non è per essa che un nemico vinto ed
impotente; le è dinanzi un uomo adulto, ma più debole di un fanciullo.
Così agli occhi della verità e della giustizia, queste scene di morte
che essa ordina con tanto d'apparecchio, non sono altro che vili
assassinii, che dei delitti solenni, commessi, non dagli individui, ma
dalle nazioni intiere, con delle forme legali. Per quanto crudeli, per
quanto stravaganti sieno queste leggi, non meravigliatevi più. Sono
l'opera di qualche tiranno; sono le catene che opprimono la specie
umana; sono le armi con le quali la soggiogano; esse furono scritte col
sangue. "Non è, affatto permesso dare la morte a un cittadino romano. "
Tale era la legge che il popolo aveva sostenuto: ma Silla vinse e
disse: Tutti coloro che si sono armati contro di me sono degni di
morte. Ottavio ed i compagni suoi di delitti confermarono questa legge.
Sotto Tiberio, aver lodato Bruto fu un delitto degno di morte. Caligola
condannò a morte coloro che erano tanto sacrileghi da svestirsi dinanzi
all'immagine dell'Imperatore. Quando la tirannia ebbe inventato i
delitti di lesa maestà, che erano o delle azioni indifferenti o degli
atti eroici, chi avrebbe osato pensare che potevano meritare una pena
più dolce della morte, a meno di render sé stesso colpevole di lesa
maestà?
Il fanatismo, nato dall'unione mostruosa dell'ignoranza col despotismo,
allorché inventò a sua volta i delitti di lesa maestà divina, quando
concepì nel suo delirio di vendicare Iddio, volle esso pure offrire del
sangue, mettendosi al livello dei mostri.
La pena di morte è necessaria, dicono i partigiani degli antichi
barbari usi; senza di essa non ci sono freni abbastanza potenti contro
i delitti. Chi ve lo ha detto? Avete calcolato tutte le specie di mezzi
con i quali le leggi penali possono agire sulla sensibilità umana?
Ahimè! prima della morte, quanti dolori fisici e morali l'uomo deve
soffrire! Il desiderio di vivere si inchina davanti all'orgoglio, la
più imperiosa delle passioni che il cuore umano; la più terribile di
tutte per l'uomo sociale, è l'obbrobrio, la schiacciante testimonianza
dell'esecuzione pubblica.
Quando il legislatore può colpire i cittadini in tanti lati ed in tanti
modi, come può credersi ridotto ad impiegare la pena di morte? Le pene
non sono fatte per tormentare i colpevoli; ma per impedire il delitto,
il quale teme appunto di incorrere nelle pene. Il legislatore che
preferisce la orte e le pene atroci ai mezzi più dolci che sono in suo
potere, oltraggia la delicatezza pubblica, affievolisce il senso morale
nel popolo ch'egli governa, come un poco abile precettore che, coll'uso
frequente di modi crudeli abbrutisce e degrada l'animo del suo allievo,
il legislatore abusa ed indebolisce le energie del governo, volendo
troppo piegare l'arco del potere. Il legislatore che stabilisce questa
pena rinuncia a quel principio salutare, che " il mezzo più efficace
per reprimere i delitti è quello di adattare le pene al carattere delle
differenti passioni che causano il delitto", e di punirle, per così
dire. per sé stesse. Esso confonde tutte le idee, turba tutti i
rapporti e contraria apertamente lo scopo delle leggi penali.
La pena di morte è necessaria, dite voi! Se è così, perché parecchi
popoli hanno saputo farne a meno? Per quale fatalità questi popoli sono
stati i più saggi, i più felici, i più liberi? Se la pena di morte è la
più appropriata per prevenire i grandi delitti, bisogna dunque che essi
sieno stati molto rari presso i popoli che l'hanno adottata e
prodigata. Invece accade precisamente tutto il contrario.
Guardate il Giappone: in nessuna parte del mondo si è tanto prodighi
della pena di morte, si è tanto prodighi di supplizi; in nessuna parte
del mondo i delitti sono così frequenti e cosi atroci. Si direbbe che i
Giapponesi vogliono disputare di ferocia con le leggi barbare che
oltraggiano e che irritano. Le repubbliche della Grecia, ove le pene
erano molto moderate, e dove la pena di morte era infinitamente rara o
sconosciuta, forse che avevano più delitti e meno virtù dei paesi
governati da leggi sanguinarie? Credete voi che Roma fosse funestata da
un maggior numero di delitti, quando,
nei giorni della sua gloria, la legge Porcia ebbe distrutte le pene
severe portate dai re e dai decemviri, di quanti se ne consumavano
quando Silla le fece rivivere, e sotto gli imperatori che ne elevarono
il rigore ad un eccesso degno della loro infame tirannide? La Russia è
stata forse sconvolta, dacché il despota che la governa ha intieramente
soppressa la pena di morte, come s'egli volesse espiare con questo atto
di umanità e di filosofia il delitto di tenere dei milioni di uomini
sotto il giogo del potere assoluto?
Ascoltate la voce della giustizia e della ragione; essa ci grida che i
giudizi umani non sono mai abbastanza certi, perché la società possa
condannare a morte un uomo condannato da altri uomini soggetti ad
errare. Se anche voi aveste immaginato il più perfetto ordinamento
giudiziario, se aveste trovati i giudici più integri e più illuminati,
sarà sempre possibile un errore, non evitereste assolutamente la
prevenzione.
Perché impedire il mezzo di riparare? Perché condannate
all'impossibilità di tendere una mano soccorritrice all'innocente
oppresso? Che importano gli sterili rimpianti, le riparazioni illusorie
che voi accordate ad un'ombra vana, ad una cenere insensibile? Essi
sono tristi testimonianze della barbara temerità delle vostre leggi
penali. Togliere all'uomo la possibilità di espiare il suo malfatto col
pentimento o con degli atti di virtù, chiudergli senza pietà il ritorno
alla virtù, alla stima di sé stesso, adoperarsi per farlo più presto
scendere, per così dire, nel sepolcro ancora tutto avvolto dalla
macchia recente del suo delitto, è ai miei occhi una delle più
raffinate crudeltà.
Il primo dovere del legislatore è di formare e di conservare gli usi
pubblici
sorgenti di tutte le libertà, sorgenti di tutta la felicità sociale;
allorché per giungere ad uno scopo particolare, egli si allontana da
questo scopo generale ed essenziale, commette il più grossolano ed il
più funesto degli errori.
Bisogna dunque che le leggi presentino sempre ai popoli il modello più
puro della giustizia e della ragione. Se, al posto della severità
potente, della calma moderata che deve caratterizzarle, esse mettono la
collera e la vendetta; se esse fanno colare del sangue umano che
possono risparmiare e che non hanno diritto di spargere; se esse
espongono agli occhi del popolo scene crudeli e cadaveri martoriati
dalle torture, allora alterano nel cuore dei cittadini le idee del
giusto e dell'ingiusto, allora fanno germogliare nel seno della società
dei pregiudizi feroci che alla loro volta ne producono degli altri.
L'uomo non è più per l'uomo un oggetto altamente sacro, si ha una idea
meno grande della sua dignità, quando l'autorità pubblica si ride della
vita umana. L'idea dell'assassinio ispira meno spavento, quando la
legge stessa ne dà l'esempio e lo spettacolo; l'orrore del delitto
scema, poiché lo si punisce con un altro delitto. Guardatevi bene dal
confondere l'efficacia delle pene con l'eccesso della severità; l'una è
assolutamente l'opposta dell'altro. Tutto asseconda le leggi moderate,
tutto cospira contro le leggi crudeli.
Si è osservato che nei paesi liberi i delitti erano più rari, perché le
leggi penali eran più dolci. I paesi liberi sono quelli nei quali i
diritti dell'uomo sono rispettati, e dove di conseguenza le leggi sono
giuste. Dappertutto dove esse offendono l'umanità con un eccesso di
rigore, si ha la prova che la dignità dell'uomo non è conosciuta, che
quella del cittadino non esiste; si ha la prova che il legislatore non
è che un padrone che comanda a degli schiavi, e che li colpisce
spietatamente seguendo la sua fantasia.
Io concludo perché la pena di morte sia abrogata.
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